Corriere della Sera - La Lettura
La denuncia di Bruckner: tutti contro l’uomo bianco
Ora che la lotta al politicamente corretto rivaleggia talvolta, per esagerazioni e conformismo intellettuale, con il fenomeno che vuole combattere, «la Lettura» è andata a parlare con colui che prima e meglio degli altri si è occupato della tendenza occidentale all’auto-flagellazione. Nel lontano 1983 Pascal
Bruckner pubblicò in Francia Il singhiozzo dell’uomo bianco, che già nel titolo giocava con il «fardello» di Kipling per criticare il terzomondismo lagnoso. Quasi quarant’anni dopo, il saggista e romanziere Bruckner scrive Un colpevole quasi perfetto. La costruzione del capro espiatorio bianco, che esce in Italia il 27 maggio per Guanda.
Nelle prime righe Bruckner ricorda che «sono gli Stati Uniti a rispedire in Europa la peste della tribalizzazione del mondo, l’ossessione razziale, l’incubo identitario. Ma è una peste che noi francesi abbiamo ampiamente contribuito a diffondere negli anni Settanta, esportando nel nuovo continente i nostri filosofi più all’avanguardia nella demolizione dell’umanesimo e dei Lumi. Noi abbiamo fornito il virus, loro ci rimandano la malattia. Se il boomerang è anglosassone, la mano che l’ha lanciato è francese». Il risultato, per lui, è che per il discorso neofemminista, antirazzista e anticolonialista oggi «il colpevole è sempre l’uomo bianco, ridotto al colore della sua pelle».
Perché la lamentela anti-occidentale è cominciata in Francia?
«L’origine è da ritrovare negli intellettuali dell’università Paris 8 di Vincennes, negli anni Settanta, che elaborano il decostruzionismo, la teoria della dissoluzione del soggetto. Foucault, Derrida, un po’ Barthes, Deleuze, vengono esportati con grande successo oltre Atlantico e in California vengono rimaneggiati alla moda americana, comunitaria e razziale. Quella che gli americani hanno chiamato la French Theory è tornata da noi all’inizio del Duemila con i Subaltern studies e gli studi decoloniali».
Lei se l’era presa già con la prima ondata pubblicando «Il singhiozzo dell’uomo bianco» all’inizio degli anni Ottanta. Qual è la differenza con l’oggi?
«Allora assistevamo agli ultimi sussulti del terzomondismo, dalla Cina di Mao al Vietnam e alla Cambogia, l’idea che Europa e America sarebbero state spazzate via della rivoluzioni portatrici di una nuova umanità. Poi c’erano l’Iran di Khomeini, Cuba, i socialismi africani... L’idea di una sovversione del mondo occidentale a opera delle sue ex colonie, sostenuta da grandi figure come Edward Saïd, Frantz Fanon o Patrice Lumumba».
E adesso?
«Adesso non siamo più nella visione marxista di una società migliore, ma ci troviamo in un approccio arcaico, ottocentesco, di lotta di tutti contro tutti, ogni comunità contro l’altra. Non c’è più
Neofemminismo, antirazzismo, anticolonialismo: l’Europa (in particolare la Francia, dice uno dei suoi filosofi più influenti) ha reimportato dagli Stati Uniti un dibattito che il Vecchio Continente per primo ha diffuso negli anni Settanta. Foucault, Derrida e gli altri sono stati il virus, ora tornano come malattia. E il colpevole è sempre uno solo
uno scheletro politico: il bianco è colpevole perché bianco e porta con sé una specie di maledizione metafisica. È la reinvenzione del peccato originale attraverso persone che si sentono sinceramente antirazziste, ma per me sono eredi semmai di Arthur de Gobineau e dei grandi teorici del razzismo scientifico dell’Ottocento».
Nel libro lei cita Jean Baudrillard e la sua analogia tra due movimenti di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, «SOS razzismo» e «SOS balene»: «In un caso è per denunciare il razzismo, nell’altro è per salvare le balene. E se nel primo caso di trattasse anche di un appello subliminale per salvare il razzismo?». Come se la lotta contro le discriminazioni avesse come effetto collaterale il fatto di perpetuarle.
«Lo cito perché penso che stiamo assistendo alla continua denuncia e nascita di nuovi razzismi: quello contro le persone obese, quello contro chi ha un accento diverso, e così via. Qualsiasi aspetto dell’esistenza diventa l’occasione per denunciare una discriminazione. È come se, dopo la fine del marxismo, fossimo orfani di una teoria di opposizione al capitalismo e quindi ci buttassimo nell’antagonismo della lotta razziale, tra le comunità, o tra i sessi, come nuova causa ideale per fare sognare i giovani. A me sembra un vicolo cieco, ma sono un vecchio boomer, me lo dico da solo».
È la critica frequente alla sinistra che ha abbandonato le classi popolari e le categorie materialiste per dedicarsi solo agli aspetti sociali, ai diritti civili.
«Penso che sia un errore fatale, e infatti l’Europa vira sempre più a destra e la sinistra sta morendo, perché ha rinunciato
al proprio messaggio storico: progresso, laicità, educazione. Tutto questo non esiste più e quel vuoto è stato riempito dalle questioni post-materialiste».
Vuole dire che la sinistra si sta dando un’anima sostitutiva, avendo perso quella originaria?
«Esatto. Si è impossessata delle teorie americane e ha deciso di farne la sua ragion d’essere. Nascono così l’iperfemminismo, l’iper-antirazzismo e la difesa ossessiva di tutte le identità e tutte le minoranze, razziali o sessuali. I campus americani dettano legge sulle élite europee. Altrimenti al presidente Macron non sarebbe venuto in mente di dire che “la soluzione del problema delle banlieue non sta certo in due maschi bianchi che leggono un rapporto”, e la direttrice del servizio pubblico France Télévisions, Delphine Ernotte, non si sarebbe lamentata del fatto che in tv “ci sono troppi ultracinquantenni bianchi”. È un linguaggio che in Francia non esisteva dagli anni Trenta e oppone bianchi e neri partendo dal colore della pelle. Si oppongono le razze e si oppongono i sessi. Forse aveva ragione Alfred de Vigny, quando nel 1839 scrisse che rivolgendosi da lontano uno sguardo ostile, i due sessi moriranno ognuno dalla propria parte».
Lei denuncia eccessi e follie di questo accanimento contro l’uomo bianco eterosessuale. Ma non sono eccessi, appunto, eccezionali? Cita Paul B. Preciado, che se la prende con 17 anni di psicanalisti tutti «bianchi, etero, patriarcali e colonialisti», e quindi fa scalpore. Ma sottolineare gli eccessi non rischia di discreditare cause altrimenti giuste? E queste forme di estremismo hanno davvero un’influenza reale nella società?
«Si tratta di minoranze radicalizzate, certo, ma sono queste a fare la storia. E negli Usa sono molto potenti. Tutta la sinistra del Partito democratico è imbevuta di wokeism (la militanza anti-discriminazioni) e il movimento Black Lives Matter è molto influente. In Francia questa visione è molto diffusa nei media e nelle università, in posti come Sciences Po a Parigi. Tutti i grandi istituti di formazione accademica sono contaminati dal wokeism di origine nordamericana».
A proposito di Black Lives Matter: certo, tutte le vite contano, non solo quelle degli afro-americani, ma sono i neri a essere più spesso uccisi dalla polizia. George Floyd era nero e questo è un dato di fatto, non un’ossessione.
«Certamente. Quello che non ha senso è trasferire in Europa, in particolare in Francia, una realtà americana con la quale noi per fortuna non abbiamo niente a che vedere. Gli Stati Uniti hanno una storia segregazionista che non è la nostra, la polizia è violenta perché sono un Paese violento. Quel che è incomprensibile è il fatto che abbiamo importato in Europa una griglia di lettura degli eventi specifica, americana. Così in Francia facciamo di Adama Traoré il nostro Floyd, ma sono due vicende completamente diverse. La schiavitù in Francia è proibita dall’editto di re Luigi X del 1315 e ogni schiavo che toccava il suolo francese aveva il diritto di essere liberato. L’Europa non ha inventato la schiavitù, ha inventato la sua abolizione, e su questo tema ha un bilancio del quale dovrebbe andare fiera. In Marocco l’ultimo mercato degli schiavi è stato chiuso nel 1920 a Marrakech, il traffico di essere umani è stato dichiarato illegale in Niger solo nel 1999. Per non parlare della tratta degli schiavi neri a opera dei mercanti arabi, della quale non si parla mai perché noi occidentali amiamo troppo fustigare noi stessi. Gli arabi hanno sempre considerato i neri come esseri inferiori, bisognerebbe leggere L’esclavage
en terre d’Islam dell’antropologo algerino Malek Chebel». Perché gli occidentali sono così autocritici?
«Perché la cultura cristiana di partenza implica il culto della penitenza. Veniamo educati nell’autocritica e nell’autodenigrazione, nell’abitudine di anticipare le osservazioni che gli altri potrebbero farci e che infatti ci fanno. C’è poi anche un certo narcisismo, il gusto di sentirci i peggiori visto che non possiamo più dirci i migliori. Una specie di piacere nel primeggiare, quantomeno nel male».
Non è qualcosa di cui andare orgogliosi, l’essere esigenti con sé stessi?
«Sì ma bisogna distinguere tra l’essere esigenti e l’ideale folle di una purezza assoluta. O ipermoralità o abominio. Tra i due estremi si può cercare un equilibrio ragionevole. Dovremmo mostrarci più saldi di fronte alle accuse che ci vengono mosse da Paesi con le mani sporche di sangue come l’ex Impero ottomano, Russia o Cina».
L’insofferenza contro il pensiero unico o il politicamente corretto sembrava più interessante qualche tempo fa. Adesso, dopo Donald Trump e il successo di polemisti star della tv come Éric Zemmour, ha ancora senso?
«Il guaio è che il politicamente corretto ha aperto la strada al politicamente abietto. Come uno scudo che cade e lascia passare tutte le peggiori pulsioni. Trump in questo è stato il migliore, un agitatore che ha detto cose insopportabili e ignobili. Era folle, volgare: un tribuno. Ma in Francia non abbiamo personaggi di questo tipo, Marine Le Pen al confronto è una politica moderata ed Éric Zemmour un intellettuale. Spero che si possa costruire uno spazio tra il politicamente corretto e il politicamente abietto. Bisognerebbe essere liberi di dire alcune verità, senza ricorrere agli insulti e senza venire insultati come razzisti o sessisti».