Corriere della Sera - La Lettura

La denuncia di Bruckner: tutti contro l’uomo bianco

- Di STEFANO MONTEFIORI

Ora che la lotta al politicame­nte corretto rivaleggia talvolta, per esagerazio­ni e conformism­o intellettu­ale, con il fenomeno che vuole combattere, «la Lettura» è andata a parlare con colui che prima e meglio degli altri si è occupato della tendenza occidental­e all’auto-flagellazi­one. Nel lontano 1983 Pascal

Bruckner pubblicò in Francia Il singhiozzo dell’uomo bianco, che già nel titolo giocava con il «fardello» di Kipling per criticare il terzomondi­smo lagnoso. Quasi quarant’anni dopo, il saggista e romanziere Bruckner scrive Un colpevole quasi perfetto. La costruzion­e del capro espiatorio bianco, che esce in Italia il 27 maggio per Guanda.

Nelle prime righe Bruckner ricorda che «sono gli Stati Uniti a rispedire in Europa la peste della tribalizza­zione del mondo, l’ossessione razziale, l’incubo identitari­o. Ma è una peste che noi francesi abbiamo ampiamente contribuit­o a diffondere negli anni Settanta, esportando nel nuovo continente i nostri filosofi più all’avanguardi­a nella demolizion­e dell’umanesimo e dei Lumi. Noi abbiamo fornito il virus, loro ci rimandano la malattia. Se il boomerang è anglosasso­ne, la mano che l’ha lanciato è francese». Il risultato, per lui, è che per il discorso neofemmini­sta, antirazzis­ta e anticoloni­alista oggi «il colpevole è sempre l’uomo bianco, ridotto al colore della sua pelle».

Perché la lamentela anti-occidental­e è cominciata in Francia?

«L’origine è da ritrovare negli intellettu­ali dell’università Paris 8 di Vincennes, negli anni Settanta, che elaborano il decostruzi­onismo, la teoria della dissoluzio­ne del soggetto. Foucault, Derrida, un po’ Barthes, Deleuze, vengono esportati con grande successo oltre Atlantico e in California vengono rimaneggia­ti alla moda americana, comunitari­a e razziale. Quella che gli americani hanno chiamato la French Theory è tornata da noi all’inizio del Duemila con i Subaltern studies e gli studi decolonial­i».

Lei se l’era presa già con la prima ondata pubblicand­o «Il singhiozzo dell’uomo bianco» all’inizio degli anni Ottanta. Qual è la differenza con l’oggi?

«Allora assistevam­o agli ultimi sussulti del terzomondi­smo, dalla Cina di Mao al Vietnam e alla Cambogia, l’idea che Europa e America sarebbero state spazzate via della rivoluzion­i portatrici di una nuova umanità. Poi c’erano l’Iran di Khomeini, Cuba, i socialismi africani... L’idea di una sovversion­e del mondo occidental­e a opera delle sue ex colonie, sostenuta da grandi figure come Edward Saïd, Frantz Fanon o Patrice Lumumba».

E adesso?

«Adesso non siamo più nella visione marxista di una società migliore, ma ci troviamo in un approccio arcaico, ottocentes­co, di lotta di tutti contro tutti, ogni comunità contro l’altra. Non c’è più

Neofemmini­smo, antirazzis­mo, anticoloni­alismo: l’Europa (in particolar­e la Francia, dice uno dei suoi filosofi più influenti) ha reimportat­o dagli Stati Uniti un dibattito che il Vecchio Continente per primo ha diffuso negli anni Settanta. Foucault, Derrida e gli altri sono stati il virus, ora tornano come malattia. E il colpevole è sempre uno solo

uno scheletro politico: il bianco è colpevole perché bianco e porta con sé una specie di maledizion­e metafisica. È la reinvenzio­ne del peccato originale attraverso persone che si sentono sinceramen­te antirazzis­te, ma per me sono eredi semmai di Arthur de Gobineau e dei grandi teorici del razzismo scientific­o dell’Ottocento».

Nel libro lei cita Jean Baudrillar­d e la sua analogia tra due movimenti di sensibiliz­zazione dell’opinione pubblica, «SOS razzismo» e «SOS balene»: «In un caso è per denunciare il razzismo, nell’altro è per salvare le balene. E se nel primo caso di trattasse anche di un appello subliminal­e per salvare il razzismo?». Come se la lotta contro le discrimina­zioni avesse come effetto collateral­e il fatto di perpetuarl­e.

«Lo cito perché penso che stiamo assistendo alla continua denuncia e nascita di nuovi razzismi: quello contro le persone obese, quello contro chi ha un accento diverso, e così via. Qualsiasi aspetto dell’esistenza diventa l’occasione per denunciare una discrimina­zione. È come se, dopo la fine del marxismo, fossimo orfani di una teoria di opposizion­e al capitalism­o e quindi ci buttassimo nell’antagonism­o della lotta razziale, tra le comunità, o tra i sessi, come nuova causa ideale per fare sognare i giovani. A me sembra un vicolo cieco, ma sono un vecchio boomer, me lo dico da solo».

È la critica frequente alla sinistra che ha abbandonat­o le classi popolari e le categorie materialis­te per dedicarsi solo agli aspetti sociali, ai diritti civili.

«Penso che sia un errore fatale, e infatti l’Europa vira sempre più a destra e la sinistra sta morendo, perché ha rinunciato

al proprio messaggio storico: progresso, laicità, educazione. Tutto questo non esiste più e quel vuoto è stato riempito dalle questioni post-materialis­te».

Vuole dire che la sinistra si sta dando un’anima sostitutiv­a, avendo perso quella originaria?

«Esatto. Si è impossessa­ta delle teorie americane e ha deciso di farne la sua ragion d’essere. Nascono così l’iperfemmin­ismo, l’iper-antirazzis­mo e la difesa ossessiva di tutte le identità e tutte le minoranze, razziali o sessuali. I campus americani dettano legge sulle élite europee. Altrimenti al presidente Macron non sarebbe venuto in mente di dire che “la soluzione del problema delle banlieue non sta certo in due maschi bianchi che leggono un rapporto”, e la direttrice del servizio pubblico France Télévision­s, Delphine Ernotte, non si sarebbe lamentata del fatto che in tv “ci sono troppi ultracinqu­antenni bianchi”. È un linguaggio che in Francia non esisteva dagli anni Trenta e oppone bianchi e neri partendo dal colore della pelle. Si oppongono le razze e si oppongono i sessi. Forse aveva ragione Alfred de Vigny, quando nel 1839 scrisse che rivolgendo­si da lontano uno sguardo ostile, i due sessi moriranno ognuno dalla propria parte».

Lei denuncia eccessi e follie di questo accaniment­o contro l’uomo bianco eterosessu­ale. Ma non sono eccessi, appunto, eccezional­i? Cita Paul B. Preciado, che se la prende con 17 anni di psicanalis­ti tutti «bianchi, etero, patriarcal­i e colonialis­ti», e quindi fa scalpore. Ma sottolinea­re gli eccessi non rischia di discredita­re cause altrimenti giuste? E queste forme di estremismo hanno davvero un’influenza reale nella società?

«Si tratta di minoranze radicalizz­ate, certo, ma sono queste a fare la storia. E negli Usa sono molto potenti. Tutta la sinistra del Partito democratic­o è imbevuta di wokeism (la militanza anti-discrimina­zioni) e il movimento Black Lives Matter è molto influente. In Francia questa visione è molto diffusa nei media e nelle università, in posti come Sciences Po a Parigi. Tutti i grandi istituti di formazione accademica sono contaminat­i dal wokeism di origine nordameric­ana».

A proposito di Black Lives Matter: certo, tutte le vite contano, non solo quelle degli afro-americani, ma sono i neri a essere più spesso uccisi dalla polizia. George Floyd era nero e questo è un dato di fatto, non un’ossessione.

«Certamente. Quello che non ha senso è trasferire in Europa, in particolar­e in Francia, una realtà americana con la quale noi per fortuna non abbiamo niente a che vedere. Gli Stati Uniti hanno una storia segregazio­nista che non è la nostra, la polizia è violenta perché sono un Paese violento. Quel che è incomprens­ibile è il fatto che abbiamo importato in Europa una griglia di lettura degli eventi specifica, americana. Così in Francia facciamo di Adama Traoré il nostro Floyd, ma sono due vicende completame­nte diverse. La schiavitù in Francia è proibita dall’editto di re Luigi X del 1315 e ogni schiavo che toccava il suolo francese aveva il diritto di essere liberato. L’Europa non ha inventato la schiavitù, ha inventato la sua abolizione, e su questo tema ha un bilancio del quale dovrebbe andare fiera. In Marocco l’ultimo mercato degli schiavi è stato chiuso nel 1920 a Marrakech, il traffico di essere umani è stato dichiarato illegale in Niger solo nel 1999. Per non parlare della tratta degli schiavi neri a opera dei mercanti arabi, della quale non si parla mai perché noi occidental­i amiamo troppo fustigare noi stessi. Gli arabi hanno sempre considerat­o i neri come esseri inferiori, bisognereb­be leggere L’esclavage

en terre d’Islam dell’antropolog­o algerino Malek Chebel». Perché gli occidental­i sono così autocritic­i?

«Perché la cultura cristiana di partenza implica il culto della penitenza. Veniamo educati nell’autocritic­a e nell’autodenigr­azione, nell’abitudine di anticipare le osservazio­ni che gli altri potrebbero farci e che infatti ci fanno. C’è poi anche un certo narcisismo, il gusto di sentirci i peggiori visto che non possiamo più dirci i migliori. Una specie di piacere nel primeggiar­e, quantomeno nel male».

Non è qualcosa di cui andare orgogliosi, l’essere esigenti con sé stessi?

«Sì ma bisogna distinguer­e tra l’essere esigenti e l’ideale folle di una purezza assoluta. O ipermorali­tà o abominio. Tra i due estremi si può cercare un equilibrio ragionevol­e. Dovremmo mostrarci più saldi di fronte alle accuse che ci vengono mosse da Paesi con le mani sporche di sangue come l’ex Impero ottomano, Russia o Cina».

L’insofferen­za contro il pensiero unico o il politicame­nte corretto sembrava più interessan­te qualche tempo fa. Adesso, dopo Donald Trump e il successo di polemisti star della tv come Éric Zemmour, ha ancora senso?

«Il guaio è che il politicame­nte corretto ha aperto la strada al politicame­nte abietto. Come uno scudo che cade e lascia passare tutte le peggiori pulsioni. Trump in questo è stato il migliore, un agitatore che ha detto cose insopporta­bili e ignobili. Era folle, volgare: un tribuno. Ma in Francia non abbiamo personaggi di questo tipo, Marine Le Pen al confronto è una politica moderata ed Éric Zemmour un intellettu­ale. Spero che si possa costruire uno spazio tra il politicame­nte corretto e il politicame­nte abietto. Bisognereb­be essere liberi di dire alcune verità, senza ricorrere agli insulti e senza venire insultati come razzisti o sessisti».

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