Corriere della Sera - La Lettura

Il nostro sguardo non sa più vedere

- di DAVIDE FERRARIO ILLUSTRAZI­ONE DI ANGELO RUTA

Una storiella domestica racconta cosa succede alle capacità di comprensio­ne dei «testi video»: spesso la compagna del regista riguarda la stessa puntata di un talent perché dimentica quello che ha già visto. Il problema si complica se il regista invita gli amici a visionare un film:

il deficit di attenzione aumenta. Smartphone e iWatch comportano una perdita di attenzione verticale, che articola informazio­ni nel tempo, a favore dell’attenzione orizzontal­e, legata all’infinito presente

Comincia con una storiella di convivenza domestica. La mia compagna è un’appassiona­ta di Masterchef; di solito, però, si addormenta prima della fine della puntata. Così capita che la riveda il giorno dopo: ma non da dove si è interrotta, la rivede dall’inizio. Un giorno mi accorgo che è almeno la quarta volta che guarda il medesimo episodio. Le chiedo: «Ma non ti annoi?». Lei, soave, mi risponde che non si ricorda mai cosa ha visto la volta prima. Le sembra sempre nuova. Un giorno lo racconto a un amico e ammette candidamen­te che capita anche a lui. «Okay, può succedere...», penso. In fondo, la tv non è molto più che un elettrodom­estico. Non lascia traccia di sé, è effimera per natura: altrimenti come faresti a digerirne gli orrori quotidiani senza suicidarti o almeno finire dallo psichiatra, come in quel film di Woody Allen?

Però poi succede un altro fatto. Giro un nuovo film e comincio a montarlo. In questa fase capita spesso che inviti amici o gente di passaggio a vederne il

work in progress. Le domande che pongo sono di due tipi. Uno riguarda il gradimento generale del film. L’altro, la comprensib­ilità oggettiva della storia. Per esempio, nel caso in questione, scopro che molti non riconoscon­o un’attrice perché in una scena ha i capelli sciolti e nell’altra sono raccolti in uno chignon. Ma il problema è un altro. È che comincio a ricevere una serie di osservazio­ni di cui non riesco a capire la ragione. Variano da spettatore a spettatore e riguardano situazioni diverse. La cosa più strana è che se a vedere il film sono più persone insieme, ciascuna rileva un problema laddove le altre hanno interpreta­to la scena in modo corretto. Insomma: posso capire la faccenda dell’acconciatu­ra dell’attrice, ma il resto non sembra avere senso. A un certo punto uno mi parla di un personaggi­o descrivend­olo come «il manager», mentre nella storia è un giornalist­a. Gli faccio rivedere le scene in questione: non c’è verso di pensare che quello sia un manager. Lui non sa dirmi perché gli è venuta quell’idea.

Ora, vedere un film al cinema in una sala buia è un’esperienza diversa che consumarlo come capita oggi, facendo mille altre cose, fermandolo, velocizzan­dolo, lasciandol­o lì da un giorno all’altro o guardandol­o mentre si parla al telefono. Ma io sto parlando di visioni «controllat­e», con il sottoscrit­to presente a osservare che gli spettatori facciano quello e solo quello. È qualcosa che non mi era mai capitato. Non posso non chiedermi che cosa stia succedendo.

È sotto gli occhi di tutti la trasformaz­ione della visione negli ultimi quindici anni. E non si tratta solo di cinema. Non c’è campo della vita e del lavoro, ormai, in cui la nostra attenzione si focalizzi in modo esclusivo su un solo oggetto. A cominciare dalla sbirciata compulsiva allo smartphone, siamo dentro un vortice di sollecitaz­ioni percettive che difficilme­nte hanno un centro. Lo chiamano multitaski­ng edè un’evoluzione tecno-biologica dell’umanità.

Oggi siamo in grado di fare molte cose contempora­neamente. Mi chiedo però se significa anche farle sufficient­emente bene. Ammetto che tutto ciò che sto scrivendo è conseguenz­a di privatissi­me osservazio­ni e riflession­i: ma mi sembra di trovare continui riscontri empirici. Il ragionamen­to è semplice: data 100 la nostra capacità di elaborare le informazio­ni, se ne riceviamo una sola siamo certi di elaborarla al massimo; ma se ne seguiamo dieci contempora­neamente, dedicherem­o a ciascuna un decimo dell’attenzione di cui necessita. E in effetti la superficia­lità argomentat­iva, il deficit di attenzione, la disfunzion­alità linguistic­a sono fenomeni chiarament­e in atto nella società, documentat­i da statistich­e e lamentati dagli studiosi.

Ma il problema è ancora più inquietant­e. Mentre è plausibile attendersi che tutto questo avvenga in situazioni «multisenso­riali», come spiegare che il deficit di attenzione si verifica anche in contesti controllat­i come quelli che ho descritto? La risposta è inquietant­e: la nostra mente sta perdendo l’elasticità necessaria a riconverti­re l’attenzione da molti oggetti a uno solo. Immaginate la nostra percezione come un grande split screen in cinemascop­e diviso in tante parti costanteme­nte in funzione. Se le spegni tutte meno una, non è che l’attenzione va a focalizzar­si solo sullo schermo che è rimasto acceso: resta «aperta» anche al nulla che proviene dagli altri, diminuendo la capacità di concentrar­si. Stai pensando comunque ad altro e il giornalist­a diventa un manager per qualche connession­e fortuita.

A questo proposito mi viene in mente una conversazi­one con Umberto Eco, nella quale il semiologo lamentava la scomparsa della memoria nei suoi studenti. «Se non leggono dagli appunti che hanno preso, alla fine di una lezione sono raramente in grado di dirmi quello che gli ho spiegato». È come se l’attenzione «orizzontal­e», legata all’in

presente in cui viviamo, avesse come prezzo da pagare la perdita dell’attenzione “verticale”, quella capace di articolare le informazio­ni nel flusso del tempo.

C’è un’ironia del destino in questo fenomeno. È la nemesi decretata dagli Dei nei confronti del linguaggio cinematogr­afico del Novecento. Il montaggio — fin dai tempi delle teorie eisenstein­iane — è nei fatti la capacità di eliminare segmenti di informazio­ne realistica per produrre un flusso di credibilit­à più intenso, tipico del cinema.

Pensate solo a come viene manipolato il senso del tempo in un film. Un processo che si basa sul direzionam­ento dell’attenzione dello spettatore solo su ciò che è strettamen­te necessario alla storia. Ma oggi questo linguaggio artistico sta implodendo sotto la spinta di modificazi­oni biofisiche indotte dalla tecnologia. La mente dello spettatore rifiuta di legarsi a una sola fonte di attenzione: pensate al fiorire dei cellulari nelle platee di cinema e teatri. Luoghi dove una volta, in caso di mancanza di interesse, al massimo ti addormenta­vi.

A proposito di cellulari: da qualche mese la Zeiss pubblicizz­a una nuova linea di lenti. Così recita lo spot della campagna: «L’era delle tecnologie digitali mette a dura prova i nostri occhi, che passano in continuazi­one dagli schermi alla realtà anche mentre siamo in movimento». È nato così un nuovo tipo di lente per occhiali che cerca di risolvere i problemi legati alla focalizzaz­ione di un oggetto digitale. Alla fine dell’Ottocento, quando è cominciata l’epoca delle immagini in movimento, è iniziato un processo lento ma lineare: gli schermi si sono fatti sempre più piccoli. L’era d’oro del cinema è coincisa con la diffusione del cinemascop­e e del 70mm: schermi enormi che potevano essere visti contempora­neamente da duemila persone in una sala. Poi è arrivata la television­e, quindi i computer. Infine i tablet, gli smartphone e — last

but not least — gli iWatch.

Tutto questo ha due conseguenz­e. La prima è strettamen­te fisiologic­a: abbiamo perso progressiv­amente la capacità di avere uno sguardo «largo». Lo schermo sempre più piccolo chiude la prospettiv­a focale su qualcosa di ridotto e vicino, disallenan­do la mente a cogliere il senso generale di quello che vediamo, a favore del dettaglio.

La seconda ha implicazio­ni di antropolog­ia culturale. Molto spesso, ormai, tra noi e le cose c’è uno schermo, e spesso questo schermo riquadra la stessa realtà che vediamo con gli occhi, caricandol­a di una sorta di «senso aumentato». È il meccanismo che sta alla base dell’uso maniacale dello smarfinito tphone in eventi pubblici o in situazioni quotidiane: filmare il mondo e sé stessi nel mondo come prova della propria esistenza.

A mia memoria, il primo esempio di massa di questo fenomeno furono i funerali di Papa Wojtyla il 2 aprile 2005. Ricordo i fedeli in lutto in piazza per tre giorni e poi, quando il corteo funebre attraversò la folla silenziosa, l’inattesa e improvvisa comparsa di centinaia di telecameri­ne che immortalav­ano la salma. La devozione si coniugò all’improvviso con la tecnologia: ognuno fu in grado di prodursi il suo santino privato.

Negli anni successivi la possibilit­à di fare riprese (gratis!) con gli smartphone ha moltiplica­to la cosa all’ennesima potenza, modificand­o la fisiologia stessa della visione. Pensate a come la funzione scroll costringa gli occhi a un tipo di sforzo mai presentato­si prima nella storia dell’umanità: inseguire parole e immagini che si muovono velocissim­e in verticale.

Peraltro, guardare lo schermo di un cellulare richiede l’opposto delle abilità associate alla ripresa cinematogr­afica. Da sempre i cameramen profession­ali hanno guardato dentro un mirino, con un occhio chiuso e spesso sotto un telo nero. Per fare un’immagine bisognava isolarla dal resto. Ma a metà degli anni Ottanta arrivarono le Handycam, ricordate? Il display per la ripresa venne separato dall’obiettivo. All’improvviso si poteva controllar­e contempora­neamente l’inquadratu­ra e quello che le succedeva intorno. Ma così cadeva anche la separazion­e tra le due dimensioni: quello che sta al di qua e quello che sta al di là dell’obbiettivo. Trentacinq­ue anni dopo gli schermi dei telefonini sono diventati contempora­neamente display, mirino, obiettivo e schermo: queste superfici retroillum­inate stanno dentro la realtà — e certe volte la sostituisc­ono.

Come ha scritto Vanni Codeluppi su «la Lettura» del 14 marzo scorso (#485), «sì è fortemente indebolito il potere posseduto dal nostro sguardo: il potere di comprender­e il mondo per riuscire a modificarl­o. (...) Oggi, invece, per poterlo esercitare siamo necessaria­mente costretti a ricorrere a uno schermo e alle immagini che circolano al suo interno».

C’è un’ultima osservazio­ne che forse ci aiuta a capire: sta dentro l’etimologia della parola «schermo». Che nella modernità ha assunto il significat­o di «superficie su cui si proietta un’immagine», ma la cui radice antica ha piuttosto a che fare con il concetto di difesa. Uno schermo è prima di tutto qualcosa dietro cui ci si ripara, fisicament­e e figurativa­mente.

Ecco così che gli schermi che portiamo nel palmo della mano ci rivelano la loro funzione più nascosta. Non sono solo lo strumento per intervenir­e nella realtà (virtuale o meno), sono anche gli scudi dietro i quali ci proteggiam­o da essa.

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