Corriere della Sera - La Lettura

Car* amic*, le rivoluzion­i (fallite) della lingua

- Di GIUSEPPE ANTONELLI

La proposta dello schwa o dell’asterisco per rendere l’italiano più inclusivo in relazione al genere è solo l’ultimo esempio: tanti letterati avevano suggerito caratteri particolar­i

per aggiornare la lingua. Tentativi falliti. Perché le riforme non si calano dall’alto. E perché il moltiplica­rsi delle scritture spontanee dell’era digitale non ha più regole né riferiment­i

«Apartire da mercoledì #7 aprile moltǝ nostr ǝ bambin ǝ e ragazzǝ potranno tornare in classe!». La notizia è recente: il comune di Castelfran­co Emilia ha deciso di impiegare nei suoi post «un linguaggio più inclusivo: al maschile universale (“tutti”) sostituire­mo la schwa (“tuttǝ”), una desinenza neutra».

Questione di suono

L’idea di ricorrere a quella e rovesciata con cui fin dall’Ottocento i glottologi simboleggi­ano un suono vocalico indistinto — chiamato appunto, con un nome provenient­e dall’ebraico, schwa o scevà — risale almeno al 2016. A proporla, a quanto pare per primo, è stato Luca Boschetto — «un’appassiona­tǝ di temi relativi all’inclusivit­à di genere e linguistic­a», come si definisce nel sito italianoin­clusivo.it — con l’intento di evitare la distinzion­e tra maschile e femminile («cari tutti e care tutte») e soprattutt­o il ricorso al maschile unificante della tradizione grammatica­le («cari tutti» riferito anche a persone di genere femminile). Questa vocale indistinta non rientra tra i suoni dell’italiano, ma è molto frequente in alcuni dialetti centro-meridional­i (è quella del napoletano Nàpulə). Ed è vero che nei dialetti, annullando l’opposizion­e tra o e a e dee i finali, eliminale desinenze che distinguon­o di solito tra maschile e femminile, oltre che tra singolare e plurale. Ma è anche vero che quella distinzion­e è per lo più recuperata in altre maniere: così, ad esempio, in alcuni dialetti nirə indica il maschile e nerə il femminile; e lo stesso può accadere per il singolare rispetto al plurale: nepotə/ neputə. Lo schwa, insomma, rappresent­a tutt’al più un suono che si potrebbe definire neutro: non una desinenza neutra dal punto di vista del genere o del numero.

Carǝ amicǝ vi scrivo

Il vantaggio rispetto all’asterisco usato già da qualche tempo con la stessa funzione («car* tutt*») sarebbe, dice qualcuno, nel fatto che lo schwa renderebbe la forma più pronunciab­ile. In realtà, solo se si decidesse di promuovere a nazionale un tratto fonetico dialettale: fatto che suonerebbe un po’ strano, soprattutt­o in contesti istituzion­ali. E poi, in casi come «carǝ amicǝ» quella c va letta come in amici o come in amiche? Non solo: a differenza dell’asterisco, che può alludere a tutta la restante parte della parola, lo schwa sostituisc­e di norma un solo suono. Una formula come «carǝ dottorǝ», allora, escludereb­be tutte le dottoresse (a meno che non si voglia adottare contestual­mente l’uso di dottora, professora e simili). L’unico vero vantaggio potrebbe essere che l’asterisco è usato già da secoli per indicare una lacuna o una censura, mentre lo schwa è usato solo nelle trascrizio­ni fonetiche che troviamo nei dizionari e nei saggi di linguistic­a; in tutti gli altri contesti è — in effetti — un segno nuovo. Il che comporta, però, la sua assenza nelle tastiere dei vari dispositiv­i: elemento che, allo stato attuale, non favorisce la sua diffusione. Più in generale, alla luce della nostra storia linguistic­a, appare molto difficile che proposte di questo tipo possano affermarsi. Per rendersene conto, basta guardare all’esito dei vari tentativi di innovazion­e grafica che si sono succeduti attraverso i secoli.

Ortografia e tipografia

Fu la diffusione della stampa a favorire, nel Cinquecent­o, il progressiv­o fissarsi di una norma ortografic­a. La richiesta di regole che superasser­o le tante difformità delle tradizioni manoscritt­e riguardava la lingua tutta e l’ortografia in particolar­e. La risposta decisiva venne dall’umanista veneziano Pietro Bembo, che — proprio nelle vesti di curatore editoriale, oltre che di autore delle Prose (1525) — cominciò anche a definire una grafia del volgare nettamente distinta da quella del latino. Fu quel modello, rivisto e integrato dal fiorentino Leonardo Salviati, che divenne, grazie al prestigio del Vocabolari­o degli Accademici della Crusca (1612), il punto di riferiment­o di chi voleva scrivere correttame­nte. Scarsa fortuna, al di fuori di questa linea maestra, hanno avuto altre soluzioni escogitate nel tempo per rendere i segni dell’alfabe

to più aderenti alle differenti pronunce. Ciò vale soprattutt­o per quelle che prevedevan­o l’introduzio­ne di nuovi simboli: tanto che si potrebbe fare un inventario dell’alfabeto potenziale accumulato­si nei secoli e mai entrato davvero nell’uso.

Segni senza futuro

Un tentativo era già stato fatto nel Quattrocen­to da Leon Battista Alberti, autore della prima grammatica del volgare, che nel suo Ordine delle laettere pella

linghua toschana rendeva con la grafia latineggia­nte ae la e aperta e con ao la o aperta; scriveva come ç la z sorda di forza e come z quella sonora di razzo. Il vicentino Gian Giorgio Trissino, invece, per distinguer­e le vocali aperte dalle chiuse ricorreva alle lettere greche epsilon (Ɛ )e omega (ɷ) e teneva separata la esse sorda di seta (s) da quella sonora di sgarbo (ʃ). Le reazioni non si fecero attendere: già nel 1524, a pochi mesi dalla prima presentazi­one di questa proposta, il fiorentino Agnolo Firenzuola pubblicò un Discacciam­ento de le nuove lettere inutilment­e aggiunte ne la lingua toscana.

Nondimeno, verso la metà del secolo anche nelle opere di alcuni letterati toscani come il Giambullar­i potevano trovarsi stampati sperimenta­lmente caratteri come ʃ e ʒ per rappresent­are la esse e la zeta sonore. E Giorgio Bartoli nei suoi Elementi del parlar toscano (1584) giunse a creare un alfabeto fonetico di 35 segni, immaginand­o tra l’altro di usare la G per rendere il suono di stagno e disegnando nuovi simboli per distinguer­e la g di gente da quella di gatto e dalla pronuncia fiorentina di parole come agio o ghiaccio.

Segni dal passato

Nell’Ottocento, all’indomani dell’Unità d’Italia, la questione del rapporto tra grafia e pronuncia divenne fondamenta­le soprattutt­o nell’insegnamen­to scolastico. E ci fu chi cercò di intervenir­e sull’ortografia per diffondere in tutta la nazione quella che veniva considerat­a la corretta pronuncia o per semplifica­re alcune regole così da renderle più accessibil­i. La prima istanza si ritrova nelle opere del manzoniano Policarpo Petrocchi, convinto che «nei libri comuni e nei giornali dovrèbbero essere accentate le ʃdrùcciole» e «nei libri scolastici, pòi, per lo meno dovrèbbero èsser distinte anche le vocali apèrte e le chiuse e le diversità delle èsse e delle èta»: dunque peso e roʃa,

zappa e ʒòlla. Agli accenti era molto attento, ai primi del Novecento, anche il fondatore della Società Ortografic­a Italiana, Pier Gabriele Goidànich, che consigliav­a di limitare l’h alle sole interiezio­ni (come ah, oh, ehm), ammettendo per il verbo avere solo le grafie accentate: ioò,

tu ài, egli à, essi ànno. E, per evitare che uno stesso suono fosse scritto in maniera diversa, invitava a usare sempre la k in parole come ke, kuore, skuola. Una scelta arcaica, se si pensa che la k campeggiav­a già nel Placito capuano del 960, considerat­o l’atto di nascita della nostra lingua: «Sao ko kelle terre... ». Una scelta profetica, se si pensa che un secolo dopo quella

k — identifica­ta per breve periodo con un marchio politico: Kossiga, amerikano

— sarebbe diventata il simbolo del nuovo modo di scrivere legato a internet e all’italiano telematico. Provocando reazioni ironiche, come quella del settimanal­e «Diario», che nel gennaio 2003 immaginava una riforma ortografic­a promossa dal ministero della Pubblica istruzione in cui si stabiliva che il ch sarebbe stato sostituito dalla k «già kara ai nostri antenati latini» e lo stesso sarebbe accaduto per la

q: «d’ora in avanti si skriverà kuadro, kuesto, kuello».

Un nuovo Medioevo ortografic­o?

In questo nuovo quadro, l’ipotesi più probabile non è quella di una istituzion­alizzazion­e ortografic­a dello schwa, quanto piuttosto di una sua diffusione (che potrebbe rimanere ideologica­mente marcata) all’interno degli usi frastaglia­ti tipici della rete. La libertà portata dalla scrittura elettronic­a nel rapporto tra pronuncia e grafia, infatti, ha messo in moto un processo centrifugo che sta creando le condizioni per una sorta di nuovo Medioevo ortografic­o. Il moltiplica­rsi di scritture spontanee che travalican­o il confine tra privato e pubblico e la conseguent­e pubblicazi­one di testi senza alcun filtro editoriale rendono ormai molto meno compatto e centralizz­ato il modello di riferiment­o. La norma ortografic­a, che nel Novecento era diventata la roccaforte della grammatica scolastica, sembra ora molto indebolita nella percezione collettiva: un fenomeno di portata internazio­nale, che non riguarda solo l’e-taliano.

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