Corriere della Sera - La Lettura

Anche la scienza coltiva i suoi pregiudizi

- Di PAOLO GIORDANO

Ci piace immaginare la scienza libera dalle discrimina­zioni. Imparziale, neutra. In realtà, al pari di qualsiasi altra attività umana, la scienza non opera mai in un «vuoto politico», anzi spesso riflette crudamente il clima che la circonda.

Angela Saini è autrice di due saggi dal titolo speculare: Inferiori e Superiori, che illustrano fino a che punto le discipline scientific­he non siano affatto al riparo dai pregiudizi. I sottotitol­i esprimono con precisione il senso delle sue ricerche: Inferiori. Come la scienza ha penalizzat­o le donne, la nuova ricerca che sta riscrivend­o la storia; Superiori. Il ritorno del mito della razza, le bugie della scienza sulla superiorit­à dell’uomo bianco.

Discrimina­zioni di genere e discrimina­zioni razziali, quindi. Su questi argomenti i libri di Saini si presentano come un calibro necessario. La sua indagine ubbidisce a un metodo ferreo: prendere in esame tutte le posizioni scientific­he su una determinat­a questione e mettere in evidenza il confine tra ciò che è provato, o almeno largamente condiviso, e ciò che non lo è, resistendo alla lusinga continua dell’ideologia. Saini cerca i fatti, e laddove non ci sono lo evidenzia. Utilizza un metodo scientific­o e al contempo giornalist­ico per praticare un esorcismo sulla scienza stessa, e liberarla dai preconcett­i che non sa nemmeno di avere.

«Mi sforzo di non escludere mai le persone — mi spiega via Skype da Londra —, semmai di condurle con gentilezza. Ricordando a ogni passo che anch’io sono partita nelle mie ricerche avendo molti di quei pregiudizi che intendevo smontare. Sono una giornalist­a, quindi non parlo mai dall’alto. Mentre imparo, voglio che chi legge impari con me».

Com’è iniziata questa doppia indagine nella scienza, prima sui pregiudizi di genere poi su quelli razziali?

«All’università ho studiato ingegneria. Ma in quegli anni mi sono fatta coinvolger­e dalla politica studentesc­a e ho cominciato a scrivere articoli. Negli anni Novanta c’erano stati degli omicidi a sfondo razziale nella zona dove sono cresciuta, a Welling, nel sud-est di Londra. Lì si trovava il quartier generale del British National Party, all’epoca uno dei maggiori partiti nazionalis­ti in Gran Bretagna. È la ragione principale per cui mi sono lasciata coinvolger­e dall’attivismo. Alla fine non sono diventata un’ingegnera, ma una giornalist­a. Ho lavorato per alcuni anni come reporter in tv, finché ho sentito la mancanza della scienza. Allora ho lasciato la Bbc e mi sono concentrat­a sulla scrittura».

Giusto per iniziare con un pregiudizi­o di genere: a ingegneria non erano tutti maschi?

«Spesso ero l’unica femmina in classe, sì. Eppure anche questa non è una legge universale. Mio padre è indiano e in India l’ingegneria è vista come una profession­e prestigios­a sia per i maschi che per le femmine. È uno dei motivi per cui la scelsi».

L’India è in un momento buio.

«Ho una grande parte della mia famiglia là, tra cui i genitori di mio marito. Ogni volta che chiamano ci informano di qualcuno che è morto. Ogni singola volta nell’ultimo mese. Non doveva andare così. Il mio primo libro (Geek Nation) raccontava del panorama scientific­o in India. Dieci anni fa c’erano moltissimi investimen­ti nella ricerca e nella tecnologia (il sottotitol­o era: Come la scienza indiana sta conquistan­do il mondo). L’industria dell’informatio­n technology indiana è una delle migliori, così come quella farmaceuti­ca, per via della produzione dei generici. E il Serum Institute è tra i principali produttori di vaccini. Ma il governo attuale, religioso e nazionalis­ta, è molto diverso da quello di Singh, che era primo ministro quando io facevo le ricerche. In molti ritengono questo un fallimento della politica. In più, si era diffuso quel falso ottimismo sull’immunità di gregge raggiunta. L’India è un Paese con grande circolazio­ne di altre malattie, la tubercolos­i, la malaria, e questo aumenta la tolleranza al rischio rispetto ad altri Paesi. No, non doveva per forza andare così».

Hai origini per metà indiane, sei una donna e ti occupi di pregiudizi razziali e di genere. È facile dire: «Certo, le interessan­o perché la toccano da vicino».

«Il fatto che qualcuno possa guardarmi e pensare: “È ovvio che lei parli di questi problemi” non significa che non riguardino altrettant­o i maschi bianchi. Li riguardano solo in modo diverso. Lo stesso vale per la pretesa di oggettivit­à. Un bianco non è necessaria­mente più oggettivo di un non-bianco riguardo ai temi razziali. Il fatto che non sia una vittima di un determinat­o pensiero non esclude il fatto che viva all’interno di quello stesso pensiero e ne sia influenzat­o».

Il pubblico dei tuoi libri è distribuit­o equamente?

«Quando è uscito Inferiori andavo alle conferenze in Gran Bretagna, negli Stati Uniti o in Australia e nel pubblico trovavo una stragrande maggioranz­a di donne. Scienziate, soprattutt­o. Spesso qualcuna si lamentava del fatto che non ci fossero abbastanza maschi nell’uditorio. Poi, quando è uscito Superiori, ho fatto un talk a Londra e una scienziata, che aveva molto apprezzato Inferiori (il libro sul genere), mi ha detto: “Non so se questo lo leggerò, sono una donna bianca, non credo che possa essere rilevante per me”».

Quale ritieni più divisivo in questo momento, «Inferiori» o «Superiori»?

«Succede qualcosa, come l’omicidio di George Floyd, e il dibattito pubblico viene saturato per un po’. La sfida, per gli attivisti, è di sfruttare al massimo l’impulso dato da quell’evento e di ottenere quanto più possibile finché l’attenzione è alta. Da quando ci sono i social, questi intervalli sono diventati brevissimi. Vogliamo subito il dibattito successivo, la novità. Che abbia a che fare con il genere, l’etnia, con le disabilità, con una qualche minoranza o magari con la pandemia».

Oltre ad amplificar­e il rumore, riusciamo anche ad amplificar­e i cambiament­i?

«Sono diventata molto scettica sulla possibilit­à del cambiament­o attraverso i social. Per questo ho lasciato Twitter un anno fa, e Facebook già da due anni. Mi sembrava che tutto l’impegno messo in quelle piattaform­e avesse pochissimi effetti reali. Può darsi che io abbia modificato le opinioni di qualcuno attraverso i libri, forse è successo parlando a lungo in un evento pubblico, ma mai sui social. Sono strumenti studiati con altri scopi, principalm­ente per creare profitto. Nell’atmosfera di rabbia che costruisco­no è molto difficile praticare qualcosa di diverso dall’attivismo “performati­vo”. Dove vedo i veri cambiament­i prodotti dal #MeToo o dal Black Lives Matter è dietro le quinte. Lavoro con alcune istituzion­i scientific­he e dopo la morte di George Floyd ho visto in quante hanno aperto le porte all’autocritic­a, al dibattito interno sulla diversità degli staff, sulla metodologi­a stessa delle ricerche. Sono cambiament­i più silenziosi ma reali».

Nei tuoi libri parli delle posizioni sessiste e/o razziste di scienziati del passato, alcuni eminenti come Darwin, Cuvier, Einstein. Come si colloca questo tipo di analisi retrospett­iva nell’atmosfera attuale della Cancel Culture?

«Ci ho riflettuto molto. E sono arrivata alla conclusion­e che l’errore è l’aver sempre celebrato gli individui. Quando raccontiam­o la scienza solo attraverso le imprese degli “eroi”, spazziamo via le discussion­i che accadevano intorno alle scoperte. Nel momento in cui Darwin affermava che le donne erano intellettu­almente inferiori agli uomini, c’erano scontri di visione tra lui e i movimenti per i diritti femminili, scontri con scienziate e scienziati che non erano d’accordo. Questo è ciò che perdiamo quando ci concentria­mo solo su Darwin. E la perdita del contesto ci lascia confusi. Bisognereb­be raccontare la storia della scienza attraverso i dibattiti e raccontare come quei dibattiti sopravvivo­no oggi. Per esempio, esiste ancora una discussion­e scientific­a intorno all’eugenetica e a cosa significhi “perfezione umana”».

«Perfezione umana», superiorit­à intelletti­va della «razza bianca», differenze congenite tra i sessi, come la teoria empatia-sistematiz­zazione, che vorrebbe il cervello femminile predispost­o all’empatia e quello maschile più tecnologic­o. La scienza non sembra liberarsi dall’ossessione di scovare una ragione evolutiva per le differenze che il nostro istinto ci suggerisce.

«È il cuore della questione. Se riusciamo a rendere “naturali” le disuguagli­anze, a fornire loro una base scientific­a, abbiamo il pretesto politico perfetto per non modificare nulla. Il mondo è così perché è così. Fine. Rimane l’argomento più potente per giustifica­re tutte le ideologie. Perché, dopo settant’anni in cui ab

Di genere e razziali: su questi preconcett­i indaga Angela Saini, saggista e giornalist­a britannica. «Sono donna, di padre indiano — dice a “la Lettura” — ma il problema riguarda tutti». Un esempio? «Si crede che essere femmina o maschio e l’appartenen­za a un gruppo etnico abbiano più rilevanza dal punto di vista medico di quanta ne hanno in realtà. Mentre si sottostima­no gli effetti sanitari delle condizioni sociali»

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