Corriere della Sera - La Lettura
Ritraggo le ferite delle donne
Ruslan Mellin è un dentista siberiano di 31 anni che è diventato chirurgo maxillofacciale quando ha incontrato la prima vittima di violenza maschile. Da allora non ha più smesso di curare e dipingere. Anche i tormenti del Covid
AKemerovo, che chiamò «Città dei fiori», nella Siberia profondissima, il poeta futurista russo Vladimir Majakovskij dedicò un poema; qui, nel secondo dopoguerra, venne costruito un Gulag; qui, nel 2018, un drammatico incendio nel centro commerciale «Ciliegia d’inverno» uccise 64 persone: tra loro 41 erano bambini.
Kemerovo, regione di Krasnojarsk, tra i più importanti bacini carboniferi della Russia, è situata oltre tremila chilometri a est di Mosca. La vicenda di Aleksej Naval’nyj, non fosse per le proteste nella vicina Novosibirsk, è un’eco lontana. Qui, in piena Siberia, dove nelle cittadine più sperdute c’è carenza di medici e l’assistenza sanitaria viene garantita dieci volte all’anno dal passaggio del Saint Lukas Medical Train, lavora Ruslan Mellin, nato 31 anni fa a Minusinsk, a metà strada tra la capitale della regione e il confine con la Mongolia. Nel tempo libero e nelle rare pause durante i turni nel Kovidavia, il reparto Covid di Kemerovo, riempie decine di taccuini con i ritratti dei malati e dei colleghi, assieme ai quali ha affrontato l’emergenza pandemica. La rivista internazionale «The Art Newspaper» parla di lui dopo che Russia Today, emittente filogovernativa, gli ha dedicato il documentario Art in the red zone e Meduza, sito web d’opposizione con sede in Lettonia, ha reso nota un’altra parte della sua produzione artistica: i ritratti delle vittime di violenza domestica, un’emergenza nazionale in Russia. Tre suoi disegni sono stati selezionati per The Corona case, il concorso internazionale della Licht Feld Gallery di Basilea, che premierà i 20 migliori poster sul tema della pandemia. Parliamo in teleconferenza con Ruslan Mellin, reduce da un turno di 36 ore.
Dottore, com’è stata gestita l’emergenza Covid nell’ospedale in cui lavora?
«A partire da gennaio 2020, quando s’è saputo del coronavirus, nei reparti sono iniziate riunioni quotidiane di aggiornamento. A marzo abbiamo registrato i primi decessi, la crescita del contagio era davanti agli occhi, i morti aumentavano di giorno in giorno. Ci siamo spaventati molto, gli spazi non bastavano più e tutto è stato riorganizzato per incrementare il numero dei posti letto fino all’apertura di un reparto dedicato».
Come ha vissuto in quest’ultimo anno?
«È stato difficile. Lavoravamo per turni di sette ore indossando tute e occhiali protettivi, che mi hanno causato ferite al viso e dermatiti. Siamo stati criticati dai pazienti, e dai loro familiari, che si lamentavano di non poter accedere alle cure. Un peso morale enorme per noi medici. Credo che le persone non abbiano compreso la gravità della situazione».
Che cosa ha rappresentato nei disegni del concorso?
«La lotta contro la morte di una paziente, deceduta tra le mie mani; lo sguardo dei colleghi. Sotto le maschere protettive, gli occhi erano l’unico modo per comunicare tra di noi e riconoscere i nostri stati d’animo».
Nell’ultimo anno è stato coinvolto nell’emergenza coronavirus, ma la sua specialità è la chirurgia maxillofacciale, grazie alla quale ha curato e cercato di aiutare molte vittime di violenza domestica, soprattutto donne. La sua
produzione artistica, finora sconosciuta, è una testimonianza di queste due esperienze. Come si intrecciano medicina e arte nella sua vita?
«Nel tempo libero mi piace dipingere a olio, soprattutto parti del corpo umano e temi politici. Ci sono molte similitudini nel lavoro di pittore e di medico, come la ricomposizione dei tessuti durante gli interventi di chirurgia facciale, la diluizione dei liquidi, l’uso di diversi strumenti. Da quando sono entrato nel reparto Covid, la necessità di disegnare è stata istintiva, volevo lasciare memoria della pandemia che ha sconvolto il mondo. Sono molto sensibile alle storie dei pazienti e delle donne maltrattate, che cerco di aiutare a denunciare gli aggressori». Ci sono casi ai quali è più legato?
«Tutte le storie delle pazienti sono importanti: le racconterò nel libro Trauma
Incompatible with Love in cui i miei disegni sono accompagnati dalla descrizione delle loro vicende. Uscirà in autunno. La prima vittima di violenza che ho curato è stata la ragione per cui, nel 2017, ho iniziato a studiare chirurgia maxillofacciale; prima ero dentista. La donna, arrivata all’ospedale senza documenti, mi raccontò della sua esperienza di abbandono: l’orfanotrofio, poi il riformatorio, poi il carcere per furto. Quando venne rilasciata, iniziò a vivere con un uomo e a fare la badante per sua madre. Una sera l’uomo rientrò a casa ubriaco, prese un’ascia, la picchiò sul volto e sulle mani, che lei usava per difendersi. La tenne sequestrata per un mese. La donna riuscì a liberarsi convincendolo a uscire assieme per bere. Fu così che riuscì a scappare».
L’estrema povertà si lega all’abuso di alcol.
«Sì, ma la violenza domestica esiste anche nei contesti più benestanti. Una donna, mamma di due bambini, viveva segregata in casa dal marito, che la picchiava davanti ai figli. La donna riuscì a fare le fotocopie dei documenti di identità, che l’uomo le aveva nascosto, ma venne scoperta. Per vendicarsi, il marito invitò alcuni amici a cena, si ubriacò e la malmenò davanti a tutti. Dopo la denuncia della donna, gli ospiti dichiararono che le ferite erano state inferte dall’amante, non dal marito. Alla fine, la donna fu incolpata e denunciata. La vicenda è finita in tribunale».
Come ha ottenuto il consenso dalle vittime a essere ritratte?
«Molte hanno paura, cercano di nascondere la verità dicendo di essere cadute. In quei casi, ritraggo le mie colleghe e sui loro visi riproduco le lesioni che queste donne hanno subito».
La sua attività artistica è una denuncia sociale, teme qualcosa per sé stesso?
«Spesso ricevo messaggi intimidatori. Benché sia psicologicamente difficile, continuerò a ritrarre pazienti vittime di soprusi e risponderò di ciò di cui sono testimone, se necessario. La violenza non è accettabile. Prima che abbandonasse la nostra famiglia, anch’io vedevo mio padre maltrattare mia madre, è un’esperienza traumatica per i bambini».
Ora che è riconosciuto come artista, cambierà qualcosa nella sua vita?
«Ho studiato arte, ma poi, a 17 anni, ho iniziato odontoiatria a Kemerovo perché volevo fare il medico. I colleghi mi chiedono: “Perché rimani ancora qui?”. È vero, i salari non sono molto alti e corro il rischio di infettarmi perché i miei pazienti sono spesso sieropositivi. Tuttavia, prima di tutto io sono un chirurgo, è la mia vita, non immagino di fare qualcosa di diverso. L’arte è un fatto esclusivamente personale».