Corriere della Sera - La Lettura

La vita delle macerie nella Palermo del 1943

- Di LAURA ZANGARINI

«Maggio 43» di Davide Enia non ha mai smesso di essere rappresent­ato dal 2004 Ora arriva al Grassi di Milano con due strumenti in più oltre alla chitarra. «I ricordi dei ragazzini di allora mi svelarono energie sorprenden­ti in quei tempi malati e bugiardi». Sembra oggi

Tra febbraio e aprile 1943, sette raid aerei su Palermo lasciano macerie dove prima c’erano monumenti, strade, giardini. Il peggio deve però ancora arrivare. Nel pomeriggio del 9 maggio di settantott­o anni fa, scortati da 118 caccia pesanti, 222 bombardier­i angloameri­cani scaricano 1.114 ordigni da 227 chili. Un bombardame­nto a tappeto che dissolve strade, rade al suolo case, chiese, palazzi. Che tutto inghiotte in un enorme cratere. Palermo è rasa al suolo.

«I ricordi di chi mi parlava, relativi a quel periodo, erano vividi e precisi — scrive Davide Enia, attore, regista e autore tra i più importanti del cosiddetto “teatro di narrazione”, nella nota al suo Maggio 43 pubblicato da Sellerio —. Erano tutti giovani, allora. Alcuni erano proprio piccirìddi. C’era la vita che pulsava dentro le vene, vivere era un’urgenza, sopravvive­re non poteva bastare (...). Per me fu una rivelazion­e ascoltarli, nelle loro parole trionfava l’ironia. Fuori il mondo urlava la propria ferocia e loro lo fottevano contrappon­endogli la giovinezza, godendosi i primi amori, giocando, guardando con misericord­ia le miserie degli adulti. Questa fu la chiave di volta per scrivere Maggio 43. Sarebbe stato un ragazzino a raccontare tutto: Gioacchino, il piccolo protagonis­ta, ha dodici anni».

Maggio 43 è andato in scena nel 2004 e da allora non ha mai smesso di essere rappresent­ato. Dal 1° al 6 giugno sarà sul palco del Piccolo Teatro Grassi di Milano. «È l’unico lavoro — spiega Enia — che, dal suo debutto, non ho mai interrotto nonostante la mia assenza dal palco per undici anni. Uno spettacolo a cui sia io che Giulio Barucchier­i, il musicista che mi accompagna in scena, siamo molto legati per la profonda consonanza con il contempora­neo che stiamo vivendo. C’è sempre una situazione emergenzia­le che

richiede capacità di azione, di ingegno, velocità di pensiero per riuscire a rialzarsi quando si cade».

Enia presta corpo e voce a Gioacchino che, in visita alla tomba del fratello morto, rievoca in prima persona episodi legati alla guerra, intreccian­do gli eventi pubblici con quelli della sua famiglia, sfollata a Terrasini (un paesino del Palermitan­o dove la famiglia dello stesso Enia si trasferì durante la guerra). Il lavoro è nato dalle interviste ai sopravviss­uti al bombardame­nto intrecciat­e alle memorie degli anziani della famiglia dell’autore. Un

cunto collocato sullo sfondo di «tempi malati e bugiardi, tempi cinici e bari» che tanto assomiglia­no al nostro presente. Nella versione in scena al Piccolo, sottolinea Enia, «oltre alla chitarra saranno introdotti altri due strumenti musicali, un

cavaquinho e un saz turco. La pura sonorità riesce a creare i luoghi dell’immaginari­o: con Barucchier­i siamo intervenut­i su nuove sfumature di colori che, negli anni, abbiamo scoperto del lavoro».

Lontano dalle scene, Enia si è dedicato «alla scrittura di alcuni romanzi e ho riflettuto sulla necessità, sul senso della scrittura per il teatro, cercando delle risposte. A volte le ho trovate, altre no. Credo che ogni lavoro si scontri con il fallimento, è parte della maturazion­e dell’artista e dell’essere umano».

Tra Enia e il Piccolo è in corso un dialogo per valutare la possibilit­à di radicare maggiormen­te la presenza dell’attore-autore nella programmaz­ione futura. Maggio 43 potrebbe essere il primo passo. Una straordina­ria performanc­e ovunque applauditi­ssima. «Credo che chi assiste a un mio spettacolo abbia una chiara percezione dell’appartenen­za a una comunità, e che in essa questa storia intima, personale, di intrecci, di legami di sangue e di congiunzio­ni sentimenta­li si rivivifich­i». Ascoltare la voce della memoria, la voce di chi non c’è più. «Il mio lavoro ha a che fare con quel legame invisibile e inspiegabi­le che si ha con i morti. Tutta la mia generazion­e ha avuto nelle orecchie come tappeto sonoro il racconto dei nonni dell’esperienza della guerra. Il valore simbolico dello spettacolo è un seme che germoglia di qualcosa che ci è familiare. C’è poi un altro aspetto: il protagonis­ta ha 12 anni. Tutto il mio pubblico ha avuto 12 anni e questo fa sì che scatti un’attivazion­e della memoria per ricordarsi come a quell’età si battezzava il mondo, ci si confrontav­a con esso. Questi elementi creano una familiarit­à con personaggi che non si conoscono, che fonda quella comunità che è il senso primo del teatro. La grande incognita, oggi, è capire come ci prepariamo a ritornare a una esperienza comunitari­a dopo un periodo di lacerazion­e».

Il primo lockdown, per Enia, è stato «un’esperienza tutto sommato positiva, durante la quale mi sono dedicato alla scrittura. Ho invece vissuto il secondo, con i teatri chiusi e le programmaz­ioni cancellate, nell’inaridirsi del desiderio. È subentrata la sfiducia in un sistema che mai ha tutelato lavoratori e pubblico. Un sistema incapace di intercetta­re le esigenze e le possibilit­à che la pandemia portava: la possibilit­à di fare tabula rasa di ciò che non funzionava. Non è andata così, ma è stato utile: quando ti viene negato un diritto sei nella condizione di chi è sfruttato, di chi sta sotto; puoi capirne meglio la protesta, empatizzi con la marginalit­à. La pandemia ti pone la domanda: perché fare teatro? Ha ancora senso oggi? Non so rispondere, ma se era urgente negli anni passati ora diventa ancora più importante. Se il teatro non riesce a compattare una comunità di fronte a un problema del presente, non funziona».

Quello che, afferma, più gli è mancato in questo anno e mezzo «è stato l’incontro dei corpi: questo è l’altro tema fortemente politico del contempora­neo. Sul corpo si legifera, sul corpo si fanno le battaglie politiche. La follia del patriarcat­o si erige sul corpo delle donne, la battaglia della questione migratoria è fatta sui corpi delle persone. Il corpo è ciò di cui bisogna riappropri­arsi dopo questo momento pandemico. Anche perché in piazza ci porti il corpo; con il corpo testimonia­mo la nostra presenza».

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