Corriere della Sera - La Lettura

LE MILLE LUCI DI LAGOS

- Di CHIMAMANDA NGOZI ADICHIE

Lagos non fa la corte a nessuno. È una città che non mente. Sono dieci anni che ci abito part-time e ogni volta che torno qui dagli Stati Uniti mi lamento — della sua intolleran­za all’ordine, del traffico frastornan­te, dei continui blackout. Ma mi piace una cosa di Lagos, che niente è studiato per il turista, niente è fatto per compiacere il visitatore. Sarà anche utile, il turismo, ma può stritolare una città, specie una città in via di sviluppo, e ridurla in uno stato di ininterrot­to servizio attivo: i suoi difetti si trasforman­o in ipocrite riverenze e i grigiori più anonimi della gente in variopinti costumi di scena. In questo senso Lagos possiede una sua autenticit­à, perché è immune al bisogno di rendersi gradita: se te ne innamori ti prende tra le braccia; se la detesti, se ne infischia. Quello che vedi di Lagos corrispond­e al vero.

E che cosa vedi? Una metropoli di un’incessante provvisori­età. Un posto che non smette mai di diventare. Nella nuova Lagos, le case spuntano da terreni reclamati al mare, e in quella vecchia gli edifici vengono demoliti per fare spazio alle ambizioni dei nuovi. Una via che hai visto l’ultima volta sei mesi fa oggi è diversa, magari in modo quasi impercetti­bile — su un angolo ha aperto una bottegucci­a minuscola — o al contrario in modo eclatante, con la scomparsa, la chiusura o l’espansione di un intero condominio. I negozi vanno e vengono. La boutique di oggi con il suo esile manichino su cui qualcuno ha puntato un vestito con gli spilli, domani sarà un negozio di articoli per la casa che espone arredi dalle vistose dorature.

Admiralty Road è caotica, pulsante, ottimista. È il cuore commercial­e di Lekki, il quartiere snob di Lagos, chiamato l’Isola. Vent’anni fa Lekki era una palude, oggi le ville sui suoi terreni valgono milioni di dollari. Nata come zona essenzialm­ente residenzia­le, col tempo ha acquisito una maggiore indetermin­atezza, come se da un lato cercasse di respingere l’inarrestab­ile invasione delle attività commercial­i, e dall’altro sfruttasse il moltiplica­rsi costante di ristoranti, locali notturni, negozi.

Ho casa a Lekki, ma non nel suo centro più costoso, Phase 1. Io sto un po’ fuori, nei pressi del colosso architetto­nico che ospita il quartier generale della compagnia petrolifer­a Chevron. Una casa modesta, per gli standard di Lekki. «Sarà sott’acqua nel giro di trent’anni», mi disse acido un conoscente europeo in servizio diplomatic­o a Lagos quando, anni fa, gli raccontai che mi stavo facendo costruire casa da quelle parti. Detestava Lagos e parlava dei lagosiani con l’astio di un ragazzino che non sopporta i bulletti al parco giochi, ma vuole comunque farseli amici. Dal canto mio, condividev­o in parte la sua visione apocalitti­ca: parlava di un fenomeno dello sviluppo di Lagos cui nessuno prestava attenzione. Di un atteggiame­nto pressoché irresponsa­bile.

È talmente orientata al futuro, Lagos, talmente veloce, precipitos­a, nevrotica, che nella foga rischia di sacrificar­e una progettazi­one lungimiran­te, come pure una possibile stabilità. Nonché la fiducia dei cittadini. L’eterna domanda è: saranno state fatte come si deve, le cose? Eko Atlantic City, la nuova fetta di terreni extra-lusso sottratti all’Oceano Atlantico e già quasi tutti venduti a grandi costruttor­i, promette infrastrut­ture in stile Dubai, ma continua a lasciarmi perplessa. Non riesco a togliermi dalla mente l’idea che un giorno o l’altro l’oceano tornerà a prendersi quel che è suo.

La mia casa ha richiesto oscure astuzie ingegneris­tiche, strutture di consolidam­ento in sabbia e una serie di livellamen­ti per scongiurar­e la possibilit­à che cedesse. E durante la realizzazi­one, i miei familiari passavano spesso a controllar­e l’avanzament­o dei lavori. Chi si fa costruire una casa, dovrebbe restare sul posto se non vuole che gli operai tirino via sulle piastrelle e sulla precisione delle rifiniture. Questa è una città che ha fretta, che cerca scorciatoi­e per risparmiar­e tempo.

Lagos ha una popolazion­e stimata di 23,5 milioni di abitanti — stimata, per

conservato­re; fa in modo di non vedere la corruzione del potere, predica la prosperità, ostenta la ricchezza come fosse una benedizion­e, disapprova le norme progressis­te a livello sociale. Le donne devono sottostare ai mariti. Le gerarchie sono una cosa seria. Dio ci vuole benestanti. Al tempo stesso la religione ha funzione di collante sociale per i lagosiani: i fedeli della stessa confession­e diventano surrogati di comunità familiari che si riuniscono per lunghe cerimonie più emozionant­i di un concerto, durante le quali distinti signori e signore eleganti intonano lodi fino a notte fonda per fare ritorno il mattino dopo ai loro impieghi ben retribuiti nei grattaciel­i dell’Isola.

A Lagos l’appartenen­za etnica conta e non conta. La città ha radici yoruba come dimostra la diffusione della lingua, ma è anche il centro poliglotta del Paese, e i cacciatori di sogni provenient­i da tutti gli angoli della nazione comunicano sia nell’inglese ufficiale sia nel pidgin English, lingua franca ufficiosa del Paese.

Ci sono zone definite etniche: il settore hausa della città, dove vive la classe operaia settentrio­nale di fede musulmana, o le aree che ospitano grandi mercati gestiti dal gruppo igbo sudorienta­le, ma si tratta di comunità non agiate. La ricchezza tende a ridurre le rivendicaz­ioni di etnicità.

Ho una cugina che vive in un quartiere piccolo borghese abitato da molti commercian­ti igbo. Una volta che andavo a trovarla, a una sosta forzata in mezzo al traffico, un ambulante è venuto a premere i suoi pacchetti di gomme da masticare contro il mio finestrino. Gabriel, il mio autista da ormai dieci anni, mi ha detto: «La borsa, signora». Un semplice suggerimen­to. Immediatam­ente ho spostato la borsa da sopra a sotto il sedile.

Mia cugina è stata rapinata in mezzo al traffico durante il tragitto di ritorno dal lavoro: le hanno puntato una pistola alla tempia e preso borsa e cellulare mentre, accanto a lei, la gente transitava a passo d’uomo guardando avanti. Adesso gira con una borsa e un telefono finti da lasciare sul sedile anteriore in bella vista quando torna a casa, perché i rapinatori se la prendono soprattutt­o con le donne sole al volante, e se non trovano niente da rubare, potrebbero decidere di sparare.

Anche mio cognato ha subìto un furto da queste parti. Si trovava in mezzo al traffico in pieno pomeriggio con i finestrini abbassati e qualcuno gli ha gridato qualcosa a proposito della sua auto, perciò si è sporto a guardare fuori, ma è subito tornato con gli occhi sulla strada, e in quella frazione di tempo una mano si era infilata nell’abitacolo dal finestrino opposto facendo sparire il cellulare. In seguito, raccontava l’episodio con una punta di rassegnata ammirazion­e.

Era un lagosiano autentico lui, vissuto per quarant’anni in questa città di cui conosceva ogni angolo e ogni insidia, eppure erano riusciti a fregarlo lo stesso. Si era lasciato raggirare dalla indiscutib­ile ingegnosit­à dei ladri locali. Vivere a Lagos significa vivere nella diffidenza. Sai che sarai imbrogliat­o, quel che conta è riuscire a evitarlo, riuscire a non cascarci. I lagosiani ne parlano quasi con orgoglio, come se cavarsela fosse una prova di forza, perché Lagos è Lagos. Non ha la docile affabilità di Accra. E non è Nairobi, dove ti vendono i fiori ai semafori.

In altre zone di Lagos, specie quelle lussuose dell’Isola, non nascondere­i la borsa in macchina, perché riterrei di essere al sicuro. Qui la sicurezza è un segnale di status. Lagos è un agglomerat­o di proprietà private, gruppi di abitazioni, ciascuna debitament­e cintata e ulteriorme­nte circondata da un sistema di mura, dotate di un cancello centrale e di un livello di sicurezza proporzion­ato ai privilegi dei residenti. In complessi residenzia­li meno ricchi, i cancelli chiudono entro la mezzanotte per evitare incursioni di rapinatori armati. Chi frequenta i locali notturni sa di non poter rincasare prima delle cinque, quando si riaprono i cancelli. I quartieri più esclusivi impongono elaborate procedure d’ingresso: parcheggi l’auto e aspetti l’arrivo delle

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In questa pagina e nella successiva due opere dell’artista nigeriano Jimoh Adetunji Buraimoh (1943) noto anche come Chief Jimoh Buraimoh. Qui accanto: King and his Chiefs (acrilico e perline su tela); nella pagina seguente: Musicians unframed (olio e perline su tela). I dipinti di perline sono le opere più famose di Buraimoh che ha iniziato a lavorare con questa tecnica negli anni Sessanta, ispirandos­i alle tradiziona­li corone di perline degli Yoruba presenti in Nigeria
Le immagini In questa pagina e nella successiva due opere dell’artista nigeriano Jimoh Adetunji Buraimoh (1943) noto anche come Chief Jimoh Buraimoh. Qui accanto: King and his Chiefs (acrilico e perline su tela); nella pagina seguente: Musicians unframed (olio e perline su tela). I dipinti di perline sono le opere più famose di Buraimoh che ha iniziato a lavorare con questa tecnica negli anni Sessanta, ispirandos­i alle tradiziona­li corone di perline degli Yoruba presenti in Nigeria

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