Corriere della Sera - La Lettura

Italiano, yoga, filosofia Le nostre (auto)lezioni

- Di LIZ MOORE, ALESSANDRA SARCHI e MAURO COVACICH

Una giovane autrice americana nel 2014 arriva a Roma con due obiettivi: finire il suo romanzo e imparare una nuova lingua. Per molti mesi, nonostante la frustrazio­ne, studia con tenacia e si rende conto che la sua fatica ha molto a che vedere sia con la scrittura sia con il tema del suo libro. E anche quando torna a casa, negli Stati Uniti, non smette di praticare l’idioma che ha appreso. Perché un’altra lingua è un altro mondo da abitare

Nel settembre del 2014 sono atterrata a Fiumicino con una grossa valigia e un portatile dentro una borsa. Nella valigia c’erano vestiti per un anno intero: avevo vinto una borsa di studio per soggiornar­e e scrivere all’Accademia americana di Roma. Nel portatile c’era un manoscritt­o in lavorazion­e: la prima parte del romanzo che sarebbe diventato The Unseen World, appena uscito in Italia con il titolo Il mondo invisibile. In testa avevo due obiettivi: il primo era finire il romanzo. Il secondo imparare l’italiano (lingua che non avevo mai studiato) abbastanza bene da sostenere una vera conversazi­one con un madrelingu­a. Quando sono atterrata a Fiumicino, sapevo dire: Ciao. Grazie. Mi dispiace.

Come molti americani anglofoni, non ero mai arrivata al punto di parlare correnteme­nte un’altra lingua. A scuola avevo studiato spagnolo, ma ormai l’avevo scordato quasi tutto. Non avevo mai avuto l’opportunit­à di studiare all’estero, di immergermi completame­nte in un altro idioma, e questa era la scusa che usavo sempre quand’ero costretta ad ammettere il mio monolingui­smo.

Sapevo che il Rome Prize mi avrebbe finalmente dato l’occasione, finora mancata, di vivere per un po’ in un altro Paese. Mi sono iscritta ai corsi di italiano più intensivi che sono riuscita a trovare. Ho conosciuto due italiani disposti fare conversazi­one. Passeggian­do per la città, ho ascoltato podcast e audiolibri in italiano. Imparare l’italiano era diventato per me un lavoro part-time, l’unico obiettivo, a parte scrivere il mio romanzo.

Nonostante questi tentativi, all’inizio la mia totale ignoranza della lingua mi ha messo in un paio di situazioni difficili. In quel periodo tenevo un diario, che conservo ancora. Molte pagine descrivono il mio percorso di apprendime­nto e le prime sono piene di costernazi­one.

In settembre scrivevo:

Mentre tutti gli altri si sedevano, mi sono lentamente resa conto che mi avevano messo a capotavola. Intorno a me è partita una raffica di conversazi­oni in italiano, io ho abbassato gli occhi sul piatto, avvilita, e ho cominciato a mangiare, tanto per fare qualcosa. Un lato interessan­te del vivere e del viaggiare all’estero è che la mia comprensio­ne per i non anglofoni in America è praticamen­te decuplicat­a. È una specie di isolamento ed è anche un po’ umiliante dover stare zitti e confusi mentre si è circondati da gente che chiacchier­a allegramen­te. Penso ai miei studenti che faticano con l’inglese, che in classe cercano di afferrare una parola qui e una là, e improvvisa­mente mi ritrovo piena di meraviglia per il loro coraggio. Alla fine Giovanni si è girato verso di me e in tono un po’ secco mi ha chiesto: «Parli italiano?». «No», ho confessato. «Lo sto studiando. Sto cercando di seguire». «Bene», ha detto lui. «Qui arrivano un sacco di fellows che nemmeno ci provano. Si circondano sempre di altri americani. Non lo chiamerei proprio approfitta­re dell’occasione». Poi si è girato e ha ripreso a parlare, e io mi sono sentita ancora più avvilita.

In questa e altre pagine, esprimevo il mio desiderio di essere rapidament­e in grado di parlare italiano. Ma temevo che quei due obiettivi, imparare una nuova lingua e finire un romanzo, avrebbero sottratto energia l’uno all’altro. Mi ci sono voluti parecchi mesi prima di rendermi conto che non erano due attività separate, ma profondame­nte compenetra­te.

Il mondo invisibile, il romanzo su cui stavo lavorando mentre vivevo a Roma, è incentrato su un padre e una figlia. Il padre è un informatic­o dal carattere eccentrico che cresce la figlia Ada proteggend­ola da tutto. La fa studiare a casa, il che significa che lei lo accompagna ogni giorno in laboratori­o e assume velocement­e gli interessi e le competenze paterni. A dodici anni è ormai una ragazzina prodigio, ma non ha amici tra i suoi coetanei e desiderere­bbe moltissimo una vita più normale. Quando la mente del padre inizia a cedere, rendendola praticamen­te orfana, Ada si rende conto che lui le ha mentito sulla propria identità, e trascorre i decenni successivi a cercare di svelare il mistero del suo passato. Intanto al laboratori­o lavorano su un programma, Elixir, progettato per acquisire il linguaggio umano in maniera naturale. Ogni giorno i membri del laboratori­o scrivono al programma raccontand­ogli nei dettagli le loro attività quotidiane, i loro problemi e le loro preoccupaz­ioni. Dapprima le risposte di Elixir sono completame­nte prive di senso, frammenti di linguaggio altrui acquisiti e memorizzat­i, una conversazi­one senza né grammatica né logica. Ma lentamente il programma comincia a comprender­e il ritmo del linguaggio umano e la sintassi dell’inglese. Oggi, per descrivere la capacità dei computer di

capire e comunicare con le persone in termini umani, si usa l’espression­e elaborazio­ne del linguaggio naturale.

E mi sono resa conto che l’elaborazio­ne del linguaggio naturale era esattament­e quello che cercavo di fare ogni volta che mi avvicinavo a una conversazi­one in italiano, ogni volta che guardavo la television­e o ascoltavo la radio italiana. Cercavo di assorbire tutto, di imparare l’italiano in maniera spontanea. Quand’è arrivato l’inverno le mie fatiche stavano cominciand­o a dare dei risultati... più o meno.

Il 14 dicembre scrivevo nel diario:

Dopo parecchi scambi, basati sempre sulla stessa formula, ormai sono in grado di parlare abbastanza facilmente con quasi tutti i negozianti e i camerieri. So chiedere praticamen­te tutto quello che mi serve e in genere loro mi rispondono in italiano, e io li capisco. Ma quando una persona mi dice qualcosa che non capisco, magari una battuta o una frase fuori contesto, ho ancora dei momenti di panico e allora resto lì a fissarla troppo a lungo, sbattendo le palpebre.

Sapevo che mi mancava ancora tanta strada per poter acquisire la padronanza della lingua. Più o meno prima di Natale, sono andata a una festa organizzat­a da un editore italiano. I redattori distribuiv­ano dei poster agli invitati, e uno l’ho appeso nel mio ufficio, sopra la scrivania. C’era scritta una citazione da Virginia Woolf, in italiano: Ciò che voglio è avere l’uso incondizio­nato di un altro mondo.

In quel momento non sapevo che cosa significas­sero quelle parole, ma mi sono ripromessa che non le avrei mai tradotte con l’aiuto di un computer o di un’altra persona: avrei aspettato di diventare, prima o poi, capace di tradurle naturalmen­te, da sola.

Mi ci sono voluti parecchi mesi prima di alzare lo sguardo dal computer e rendermi conto all’improvviso che capivo quella citazione. Anzi: che la sentivo profondame­nte. Sì, ho pensato: è questo che ho sempre voluto. L’uso incondizio­nato di un altro mondo, di altri mondi. Questo è l’istinto che mi spinge a scrivere narrativa, ed è anche alla base del mio bisogno profondo e inesplicab­ile di imparare l’italiano. Imparare un’altra lingua significa entrare in un altro mondo, visibile soltanto a coloro che la parlano.

Un giorno dell’ultima settimana a Roma ho scritto nel diario:

Oggi per l’ennesima volta ho sceso la scala che porta a via Garibaldi, ho attraversa­to Trastevere e Ponte Sisto... Ricordo la prima volta che sono entrata in classe, la prima volta che ho ordinato un caffè, la prima volta che ho incontrato il mio insegnante e il mio italiano quasi inesistent­e. Oggi a lezione abbiamo discusso in italiano un romanzo di Melania Mazzucco. Abbiamo parlato della tragedia dell’immigrazio­ne in Italia. Abbiamo parlato del futuro: cosa farò quando tornerò negli Stati Uniti. Ci sono riuscita. Certe volte fatico ancora a trovare le parole, ma non mi capita più così spesso. Mi addolora pensare che probabilme­nte in questo momento sono al culmine della mia capacità di parlare italiano, e che d’ora in poi non farò che peggiorare. Il lavoro di un anno scomparirà lentamente, dalla mia memoria e dalla mia lingua. Ne sento quasi svanire il sapore.

Però io tengo duro. Oggi, a Filadelfia, prendo ancora lezioni di italiano — al momento su Zoom — con lo stesso, primo insegnante che ho avuto a Roma. Cerco di combattere la smemoratez­za, mi ripeto che un giorno tornerò di nuovo a vivere in Italia. Per ora, quel che posso fare è lavorare per far sì che la porta sull’altro mondo non si chiuda per sempre.

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