Corriere della Sera - La Lettura
Il sesso biologico non è una gabbia Ce lo ha insegnato Margaret Mead
Riletture L’eredità dell’antropologa che scoprì l’origine culturale delle strutture patriarcali
Margaret Mead è stata l’antropologa della libertà. La scienziata che nel Novecento ha dimostrato che il sesso biologico non determina quello che siamo e che saremo. Perché fisiologia e genetica raccontano solo una parte di noi. Il resto lo scriviamo di nostro pugno giorno per giorno. Eppure, per secoli, a dettare la trama delle vite e la forma delle identità è stato il modello patriarcale, incentrato sulla figura del pater familias, del maschio alfa . Un sistema che non ammette identità alternative al di fuori dell’opposizione secca uomo-donna. Fortunatamente oggi, al tempo della sessualità liquida, ciascuno decide per sé. Anche grazie a Margaret, la ragazza di Filadelfia, nata nel 1901 da una famiglia di intellettuali. Minuta ed empatica, acuta e comunicativa, lavoratrice instancabile e conferenziera inarrivabile, che con quaranta pubblicazioni e innumerevoli apparizioni televisive ha fatto cambiare idea all’Occidente su cosa ci renda maschi e femmine, madri e padri, amanti e santi.
Il libro con il quale nel 1935 inaugura questa rivoluzione del pensiero si intitola Sesso e temperamento e ora, nel pieno del dibattito sul progetto di legge Zan contro l’omofobia, la transfobia, la bifobia e l’abilismo (l’odio verso i disabili) il Saggiatore lo ha provvidenzialmente ripubblicato. Con un commento della figlia Mary Catherine Bateson e con l’introduzione di Helen Fisher, entrambe antropologhe.
Il testo nasce da una delle avventurose esplorazioni compiute da Mead nel Pacifico negli anni Trenta. Mesi e mesi di vita con tre società della Nuova Guinea per cercare di capire il loro modo di vivere e di pensare la sessualità. Un argomento che all’epoca è inesplorato quanto le foreste pluviali di quell’isola che si allunga nell’oceano tra l’Australia e l’Indonesia, dove vivono popolazioni ancora immerse nell’età della pietra. Il senso comune di allora immagina quelle tribù come iperpatriarcali. Da una parte uomi
ni virilissimi e cacciatori. Dall’altra donne amorevolissime con la prole e appassionate raccoglitrici di ortaggi per sfamare consorti e bebé. Un cliché nato dalla falsa idea che la natura predisponga in anticipo i ruoli maschili e femminili. E che va in mille pezzi davanti agli occhi sgranati della giovanissima ricercatrice. In realtà, quelli che all’epoca vengono chiamati ancora «popoli primitivi», mostrano di avere costruito modelli sociali originali. E soprattutto diversi fra loro, nonostante vivano tutti in un ambiente simile.
Insomma, la ricerca è tutta un susseguirsi di sorprese. Gli arapesh mostrano di non fare distinzioni di genere. Uomini e donne collaborano alla pari nella cura dei figli. «Tutta quanta l’avventura della loro vita si incentrava nel far crescere le cose — piante, maiali e soprattutto bambini». L’aggressività è considerata il male assoluto. La persona ideale, secondo questo popolo di costruttori di pace, è quella che non alimenta la violenza, condanna l’ira, stigmatizza la competizione per il potere. I veri forti sono colone che accettano serenamente gli accadimenti della vita. Dopo questa esperienza tra la gente più gandhiana del Pacifico, che Mead nel suo libro autobiografico
L’inverno delle more definisce «materna», si trasferisce nella tribù vicina, i mundugumor che, al contrario, sono fallocentrici, sessisti, violenti e cannibali. Tra loro il cosiddetto gentil sesso non esiste, visto che maschi e femmine sono egualmente aggressivi, feroci ed entrambi detestano i bambini. Che sono costretti a crescere in fretta per mettersi al riparo dalle angherie degli adulti. Madri incluse.
L’ultima tappa di questo viaggio tra i generi la porta tra i ciambuli, che vivono il rapporto uomo-donna proprio come negli Stati Uniti. Educando i maschi ad essere machos e le femmine ad essere femminucce, dominanti i primi e sottomesse le seconde. Così Margaret giunge alla conclusione che la personalità maschile e quella femminile sono un prodotto della cultura. L’effetto di una standardizzazione che omologa le persone, sacrificando i talenti e le inclinazioni personali sull’altare di un preciso ordine sociale e di un certo ideale di famiglia. Mead dimostra di fatto che sesso e genere sono indipendenti l’uno dall’altro. E apre la mente dei suoi lettori alla comprensione che dentro al genere stesso si dà una vasta gamma di possibilità oltre all’opzione binaria, letteralmente «eterodossa», tra maschio e femmina. «La nostra cultura si è basata (...) su molte distinzioni artificiali, la più sorprendente delle quali è il sesso», scrive.
Il grande merito di Mead è che l’osservazione dei popoli della Nuova Guinea non la induce a cercare di «civilizzarli» per farli diventare come noi. Ma al contrario, la spinge a trarne una lezione per «civilizzare» l’Occidente. Ponendo le basi teoriche per una lotta a favore dell’allargamento dei diritti civili ancora oggi in corso. Il pregio del suo approccio femminista è che libera sia le donne che gli uomini dalle diverse gabbie, opposte e complementari, nelle quali la tradizioro patriarcale ha recluso entrambi. La grande antropologa suggerisce di educare allo stesso modo le ragazze e i ragazzi, perché ciascuno possa avere pari opportunità di realizzare sé stesso e di offrire alla collettività i frutti delle sue capacità. Il suo egualitarismo mite ma determinato, sempre scientificamente supportato, la porta a concludere questo libro avvincente e illuminante scrivendo che «se vogliamo elevarci a una cultura più ricca, dobbiamo accettare tutta la gamma delle potenzialità umane e con essa fabbricare un tessuto sociale meno arbitrario, nel quale ogni diversa dote umana trovi il posto che le conviene».
Una teoria scientifica che nasce anche dalla sua vicenda biografica. Perché Margaret il pregiudizio lo vive sulla sua pelle. Lei, che sposa tre uomini ma ama una donna, la sua maestra Ruth Benedict. Il loro è un travolgente intreccio tra amorosi sensi e intelletto d’amore. Consumato ovviamente in segreto, perché l’establishment accademico non glielo avrebbe mai perdonato.