Corriere della Sera - La Lettura
Ho vistola realtà svanire Ho fatto svanire la realtà
Florian Zeller portò a teatro la storia di un padre che perde le facoltà mentali e di una figlia disperata. Quella pièce è diventata il film con il quale il regista ha vinto l’Oscar per la sceneggiatura non originale e Anthony Hopkins come attore. «Narro le paure di tutti»
«Sono stato cresciuto da mia nonna, è stata come una madre. Ha cominciato a soffrire di demenza quando avevo 15 anni. Anche mio nonno, dall’altro ramo della famiglia, ne soffriva, ho sempre pensato che fosse parte del mio Dna. Quello che non sapevo era se le persone avrebbero voluto condividere questa esperienza sul palco. Mi ha sorpreso e toccato vedere la risposta del pubblico: molto forte, sia qui in Francia che altrove (lo spettacolo è andato in scena in 35 Paesi). Sempre la stessa cosa, le persone ci cercavano dopo le repliche per condividere le loro storie. Da lì ho cominciato a sognare di fare questo film, tutto comincia con un sogno, soprattutto il cinema». Quello che ancora Florian Zeller non sapeva era se Anthony Hopkins, l’unico attore di cui visualizzava il volto sullo schermo, avrebbe accettato la parte di protagonista di The Father. Nulla è come sembra (dal 20 maggio in sala con Bim), trasposizione cinematografica scritta con Christopher Hampton della sua pièce Il padre (Le père) andata in scena a Parigi nel 2012, vincitrice di un premio Molière, prima di debuttare a Broadway e nel West End londinese, dove ha ottenuto Tony e Olivier Award per il miglior attore (Frank Langella e Kenneth Cranham).
È la sua opera prima, grazie alla quale con Hampton ha vinto l’Oscar per la miglior sceneggiatura non originale e Hopkins quello come miglior attore. Interpretazione magistrale di un ultraottantenne, indipendente e volitivo, che non si arrende di fronte ai tradimenti della mente, di fronte alla figlia (Olivia Colman), a sua volta restia ad accettare il cambio di prospettiva, tragico: lei badante, lui accudito.
«The Father» incrocia due traiettorie dolorose. Quella di un uomo che vede la realtà svanire davanti ai suoi occhi e quella della figlia che non sa rispondere alla domanda: «Cosa devo fare?».
«Volevo raccontare la storia dall’interno, cosicché il pubblico potesse avere una posizione attiva nella narrazione. È stata la prima idea, giocare con il senso di disorientamento dello spettatore, far capire cosa si provi a perdere il senno. Ma allo stesso tempo volevo fosse anche la storia di una figlia che affronta questa situazione dolorosa, prova a salvare qualcosa che non è facile salvare. Perciò sono stato felice di avere Olivia Colman. È la più grande attrice in attività. La vedi e ti senti in empatia con lei, avevo bisogno di qualcuno che sapesse creare quell’emozione, prenderci tra le sue braccia».
Il film sfiora toni thriller, persino horror. Ha detto di volerci far sentire come alla ricerca di una «via d’uscita da un labirinto». In che senso?
«Credo che il pubblico sia intelligente, non volevo rendere tutto troppo facile a chi guarda, ma che si provasse a giocare con i pezzi del puzzle per trovare la quadra. Comincia come un thriller, all’inizio siamo soltanto dentro all’appartamento di Anthony, e c’è uno sconosciuto che finge che quella sia casa sua, e questo crea paura, ansia, incertezza. Volevo giocare con queste emozioni, passo dopo passo. Il film è, appunto, un puzzle, bisogna giocare con le combinazioni per farlo funzionare ma non funziona mai perché manca un pezzo al puzzle. È fatto apposta. Arriva un momento in cui devi lasciare andare, capire che il tuo cervello non sa capire tutto. E la storia si sposta su un altro livello, più emozionale. Il viaggio è spesso complicato, non sei sicuro di chi sia chi, cosa sia successo prima o dopo, è abbastanza complicato, e se ci sono delle contraddizioni devi farci i conti senza averne i mezzi. Ma, alla fine, penso che tutti siano capaci di capire bene la storia, le emozioni, accettare di non capire, e lasciare che sia il cuore a raccontarla».
La casa sembra un personaggio a sé: è intenzionale?
«Sì, è stato parte dell’adattamento: quando ho cominciato a scrivere il copione ho disegnato il layout dell’appartamento. Ho deciso di girare in studio per avere tutta la libertà di fare i cambiamenti che volevo, per creare quel senso di disorientamento. All’inizio siamo a casa di Anthony, non c’è dubbio, questo è il suo spazio, i suoi ninnoli, il suo arredamento, riconosciamo tutto. Gradualmente si verificano queste piccole metamorfosi, piccoli scarti. Non sai esattamente cosa, ma qualcosa è cambiato. Non volevo che fosse evidente, ma sufficiente a farti dubitare di cosa sia reale e cosa non lo sia».
La sua principale influenza in teatro è Harold Pinter. Al cinema?
«Qui il primo riferimento era il mio spettacolo. Ma ho anche pensato a Mulholland Drive di David Lynch, dove la narrativa è come in prima persona. Mi ricordo che la prima volta che l’ho visto ero entusiasta all’idea di dover essere io, da spettatore, a farlo funzionare».
Non film su Alzheimer o demenza?
«Non ne conosco molti sull’argomento. Ricordo Still Alice, bello, Julian Moore è un’attrice incredibile, impossibile non sentirsi in sintonia con lei. Ma questo era esattamente quello che non volevo fare: in queste opere sai già dall’inizio dove sei e dove stai andando».
Si aspettava una simile accoglienza?
«Non ne ero affatto sicuro. Ma da qualsiasi parte del mondo uno venga, tutti abbiamo un padre, tutti abbiamo paura, tutti abbiamo la consapevolezza che siamo qui solo per un certo periodo e dobbiamo vivere al meglio. E non sappiamo fare i conti con questi sentimenti».
Lei nasce romanziere, ha debuttato a 22 anni con «Neiges artificielles», seguito da «Gli amanti del nulla» (Futura) e «Il fascino del peggio» (Newton Compton). Quindi il teatro e ora il cinema. Continuerà con la regia?
«Non lo so. Il cinema è qualcosa di nuovo per me, ma è anche la continuazione di quello che stavo facendo finora: lavorare con gli attori e cercare di raccontare storie. È stata un’esperienza così intensa e piena di gioie che sento davvero di voler continuare questo percorso».