Corriere della Sera - La Lettura
Car* amic*, le rivoluzioni (fallite) della lingua
La proposta dello schwa o dell’asterisco per rendere l’italiano più inclusivo in relazione al genere è solo l’ultimo esempio: tanti letterati avevano suggerito caratteri particolari
per aggiornare la lingua. Tentativi falliti. Perché le riforme non si calano dall’alto. E perché il moltiplicarsi delle scritture spontanee dell’era digitale non ha più regole né riferimenti
«Apartire da mercoledì #7 aprile moltǝ nostr ǝ bambin ǝ e ragazzǝ potranno tornare in classe!». La notizia è recente: il comune di Castelfranco Emilia ha deciso di impiegare nei suoi post «un linguaggio più inclusivo: al maschile universale (“tutti”) sostituiremo la schwa (“tuttǝ”), una desinenza neutra».
Questione di suono
L’idea di ricorrere a quella e rovesciata con cui fin dall’Ottocento i glottologi simboleggiano un suono vocalico indistinto — chiamato appunto, con un nome proveniente dall’ebraico, schwa o scevà — risale almeno al 2016. A proporla, a quanto pare per primo, è stato Luca Boschetto — «un’appassionatǝ di temi relativi all’inclusività di genere e linguistica», come si definisce nel sito italianoinclusivo.it — con l’intento di evitare la distinzione tra maschile e femminile («cari tutti e care tutte») e soprattutto il ricorso al maschile unificante della tradizione grammaticale («cari tutti» riferito anche a persone di genere femminile). Questa vocale indistinta non rientra tra i suoni dell’italiano, ma è molto frequente in alcuni dialetti centro-meridionali (è quella del napoletano Nàpulə). Ed è vero che nei dialetti, annullando l’opposizione tra o e a e dee i finali, eliminale desinenze che distinguono di solito tra maschile e femminile, oltre che tra singolare e plurale. Ma è anche vero che quella distinzione è per lo più recuperata in altre maniere: così, ad esempio, in alcuni dialetti nirə indica il maschile e nerə il femminile; e lo stesso può accadere per il singolare rispetto al plurale: nepotə/ neputə. Lo schwa, insomma, rappresenta tutt’al più un suono che si potrebbe definire neutro: non una desinenza neutra dal punto di vista del genere o del numero.
Carǝ amicǝ vi scrivo
Il vantaggio rispetto all’asterisco usato già da qualche tempo con la stessa funzione («car* tutt*») sarebbe, dice qualcuno, nel fatto che lo schwa renderebbe la forma più pronunciabile. In realtà, solo se si decidesse di promuovere a nazionale un tratto fonetico dialettale: fatto che suonerebbe un po’ strano, soprattutto in contesti istituzionali. E poi, in casi come «carǝ amicǝ» quella c va letta come in amici o come in amiche? Non solo: a differenza dell’asterisco, che può alludere a tutta la restante parte della parola, lo schwa sostituisce di norma un solo suono. Una formula come «carǝ dottorǝ», allora, escluderebbe tutte le dottoresse (a meno che non si voglia adottare contestualmente l’uso di dottora, professora e simili). L’unico vero vantaggio potrebbe essere che l’asterisco è usato già da secoli per indicare una lacuna o una censura, mentre lo schwa è usato solo nelle trascrizioni fonetiche che troviamo nei dizionari e nei saggi di linguistica; in tutti gli altri contesti è — in effetti — un segno nuovo. Il che comporta, però, la sua assenza nelle tastiere dei vari dispositivi: elemento che, allo stato attuale, non favorisce la sua diffusione. Più in generale, alla luce della nostra storia linguistica, appare molto difficile che proposte di questo tipo possano affermarsi. Per rendersene conto, basta guardare all’esito dei vari tentativi di innovazione grafica che si sono succeduti attraverso i secoli.
Ortografia e tipografia
Fu la diffusione della stampa a favorire, nel Cinquecento, il progressivo fissarsi di una norma ortografica. La richiesta di regole che superassero le tante difformità delle tradizioni manoscritte riguardava la lingua tutta e l’ortografia in particolare. La risposta decisiva venne dall’umanista veneziano Pietro Bembo, che — proprio nelle vesti di curatore editoriale, oltre che di autore delle Prose (1525) — cominciò anche a definire una grafia del volgare nettamente distinta da quella del latino. Fu quel modello, rivisto e integrato dal fiorentino Leonardo Salviati, che divenne, grazie al prestigio del Vocabolario degli Accademici della Crusca (1612), il punto di riferimento di chi voleva scrivere correttamente. Scarsa fortuna, al di fuori di questa linea maestra, hanno avuto altre soluzioni escogitate nel tempo per rendere i segni dell’alfabe
to più aderenti alle differenti pronunce. Ciò vale soprattutto per quelle che prevedevano l’introduzione di nuovi simboli: tanto che si potrebbe fare un inventario dell’alfabeto potenziale accumulatosi nei secoli e mai entrato davvero nell’uso.
Segni senza futuro
Un tentativo era già stato fatto nel Quattrocento da Leon Battista Alberti, autore della prima grammatica del volgare, che nel suo Ordine delle laettere pella
linghua toschana rendeva con la grafia latineggiante ae la e aperta e con ao la o aperta; scriveva come ç la z sorda di forza e come z quella sonora di razzo. Il vicentino Gian Giorgio Trissino, invece, per distinguere le vocali aperte dalle chiuse ricorreva alle lettere greche epsilon (Ɛ )e omega (ɷ) e teneva separata la esse sorda di seta (s) da quella sonora di sgarbo (ʃ). Le reazioni non si fecero attendere: già nel 1524, a pochi mesi dalla prima presentazione di questa proposta, il fiorentino Agnolo Firenzuola pubblicò un Discacciamento de le nuove lettere inutilmente aggiunte ne la lingua toscana.
Nondimeno, verso la metà del secolo anche nelle opere di alcuni letterati toscani come il Giambullari potevano trovarsi stampati sperimentalmente caratteri come ʃ e ʒ per rappresentare la esse e la zeta sonore. E Giorgio Bartoli nei suoi Elementi del parlar toscano (1584) giunse a creare un alfabeto fonetico di 35 segni, immaginando tra l’altro di usare la G per rendere il suono di stagno e disegnando nuovi simboli per distinguere la g di gente da quella di gatto e dalla pronuncia fiorentina di parole come agio o ghiaccio.
Segni dal passato
Nell’Ottocento, all’indomani dell’Unità d’Italia, la questione del rapporto tra grafia e pronuncia divenne fondamentale soprattutto nell’insegnamento scolastico. E ci fu chi cercò di intervenire sull’ortografia per diffondere in tutta la nazione quella che veniva considerata la corretta pronuncia o per semplificare alcune regole così da renderle più accessibili. La prima istanza si ritrova nelle opere del manzoniano Policarpo Petrocchi, convinto che «nei libri comuni e nei giornali dovrèbbero essere accentate le ʃdrùcciole» e «nei libri scolastici, pòi, per lo meno dovrèbbero èsser distinte anche le vocali apèrte e le chiuse e le diversità delle èsse e delle èta»: dunque peso e roʃa,
zappa e ʒòlla. Agli accenti era molto attento, ai primi del Novecento, anche il fondatore della Società Ortografica Italiana, Pier Gabriele Goidànich, che consigliava di limitare l’h alle sole interiezioni (come ah, oh, ehm), ammettendo per il verbo avere solo le grafie accentate: ioò,
tu ài, egli à, essi ànno. E, per evitare che uno stesso suono fosse scritto in maniera diversa, invitava a usare sempre la k in parole come ke, kuore, skuola. Una scelta arcaica, se si pensa che la k campeggiava già nel Placito capuano del 960, considerato l’atto di nascita della nostra lingua: «Sao ko kelle terre... ». Una scelta profetica, se si pensa che un secolo dopo quella
k — identificata per breve periodo con un marchio politico: Kossiga, amerikano
— sarebbe diventata il simbolo del nuovo modo di scrivere legato a internet e all’italiano telematico. Provocando reazioni ironiche, come quella del settimanale «Diario», che nel gennaio 2003 immaginava una riforma ortografica promossa dal ministero della Pubblica istruzione in cui si stabiliva che il ch sarebbe stato sostituito dalla k «già kara ai nostri antenati latini» e lo stesso sarebbe accaduto per la
q: «d’ora in avanti si skriverà kuadro, kuesto, kuello».
Un nuovo Medioevo ortografico?
In questo nuovo quadro, l’ipotesi più probabile non è quella di una istituzionalizzazione ortografica dello schwa, quanto piuttosto di una sua diffusione (che potrebbe rimanere ideologicamente marcata) all’interno degli usi frastagliati tipici della rete. La libertà portata dalla scrittura elettronica nel rapporto tra pronuncia e grafia, infatti, ha messo in moto un processo centrifugo che sta creando le condizioni per una sorta di nuovo Medioevo ortografico. Il moltiplicarsi di scritture spontanee che travalicano il confine tra privato e pubblico e la conseguente pubblicazione di testi senza alcun filtro editoriale rendono ormai molto meno compatto e centralizzato il modello di riferimento. La norma ortografica, che nel Novecento era diventata la roccaforte della grammatica scolastica, sembra ora molto indebolita nella percezione collettiva: un fenomeno di portata internazionale, che non riguarda solo l’e-taliano.