Corriere della Sera - La Lettura
LA FINE DELLA FINE DELLA PITTURA
Annunciata di volta in volta come in corso, oppure imminente, o addirittura già avvenuta, la crisi del dipinto, del gesto di dipingere, ha attraverso la storia dell’arte come una necessità.
Niki de Saint Phalle spara a una tela, Rauschenberg cancella un disegno di de Kooning, Hammons urina su una scultura di Serra... Su questa furia iconoclasta Peter Fischli ha allestito una mostra alla Fondazione Prada di Venezia. Che qui presenta
«La Lettura» ha chiesto a Peter Fischli di raccontare la mostra che l’artista svizzero ha curato per la Fondazione Prada di Venezia in concomitanza con la XVII Biennale. L’artista ha concepito «Stop Painting», dal 22 maggio al 21 novembre a Ca’ Corner della Regina, «come una pluralità di narrazioni raccontate da lui stesso in prima persona, con un tono soggettivo». Apre il percorso un’opera site-specific di Fischli, un modello in scala del progetto, «la scultura di una mostra di pittura». Testi di Fischli accompagnano le dieci sezioni che accolgono oltre 110 opere di più di 80 artisti. Il progetto esplora cinque momenti «di rottura» nella storia della pittura degli ultimi 150 anni, in relazione alla comparsa di nuovi fattori sociali e culturali. Momenti di rottura che hanno portato al rifiuto della pittura stessa o alla sua reinvenzione...
Era una bella giornata e stavo passeggiando lungo un fiume insieme al giovane artista. Mi parlava dei suoi nuovi dipinti. I lavori che stava creando insieme al suo amico suonavano come l’eco distorta di Mark Rothko: i due aspiravano a dipingere opere libere dai logori concetti di ironia, parodia, imitazione, appropriazione o ammirazione. Ero conquistato, confuso e invidioso. Raccontai al pittore che, quando ero giovane, lo Zeitgeist imponeva di dichiarare «La pittura è morta»: alcuni lo gridavano con veemenza, altri lo sussurravano. Com’è ovvio, mi venne in mente il celebre, meraviglioso, paradossale dipinto scarabocchiato di Jörg Immendorff, Hört auf zu malen («Smettete di dipingere»), che solo in parte è assimilabile al concetto di «smettere di dipingere». Quel dipinto preannunciava che il funerale della pittura sarebbe stato forse rimandato, perché aveva il carattere di un’insubordinazione.
Allora pensai ad annunci funebri più antichi, a cominciare dalla celebre affermazione pronunciata da Paul Delaroche intorno al 1840: «Da oggi la pittura è morta». Come sappiamo, si sbagliava. Cominciai a immaginare come avrebbe potuto configurarsi una mostra dedicata all’esposizione panottica di tutte queste posizioni artistiche. Immaginavo che sarebbe stata un caleidoscopio di gesti ripu
diati, e avrebbe incluso la critica di quei gesti ripudiati.
Ero attratto dal paradosso di una simile narrazione. Mi sembrava necessario includere gesti iconoclasti e più radicali attestazioni di rifiuto totale, uscendo dai confini della critica alla pittura espressa nel discorso accademico; pensavo a Henry Flynt e Tony Conrad, che manifestavano davanti al Moma a New York per «demolire la cultura seria». Aleggiava un dubbio: lo spettro che riappare continuamente per narrare la storia della fine della pittura è un problema fantasma? E in caso affermativo, i fantasmi possono essere reali? Provai a tracciare il vago profilo di una struttura narrativa per una mostra sul tema «smettere di dipingere».
Volevo una storia che fosse possibile raccontare in breve tempo ma che si potesse estendere come un’asta telescopica; qualcosa che desse la sensazione leggera e confortevole della semplificazione e, come corollario, il legittimo sospetto della riduzione della complessità. Qualcosa come «le cinque crisi della pittura» poteva funzionare: poteva avere un senso e al tempo stesso fingere di avere un senso. Volendo essere magnanimo e liberarmi del costume da impresario di pompe funebri, avrei potuto indagare soprattutto su come definire positivamente che cosa diventa la pittura ogni volta che si verifica una crisi.
Quando da più parti si annuncia un funerale, qual è il prodotto di ciascuna crisi? E quali circostanze la producono? Quali sono i momenti che invocano un mutamento di paradigma? Avrei potuto cominciare stilando una lista oppure un elenco dei momenti di decostruzione e negazione, o di inclusione ed esclusione. E i diversi argomenti in favore di quei gesti iconoclasti. La decostruzione può avvenire in modi diversi. Il gesto più aggressivo è decisamente quello iconoclasta, che incarna l’idea di distruzione. Ecco perché il catalogo della mostra è illustrato con immagini di artisti che mi piace definire «all’opera», intenti ad attaccare la tela. Talvolta l’attacco è molto diretto, come nel caso di Niki de Saint Phalle che spara a una tela, o di Lee Lozano che in General Strike Piece (1969) annuncia l’astensione dalla pratica artistica.
Tra le azioni distruttive, la più celebre è quella di Robert Rauschenberg che ha cancellato un disegno di Willem de Kooning. È l’opera che per me rappresenta il perfetto paradosso del gesto iconoclasta, perché Rauschenberg ha agito con il consenso di de Kooning. Trasformandosi in un gesto «pseudo-iconoclasta», quell’opera è diventata un simulacro dell’iconoclastia. Viceversa, sappiamo che David Hammons non ha chiesto a Richard Serra il permesso di urinare su una sua scultura. Un’opera esemplare in questo contesto è The Los Angeles County Museum on Fire (1965-1968) di Ed Ruscha. La versione a stampa del dipinto è eseguita in parte con polvere da sparo, che enfatizza il potenziale aggressivo dell’immagine.
Mentre parliamo di gesti iconoclasti è essenziale ricordare che Lucio Fontana ribadiva sempre che, quando aggrediva la tela praticando i tagli con una lama non era un atto distruttivo, ma un modo per creare delle «aperture» nello spazio. Da un lato il desiderio di attaccare, dall’altro il desiderio di preservare. Tuttavia l’uso del termine «crisi» mi sembrava problematico, perché in molti casi viene utilizzato a sostegno di argomentazioni reazionarie.
Cercavo un altro termine. E se avessi sostituito «crisi» con «rottura»? L’idea che si delineava era di percorrere un sentiero lungo queste linee di rottura, intervallato da qualche deviazione illuminante. Prima di imboccare il sentiero, avevo bisogno di una mappa. Cercavo la maniera di farlo in modo decisamente indeciso, non come un artista che si gioca la discutibile carta della soggettività, o che fallisce nel tentativo di spacciarsi per uno che è perfettamente in grado di tracciare una mappa per un percorso simile.
Potrei aggiungere qualcosa sul mio amore per i dipinti, che nonostante qualche deviazione è lo scopo della mostra, ma forse è meglio che siano le opere esposte alla Fondazione Prada a Venezia a spiegarlo al posto mio.