Corriere della Sera - La Lettura
I ragazzi sono punk
Stamattina, finalmente, sono finiti gli anni Sessanta: sono durati un’eternità, ma ora basta, dice Giuliano Sangiorgi, musicista, fondatore dei Negramaro, mentre discute con Sandro Veronesi del suo secondo romanzo, «Il tempo di un lento». Cioè di questo: c’è stata la generazione dei settantenni, che ha vissuto la vita e l’amore come una fuga esuberante; poi c’è stata la generazione dei cinquantenni, che ha edulcorato l’amore, l’ha addomesticato; e poi ci sono i giovani veri, rivoluzionari dell’amore come i nonni, emozione grezza, allo stato puro, i giovanissimi di oggi, perché oggi...
Un romanzo di rivolta senza compromessi come l’epoca in cui inizia, gli anni di piombo. Solo che nel libro Il tempo di un lento di Giuliano Sangiorgi (musicista, fondatore dei Negramaro, al suo secondo romanzo dopo la storia di formazione Lo spacciatore di carne, Einaudi Stile libero, 2012) la strategia della tensione e il terrorismo degli anni Ottanta risparmiano per un soffio il protagonista Luca, di anni tredici: il cui destino si compie tutto intorno all’emozione piccola e gigante del «primo bacio».
Come un elemento emotivo minimo, il «privato» di un bacio, possa essere nel romanzo un fattore tanto dirompente da cambiare una vita, non è facile spiegarlo: Luca e la ragazza del bacio, Maria Giulia, scappano insieme per non tornare mai più; il padre di Luca, che li crede morti, ritroverà il figlio a New York trent’anni dopo, quand’è ormai un noto jazzista che ha suonato niente meno che con Miles Davis. Intanto, il mondo intorno continua a crollare: nel 1984, epoca in cui inizia il libro, esplode la bomba sul treno 904; e quando Luca inizia a frequentare l’ambiente jazz di New York, incombono sullo sfondo le Torri gemelle: eventi catastrofici che fanno eco a un presente non meno drammatico, l’attuale pandemia. Per uno strano sovrapporsi di emozioni molto ben calibrato, Luca appare al lettore come un adolescente di ieri ma anche come un ragazzo di oggi. O di domani. Un romanzo insolito, costruito lungo un amplissimo arco temporale, e che solleva molti temi, sul linguaggio delle emozioni, sulla letteratura, sulla musica, sulla ribellione, sulle generazioni: appare inevitabile quindi un confronto tra due autori, amici oltre che scrittori, che alle diverse generazioni hanno dato voci diverse, lo stesso Giuliano Sangiorgi e il due volte Premio Strega Sandro Veronesi. Il primo argomento è quello delle emozioni: nel romanzo i personaggi riescono a entrare in contatto attraverso le emozioni, che si tratti dell’amore, dell’affetto o della musica: Luca e Maria Giulia si amano e passano il tempo a baciarsi, nient’altro, e su nient’altro costruiscono la loro fuga d’amore; Luca approda a New York e nonostante un inglese stentato riesce a suonare con Miles Davis; il padre che vive in uno stato ormai confusionale riconosce il figlio vedendo una fotografia dei suoi occhi, su un giornale, e riesce ad attraversare l’oceano e ad arrivare in America quasi senza parlare, non solo l’inglese ma neppure l’italiano.
Sono le emozioni i nostri linguaggi?
GIULIANO SANGIORGI — Ho provato ad avere sempre in mente l’emozione dei personaggi più che la storia. La storia è qualcosa che mi ha «illuminato» in una manciata di parole: quando ho iniziato a scrivere il romanzo, stavo per cambiare pelle, perché erano i giorni in cui scrivevo Amore che torni, la canzone che dà il titolo al penultimo album dei Negramaro ed è quasi di sottofondo all’intero libro; la canzone, nello stesso giorno, mi aveva ispirato l’inizio di questo romanzo, come se quelle emozioni avessero bisogno di uno spazio molto più grande, di quello spazio lunghissimo che è il romanzo — mentre la storia avrei potuto anche raccontarla in pochi versi. E sono emozioni che partono da microdettagli: quel che provo a fare, anche in questo secondo romanzo, è essere macroscopico nella descrizione di microemozioni. Una visione «microscopica» che mi ha sempre affascinato: piccoli dettagli possono mettere in contatto mondi diversi, no? — Miles Davis, il ragazzino Luca, il padre... Tutti sembrerebbero dei micromondi: ecco, le emozioni ti traghettano verso mondi possibili.
SANDRO VERONESI — Credo che Sangiorgi abbia usato non a caso la parola traghettare: vorrei far notare che nel romanzo c’è anche una «traghettatura» dalla narrativa tradizionale. È un musicista, e non un musicista di sinfonie o d’opera, ma un musicista di canzoni. Questo significa che il suo modo di raccontare ha una trazione molto forte, che viene dalla padronanza della lingua, certo, ma anche da una capacità molto selettiva di procedere, di dedicarsi a un dettaglio — e non a tutti i dettagli, solo a quello, a quell’unico che fa avanzare la storia, mentre, lo dico da logorroico che deve sempre tagliare dopo avere scritto, i troppi dettagli la rallentano. Non è il caso di Sangiorgi, né nelle canzoni (le canzoni devono andare abbastanza precipitosamente verso la fine) e nemmeno nel romanzo, dove lui porta, anzi traghetta, un modo di concepire la trazione del racconto che è tipico della canzone. Dove hai un certo numero di minuti, puoi anche tirarla lunga, ma più di cinque-sei minuti non può durare...
GIULIANO SANGIORGI — Oggi una canzone di cinque-sei minuti è già un’opera.
SANDRO VERONESI — Sì, e poi le radio non la trasmettono! Invece Sangiorgi parte da quel modo di concepire il racconto — quei quattro minuti di una canzone, anche due, due e mezzo (ci sono canzoni meravigliose che non arrivano a tre minuti e hanno una linea narrativa esaustiva, in cui tutto è detto, tutto è raccontato) — e lo trasporta in una forma espressiva, quella del romanzo, che prevede a volte anche 800-900 pagine.
GIULIANO SANGIORGI — C’è una canzone stupenda degli Smiths, Please, Please, Please Let Me Get What I Want: è pazzesco come in due minuti alcune canzoni riescano a essere lunghi romanzi. Come ha detto Vero
nesi, non i troppi dettagli fanno una storia, ma pochissimi dettagli fanno grandi emozioni. Ad esempio sono affascinato dal cinema dei piccoli grandi dettagli, da quel cinema dalle macroscopiche emozioni che partono da microscopiche emozioni, per esempio Paolo Sorrentino, nostro regista e nostro amico, da un dettaglio emotivo piccolissimo costruisce lungometraggi. Io rimango affascinato: grandi visioni in piccole cose.
SANDRO VERONESI — Ciò che è davvero godibile nel libro, e che pare quasi banale da dire quando a scrivere è un musicista come Sangiorgi, è che sembra usare le parole come note. E che quindi le parole non siano infinite, siano sette. E che combinando le parole si possano ottenere infinite emozioni, infiniti risultati, ma che non ci sia in realtà una partenza infinita: la partenza è quella, sono quelle emozioni, selezionate bene, anche estreme. Anzi, qui vorrei porre il primo tema che si impone nella storia: la fuga. Che è anche un tema musicale. Nel libro si compie una fuitina, come quelle del passato.
GIULIANO SANGIORGI — Esattamente. SANDRO VERONESI — E la si radicalizza. Diventa una fuga senza fine.
GIULIANO SANGIORGI — Estrema.
SANDRO VERONESI — Peraltro c’è tutta una tradizione letteraria alta in materia; mi viene in mente Joseph Roth, Fuga senza fine, dove per l’appunto ci si lascia tutto alle spalle senza possibilità di rimpianto, come se non ci fosse modo di tornare indietro. Il modo c’è, ma in realtà, nel racconto che viene fatto da Roth, o nel racconto che viene fatto da Sangiorgi in questo libro, non c’è. C’è solo l’andare avanti. Mi piace molto che Sangiorgi scriva di questa fuga estrema, quando tutti i ragazzi pensano di fuggire, molti lo fanno... e tornano il giorno dopo.
GIULIANO SANGIORGI — In realtà io sono rimasto sempre folgorato dalle storie di fuitina degli anni Settanta-Ottanta, dei nostri genitori. Quando l’amore era veramente spregiudicato, folle era il coraggio, il destino irreversibile. L’incoscienza di chi ha fatto quei gesti, creando nuove famiglie tra estranei, rompendo qualsiasi equilibrio, partendo da un microcosmo che è quello della piccola famiglia di un paese del Sud, poi di tutto il Sud, poi dell’Italia: sono piccoli equilibri che cambiano le sorti dell’universo. E loro ne erano stati capaci, i miei genitori. Ero affascinato quando sentivo che tutti, quasi fosse moda, «scappavano». Mia madre e mio padre si sono amati e hanno fatto dei figli da giovanissimi (senza essere costretti a farlo: erano studenti universitari, con una situazione bellissima alle spalle, in famiglia), però avevano il coraggio che non abbiamo più noi, che pure siamo forse l’ultima generazione nata da questo amore folle. Bruciare senza pensare alle conseguenze per sé stessi e per le altre persone: hanno solo pensato all’amore. Questo essere capaci di tutto, questa fuga, per me è sconvolgente. Perché noi non siamo stati più in grado. Noi siamo la generazione che, come dire, ha edulcorato l’amore, l’ha addomesticato, sotto il controllo millimetrico dei nostri stessi genitori che si sono scottati e quasi hanno paura di raccontartela, quella fuga; e invece da quella fuga siamo nati noi. È nato tutto il futuro. Oggi siamo di fronte a una generazione che a cinquant’anni ancora non fa figli, perché si crede giovane e perché i genitori hanno detto “prima, devi realizzarti”. E quei genitori sono gli stessi che hanno affidato il loro destino alla
fuitina, che a diciassette, a diciotto anni li faceva scappare, e diventavano uomini e donne, e non tornavano indietro. Tanto che io, nel romanzo, Maria Giulia e Luca li faccio allontanare dopo l’84, nei loro viaggi interminabili: Luca arriverà in America, di Maria Giulia non ho voluto sapere più niente; perché in fondo, non era solo l’amore che ha fatto muovere le gambe a un ragazzo di quattordici anni in quegli anni di piombo.
E oggi? Agli adolescenti di oggi appartiene o no questo tipo di emozione, questo amore assoluto?
GIULIANO SANGIORGI — Credo che i ragazzi di oggi, le nuovissime generazioni, stiano riprendendo proprio questo tipo di emozioni. Io rivedo in questi ragazzi le generazioni dei nostri genitori in quegli anni; nei nuovi ragazzi c’è una rivoluzione culturale in atto che non è soltanto una rivoluzione di forma, o che riguarda l’estetica delle cose. Per la prima volta gli anni Sessanta sono finiti ieri, anzi stamattina. Sono durati settant’anni, sono durati un’eternità, ma ora i ragazzi stanno cambiando pelle, stanno cambiando modo di essere romantici, ed è estremamente affascinante, quasi punk, quello che sta per succedere nelle nuove generazioni.
SANDRO VERONESI — Proprio questa parola volevo scomodare. Punk. Perché è una parola che unisce sia il romanzo, cioè lo stile di Sangiorgi, sia quello che viene raccontato nel libro. Punk. E non solo perché è una parola coeva con la storia o almeno con l’inizio della storia, ma perché, nell’accezione che do io a questo termine, di «emozione non elaborata» (punk io l’intendo così; anche la musica, che è stato il movimento più popolare e diffuso: ma il punk non è soltanto musica). Punk è musica non elaborata, assolutamente grezza, con l’arrivo però, e proprio per la mancanza di un’elaborazione, di un’emozione molto più violenta. È come prendere il cibo e cuocerlo senza cucinarlo, il sapore della sostanza che cuoci senz’altro è più forte di quando cominci a mescolare sapori fra di loro cucinandoli a tuo modo. Quel libro è un libro punk, perché marcia diritto nelle emozioni senza stare troppo a elaborarle, senza preoccuparsi di descrivere più di tanto il contorno del gesto che viene raccontato, senza star lì a storicizzare troppo, nemmeno a raccontarti le conseguenze. È molto bello che la ragazza scompaia, perché come ha detto bene Sangiorgi — ma lo si recepisce anche leggendo — non è soltanto l’amore che fa scoppiare la scintilla. Così come nel punk