Corriere della Sera - La Lettura
Meno regole per i parrucchieri!
Docente di Economia al Mit, Daron Acemoglu interviene alla rassegna milanese «There is [No] Alternative» della Fondazione Feltrinelli. Qui anticipa alcune riflessioni sul ruolo dei governi nel mondo post-pandemico
Il bello di Daron Acemoglu è che non può essere costretto in alcuna delle stanze che si aprono di solito quando si conversa della fase attuale del capitalismo e dello Stato. Non è tra chi osanna l’intervento dei governi, perché il professore di Economia del Mit di Boston sa che a questo potere occorre mettere dei limiti. E nemmeno è tra chi ritiene che siano le grandi imprese a dovere essere lasciate correre tanto faranno del bene: non lo pensa. Di recente ha pubblicato un libro — in Italia con il titolo La strettoia (il Saggiatore) — nel quale spiega perché occorre trovare un equilibrio, un corridoio virtuoso tra il Leviatano che è lo Stato e i poteri organizzati della società. Lo ribadisce in questa intervista e probabilmente articolerà la sua posizione nel dibattito Regolamentare il mercato che terrà il 1° giugno a Milano a conclusione della rassegna There is [No] Alternative della Fondazione Feltrinelli.
Professore, come giudica il ruolo forte che hanno assunto gli Stati durante la pandemia e che con ogni probabilità avranno nel mondo della postpandemia?
«Stavamo incespicando e finendo in una forte recessione. Gli interventi sono stati necessari, forse effettuati con regole confuse, ma necessari. Le misure prese in Italia, in Francia, in Gran Bretagna e così via sono state interferenze nelle nostre vite, ma i governi hanno dovuto farlo. E noi ora ne siamo felici: basta guardare al Brasile e all’India, dove i governi sono stati assenti. Saranno interventi temporanei, credo, possiamo tornare al 20172018. Non penso che torneremo più indietro perché nelle società c’era già scontento. Soprattutto le sinistre e i socialdemocratici spingevano per cambiamenti sistematici. Oggi siamo di fronte a un risorgente Stato regolatore».
Quasi 6 mila miliardi di dollari di stimolo fiscale da parte dell’amministrazione Biden. È un’enormità che può cambiare gli equilibri nel Paese.
«Mi aspetto che alcuni interventi siano temporanei e altri no. Per esempio, andranno avanti le nuove politiche sulle infrastrutture, l’istruzione per chi è economicamente meno fortunato, la creazione di una migliore rete di protezione sociale, la limitazione dei cambiamenti climatici attraverso la cooperazione tra lo Stato e il settore privato. Certo, non sarà tutto perfetto, Joe Biden è sottoposto a notevoli pressioni politiche. Ci sarà anche una forte opposizione».
E ci saranno tasse per finanziare la spesa del governo. Troppo alte?
«Non credo. Non serve subito il pareggio di bilancio. Biden ha un piano di tassazione, ma fa anche debiti per il futuro. Comunque, non è una pazzia alzare certe tasse. Per esempio quelle sul capitale. E sulle imprese. Negli anni Cinquanta, un terzo delle entrate dello Stato veniva dalla tassazione sulle società; oggi siamo a meno del 10 per cento. L’85 per cento delle entrate federali viene ormai dalle imposte sugli individui e dall’assicurazione sociale. Ciò crea inefficienze. Credo che la proposta più importante avanzata da Biden sia la minimum tax globale, che ha il senso di ampliare la base imponibile. Credo che nel lungo periodo l’indebitamento sarà ripagato».
La minimum tax globale sarebbe un ulteriore colpo ai paradisi fiscali. Ma non ritiene che in certi casi questi paradisi siano utili per mantenere un equilibrio tra le libertà e il Leviatano?
«Sono contrario al fatto che i governi monitorino troppo gli individui e i loro movimenti. Per questo ho una serie di paure rispetto alle valute digitali. Ma i paradisi fiscali creano enormi e ingiusti vantaggi per i più ricchi. In qualche caso, nei regimi repressivi e di fronte al rischio di sequestro dei beni, forse aveva senso difendersi e portare capitali in Svizzera. Ma in generale i paradisi fiscali creano ingiustizia, abusi».
Che cosa teme delle valute digitali?
«Con quelle i governi sapranno in ogni momento non solo quanto spendi, ma anche per cosa spendi. Quali sono i tuoi interessi, che partito appoggi, che cosa leggi. Un’enorme quantità di controllo del flusso di spesa».
Negli scorsi decenni i governi occidentali sono stati troppo deboli?
«Sì, troppo deboli rispetto al mondo del business. È una situazione che si è creata negli anni Settanta e Ottanta, una svolta rispetto al periodo precedente: la rivoluzione di Margaret Thatcher e Ronald Reagan. Fu una reazione al passato, ma fu decisamente estrema. Cambiarono i punti di riferimento e si indebolirono i governi nei confronti del mondo degli affari. Negli anni Cinquanta, negli Stati Uniti il governo e i privati erano partner sullo stesso livello. Con grandi risultati in termini d’innovazione: il Progetto Manhattan, John von Neumann, Vannevar Bush, per dire. C’era collaborazione, durante la Seconda guerra mondiale e negli anni successivi. Nei Settanta-Ottanta tutto è cambiato, il governo si è indebolito sia nella capacità d’innovare sia nella capacità di regolare. E ciò ha creato un circolo vizioso: la gente non è più andata a lavorare per il governo e il governo ha via via perso influenza».
Non c’è il rischio che, nel riequilibrio attuale verso più Stato, si ecceda?
«C’è sicuramente il rischio che il pendolo vada all’estremo contrario. Qui sta la mia insoddisfazione verso l’attivismo della sinistra americana. Concordo con la necessità di una migliore regolamentazione dei mercati e del business. Ma va fatta su basi scientifiche e dopo attente considerazioni. Non via Twitter. Le voci urlate sono un grave rischio».
Dove vede i cambiamenti necessari nel capitalismo?
«Per esempio, nella teoria dello Shareholder Value dei tempi di Thatcher e Reagan, per la quale è sufficiente che un’impresa faccia bene gli interessi degli azionisti, che crei valore per loro, perché tutto funzioni. Come sostenevano Milton Friedman, altri economisti e qualcuno fuori dall’accademia. La sinistra fa bene a criticare questa teoria. Ma non basta accusare: meglio usare le evidenze e puntare a una buona regolamentazione».
Non le pare che ci sia un rischio per la libertà in questo passaggio?
«Il rischio c’è, ma per ragioni che di solito non si citano. Temo molto il Leviatano che deriva dal denaro, dalle corporation che hanno un potere sconcertante. Pensi al loro possesso dei dati, all’intelligenza artificiale, al machine learning che usa algoritmi e l’esperienza della macchina per migliorare le sue capacità».
A cosa pensa per affrontare i rischi posti dal Leviatano del denaro? A una diversa politica antitrust nei confronti dei grandi gruppi?
«Dobbiamo ripensare un quadro di regole che vada più a fondo di quella. La politica antitrust è la via sbagliata. Per come si è sviluppata, vede solo il piccolo rischio che le posizioni dominanti possono portare ai consumatori. Ma è un’impostazione vecchia: oggi non posso sostenere che Google, Facebook, Amazon tengano i prezzi troppo alti: non è così e non è questo il problema. La realtà è che vanno regolamentate perché sono diventate troppo potenti. Conducono a visioni distorte, sono pericolose. La dimensione è il problema».
Ma limitarne le dimensioni non limiterebbe la loro capacità d’innovazione? E quindi i benefici per le persone?
«Forse l’innovazione verrebbe un po’ soffocata. Ma dipende da come interverranno i governi. C’è molta strada da fare. Ora c’è grande regolamentazione per i parrucchieri, per cose e settori per i quali non ce n’è bisogno. Abbiamo governi ossessionati dai parrucchieri, ma non dal futuro della tecnologia».