Corriere della Sera - La Lettura
Uccideresti per tua figlia? Harlan Coben è tornato
Assente da qualche anno sul mercato editoriale italiano, Harlan Coben, gigantesco (anche fisicamente) scrittore statunitense di thriller, torna con un romanzo altrettanto gigantesco. Con un innesco potente e semplicissimo: la famiglia
Le sue storie sono come un bocciolo che dischiude i petali, ma lo fa al crepuscolo, non all’alba. Sono petali bagnati da una luce scura, liquida e vischiosa; cresciuti affondando le radici in una terra colma di «cose cattive» mai davvero sepolte
Un padre, una figlia. È tutto qui, a pensarci bene, il motore narrativo del nuovo romanzo di Harlan Coben, Fuga. Assente da qualche anno sul mercato editoriale italiano, Coben ritorna per Longanesi con un libro che l’ha proiettato immediatamente al primo posto delle classifiche statunitensi. Il gigantesco — anche fisicamente, e chi ha avuto modo di incontrarlo di persona lo sa — autore di thriller americano è amato in tutto il mondo (per esempio, ha un vastissimo pubblico di lettori in Francia, Paese che per primo ha tratto film e serie tv dalle sue storie) e lo è diventato grazie a un’intuizione narrativa straordinaria: l’innesco più potente è quello in apparenza più semplice.
Fuga, per l’appunto, è innanzitutto la storia di un padre e una figlia.
Un padre come tanti, una figlia come tante. E, come accade a tanti, qualcosa va storto. In modo apparentemente irrimediabile.
Ma nessun padre, così come nessuna madre, si arrenderebbe all’apparenza dell’irrimediabilità, giusto?
Ed è proprio lo stesso Coben a dircelo, per voce di uno dei personaggi che mette in scena: «Domanda: sarebbe in grado di uccidere qualcuno? Risposta: no, certo che no. Domanda: ucciderebbe qualcuno pur di salvare uno dei suoi figli? Risposta...?».
Per scoprire la risposta, ovviamente, occorre leggere il romanzo. Ed è sufficiente lasciarsi ammaliare dalle prime righe, dalla prima scena — perfetta in ogni dettaglio — che si svolge a Central Park, per correre trafelati fino in fondo, dritti all’ultima pagina, all’ultima inattesa scoperta.
Simon, sua moglie Ingrid e i loro tre figli sono persone normali. Che vivono una vita normale, hanno un lavoro normale — lui è consulente di investimenti, lei è una dottoressa in un grande ospedale, i figli sono in età scolare — e sono perfettamente integrati e a loro agio nella frenetica, convulsa normalità di New York. È la figlia maggiore, la ventenne Paige, a rappresentare la prima crepa nella linda facciata della loro esistenza. Lontana da casa per gli studi al college, d’improvviso Paige sembra diventare un’altra persona. Inizia a vivere nel disordine, riempie di menzogne chi ama, arriva perfino a rubare. Colpa della droga, forse? O forse la responsabilità va ricercata nella relazione che la unisce ad Aaron, un ragazzo più grande di lei, tossicodipendente e spacciatore, un’invasiva presenza oscura che la stringe a sé in un abbraccio nefasto? Paige scompare dalla vita dei genitori, ma Simon e Ingrid non si arrendono. Non possono accettare — chi mai potrebbe farlo? — la sorte negletta e incerta della loro primogenita.
Può un fiore dimenticare le proprie radici, o lasciare che i propri petali avvizziscano sotto una luce fatta di tenebre? Tra l’abisso verticale del cielo sopra le nostre città e quello orizzontale della terra che calpestiamo, non c’è spazio che un padre disperato non sia disposto a violare pur di rintracciare e salvare la propria amatissima figlia.
Costi quel che costi.
È sempre Harlan Coben a svelarci qual è il prezzo da pagare. Non si tratta banalmente di soldi, e nemmeno di un prezzo soltanto emotivo. Non è questione di scendere a patti con zone oscure di noi stessi che da sempre cerchiamo di nascondere, reprimere, tacitare con i piccoli e falsamente rassicuranti gesti abitudinari delle nostre ordinatissime esistenze.
La verità — ed è una verità che chi scrive thriller non può fare a meno di fronteggiare ogni giorno, ogni volta che legge un articolo di cronaca, ogni volta che si siede davanti a uno schermo bianco immaginando storie intrise di buio — è che c’è qualcosa di profondo e ineludibile, qualcosa che ha a che fare con la natura invisibile ma straordinariamente permanente del Male. Si annida come un serpente velenoso in fondo alla cesta dei nostri
sporchi, quelli che crediamo di dover e poter lavare in famiglia.
Coben ne spiega così l’essenza: «Le cose cattive rimangono. Le cose cattive non se ne vanno mai. Le seppellisci, e quelle da sotto scavano, smuovono la terra e saltano fuori di nuovo. Le getti nel bel mezzo dell’oceano e ti tornano indietro come la marea».
Esiste un luogo preciso in cui nascono «le cose cattive» — e, anche in questo caso, ogni scrittore di thriller lo conosce forse più di quanto vorrebbe. Lo sa, in fondo al cuore, che è così. È un luogo sociale ed esistenziale, forse si potrebbe addirittura definire il «luogo originario e primordiale»: la famiglia.
La famiglia può essere il posto più sicuro al mondo. E anche il più terribile. Una prima spiegazione forse risie
de in una cosa che Harlan Coben ha detto qualche tempo fa, durante un’intervista a un quotidiano statunitense: «Parte della condizione umana consiste nel fatto che ciascuno di noi si ritiene possessore di una complessità unica al mondo e che, allo stesso tempo, tutti gli altri siano facili da comprendere, interpretare, catalogare. Non è così. Tutti abbiamo sogni e incubi, desideri e passioni, speranze e ambizioni. Ciascuno di noi, a suo modo, è abitato dalla follia».
E in effetti, se c’è qualcuno che crediamo di conoscere a fondo, tanto da poter prevedere qualsiasi suo comportamento, è proprio chi appartiene alla nostra famiglia.
Ci piace pensare di essere intimamente enigmatici, di essere imprevedibili per chiunque, perfino per chi ci conosce da quando siamo nati. Ci piace pensare che chi ci conosce da quando siamo nati sia infinitamente prevedibile. È nella voragine fra queste due frasi che vive e prospera il Male. Raccontarlo, però, è tutt’altro che semni plice. Se c’è una ragione per cui Coben è un maestro della crime fiction mondiale — ma io direi della letteratura — con milioni di copie vendute all’attivo e, da qualche anno, con l’investitura di Netflix che l’ha voluto come sceneggiatore e produttore esecutivo in esclusiva per le sue serie thriller di maggior successo, è proprio questa: pochi come lui sanno raccontare quella voragine prendendoci, quasi letteralmente, per mano. Pochi sanno trascinare il lettore, o lo spettatore, così dentro i personaggi e dentro le situazioni spesso al limite che, loro malgrado, si trovano ad affrontare.
Perché va detto, con buona pace dei detrattori del genere, che scrivere un thriller è faccenda quanto mai complessa e articolata. La consunta ma ancora valida immagine secondo cui in un thriller ogni passaggio debba essere come la tessera di un puzzle e che alla fine tutto debba assemblarsi davanti agli occhi stupefatti del lettore, che fino a una pagina prima non aveva intuito il disegno nel suo complesso, è solo una parte della verità. Un thriller non è soltanto un disegno a tinte fosche, non «funziona» solo in virtù della magia del chiaroscuro e di quella degli inattesi sprazzi di luce accecante che riesce a regalare. Non è solo frutto dell’incanto meccanico di ingranaggi che s’incastrano consonanti.
Ciascuno di questi ingranaggi deve avere un’anima. Deve cantare, come una sirena, e sedurre.
Perché noi che stiamo dall’altra parte — noi seduti in poltrona, la pagina da girare fra le dita, gli occhi che corrono rapidi e assaporanti da una riga alla successiva; noi seduti in poltrona, il telecomando inerte in mano perché tanto non cambieremo canale, rapiti come siamo dalle scene sullo schermo — noi abbiamo bisogno di crederci. Di parteggiare. Di soffrire. Di compatire. Noi abbiamo bisogno di chiederci che cosa faremmo al posto di quei personaggi — no, di quelle persone.
È in questo che, ritengo, Harlan Coben si rivela straordinario. Se osservate e analizzate attraverso la lente focale dello scrittore di thriller, così come se godute attraverso lo stupore ammirato del lettore, le trame delle sue opere rivelano una struttura peculiare. Forse è proprio questo ad averlo reso un autore così efficace tanto sulla carta stampata quanto nel media televisivo. Le storie di Harlan Coben sono come un fiore che dischiude i petali, uno alla volta, ma lo fa al crepuscolo, non all’alba. Sono petali bagnati dalla luce nera, liquida e vischiosa del Male. Sono fiori seminati nell’ombra, cresciuti affondando le radici in una terra colma di «cose cattive» mai davvero sepolte. Ogni petalo che ci appare mostra un colore diverso di quella stessa notte in cui ciascuno di noi, inconsapevolmente, naviga. E solo al termine di questo processo — magnetico, ipnotico — comprenderemo la natura del fiore che abbiamo davanti.
Nel thriller tradizionale, il cosiddetto «procedurale», l’incedere del meccanismo narrativo — e la sua efficacia nel mantenere alta la tensione nel lettore — è in qualche modo sorretto, e a tratti garantito, dalla detection, ovvero dal susseguirsi di elementi forensi: rilievi sulla scena del crimine, indizi rinvenuti, interrogatori, intuizioni investigative, esami medico-legali, analisi del Dna... Un apparato complesso, che richiede ricerche approfondite e che, da scrittori, occorre saper dominare per non correre il rischio di esserne dominati.
Ma cosa succede se d’improvviso sottraiamo la detection al meccanismo del thriller?
Ne nasce tutta un’altra sfida, altrettanto interessante, perché — in assenza di indizi materiali codificati in una catena probatoria — ciò che resta da indagare si trova tutto dentro la mente, la vita, la personalità dei protagonisti.
Le tracce? Gesti, parole, silenzi.
Il profiling? La vita stessa. Il presente e il passato di persone normali, come noi.
La scena del crimine? La famiglia.
Per esempio, un padre disperato e una figlia in fuga. Un padre e una figlia. È tutto qui, a ben pensarci. E scusate se è poco.