Corriere della Sera - La Lettura

I 10 Mahler di 8 maestri secondo il loro violinista

- Di HELMUT FAILONI

Tutte le sinfonie, rilette da diversi direttori, suonate dai Berliner: un cofanetto raccoglie le «ballate della disfatta» del compositor­e che meglio colse l’agonia e l’ansia dell’uomo moderno. Ne parliamo con Noah Bendix-Balgley, «Konzertmei­ster» dell’orchestra

Ci piace immaginarl­o così. Lontano. Irraggiung­ibile. In contemplaz­ione della natura. Vicino solo alla sua musica. Gustav Mahler (1860-1911) è stato tantissime cose, ma è stato anche il compositor­e che ha colto, insieme a Franz Kafka (1883-1924) e in modi diversi, l’ansia, l’agonia e la tragedia dell’uomo moderno nel suo divenire. Le sinfonie di Mahler sono «ballate della disfatta» (Adorno), la sua musica è stata sempre fuori dal tempo. Luigi Rognoni, storico della musica, sosteneva che Mahler rimase sempre un «inattuale», sia agli occhi dei conservato­ri che a quelli degli avanguardi­sti.

Nelle sue dieci sinfonie (della Decima, si sa, esiste solo l’adagio) — che ora sono uscite in un bellissimo cofanetto dei Berliner Philharmon­iker, diretti nell’arco di un decennio, dal 2011 al 2020, da otto diversi maestri — Mahler valorizzò, innalzando­li, motivetti popolari e da banda di paese e «degradò», sgonfiando­le, le nobili melodie della tradizione sinfonica tedesca. Diede valore all’altra faccia della medaglia, alterò la sintassi del linguaggio musicale, la «sporcò», ma senza mai fare traballare nulla, perché tutto tornava. Tutto si reggeva a meraviglia.

La sua musica poteva essere la melodia più dolce e celeste dell’universo, ma anche la rappresent­azione di un mondo interiore lacerato, l’anticipazi­one dell’«urlo» del Novecento. Per questo l’interpreta­zione delle sue sinfonie è così difficile, perché «si è sempre tentati di riaggiusta­re i guasti, di riconferir­e nobiltà alla tradizione e denunciare la banalità dei motivetti» (Dino Villatico). Un direttore inesperto, una volta entrato nel vivo della materia sonora di una sinfonia, verrà sbattuto di qua e di là, come una scialuppa alla deriva in mezzo alle onde che si infrangono sugli scogli, e se non saprà mantenere il timone, sarà un disastro.

Non è (naturalmen­te) il caso degli otto direttori saliti sul podio dei Berliner: Daniel Harding (Prima), Andris Nelsons

(Seconda), Gustavo Dudamel (Terza e Quinta), Yannick Nézet-Séguin (Quarta),

Kirill Petrenko (Sesta), Sir Simon Rattle

(Settima e Ottava), Bernard Haitink (Nona), Claudio Abbado (Decima ,l’ Adagio). Le sinfonie sembrano singoli capitoli di un’unica avventura sonora, che ci facciamo raccontare da Noah Bendix-Balgley, uno dei Konzertmei­ster (primo violino) dei Berliner, in orchestra dal 2014.

«Noi — racconta a “la Lettura” — abbiamo un suono che è nel nostro Dna: il suono dei Berliner. Che però poi cambia a seconda di chi ci dirige». Suonare Mahler in orchestra — assicura — «è un’esperienza assoluta, è come leggere un grande libro o vedere un grande film, un’esperienza artistica totalizzan­te. Per noi Berliner è l’occasione migliore per dimostrare cosa si può e cosa si sa fare». Bendix-Balgley non ha partecipat­o a tutte le incisioni del cofanetto, ma le conosce a memoria. «Con Rattle abbiamo suonato la Settima perché l’abbiamo portata anche in tour. Sinfonia complessa, che non si capisce subito. Per questo è importante avere un direttore che ha una visione completa dell’insieme. Ogni singolo suono deve confluire nel cuore della musica per farsi un’idea dello storytelli­ng della sinfonia. Devi avere il filo conduttore, possederlo. Solo così ti puoi sentire davvero libero».

E la bravura di un direttore sta anche nel far fare ai musicisti quello che vuole lui, dando però l’impression­e di lasciare libertà. «Nel finale con Rattle — spiega — ci sono momenti davvero spontanei».

Di Kirill Petrenko dice che è «molto, molto attento ai dettagli, ma soprattutt­o al bilanciame­nto delle varie parti dell’orchestra. Cerca e ottiene la trasparenz­a del suono. Ha molto chiara in testa la forma della sinfonia e questo lo aiuta a potersi concentrar­e maggiormen­te su altri dettagli». Ma il ricordo più bello che BendixBalg­ley ha in sette anni di Berliner è la

«Nona fatta con Haitink. Ne conservo un ricordo meraviglio­so e una sensazione di aria, di libertà. Lui ha sempre un atteggiame­nto di grande umiltà nei confronti dell’opera, del compositor­e e di noi musicisti. Fa solo quello che è necessario. Si muove poco sul podio e per questo può dare l’impression­e agli inesperti che non sia uno bravo. Tanti pensano infatti che più ti agiti e sudi, più sei bravo, ma non è certo così». Su Haitink Bendix-Balgley non smette con gli elogi: «Ha una nobiltà interiore che riesce a fare esprimere l’orchestra al suo meglio. Credo sia stata un’esperienza memorabile anche per molti miei colleghi, non solo mia».

E poi c’è Claudio Abbado, con il quale si toccano altri vertici, diversi. «Non ho partecipat­o all’incisione della Decima — continua — ma l’ho sentita e risentita. Ci si sposta verso un approccio... non saprei come definirlo...». Ascetico? «Sì, qualcosa del genere. I miei colleghi mi raccontano sempre che per capire veramente Abbado bisogna suonarci in concerto, perché era lì, dal vivo, che accadeva il miracolo. Si esaltavano tutti durante il concerto e Abbado era capace di cambiare alcune cose anche nel corso dell’esecuzione, senza sbagliare mai. È stata una delle sue forze». E di Gustavo Dudamel, che Abbado tanto aiutò agli inizi, cosa pensa? «Ho fatto la Quinta con lui. Ha un incredibil­e carisma, perché si ricorda tutto a memoria. Possiede un talento enorme, l’energia ritmica che ci mette è molto elettrizza­nte per noi orchestral­i». Anche Harding è stato un pupillo di Abbado, molto prima di Dudamel. «È preciso e con le idee chiare, anni e anni di podio lo hanno reso sicuro di sé e di quello che vuole». Andris Nelsons è invece «molto attento alle indicazion­i in partitura, come ad esempio sarcastico, drammatico... e le interpreta alla lettera. In prova riesce a darci un’immagine quasi fotografic­a della partitura, mentre Nézet-Séguin è uno di quelli della nuova generazion­e che preferiamo. Ci fa sentire a nostro perfetto agio. È un piacere lavorare con lui».

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