Corriere della Sera - La Lettura
Il fascino indiscreto dell’ambiguità
Figure percepibili in modi diversi, particelle subatomiche collocate in stati sovrapposti. Il fisico Giuseppe Caglioti, con l’architetto Luigi Cocchiarella e la filosofa Tatiana Tchouvileva, getta un ponte tra diversi campi del sapere
In certi libri si sa fin dall’inizio che cosa vi si troverà, spesso ancora prima di averli aperti. Tra questi esistono anche i libri a tesi, che ci si aspetta che mettano in campo un certo numero di argomentazioni a favore di una tesi specifica o contro di essa. Sono in molti a leggerli, libri del genere, probabilmente perché si sentono sicuri di capirli. Ma questo non è proprio il caso del libro Odi et amo appena uscito da Mimesis, scritto da Giuseppe Caglioti, un fisico che ha insegnato per anni al Politecnico di Milano, presso il quale è ora emerito.
Il libro è sorprendente proprio per la novità della proposta che avanza. Il fisico Caglioti riflette da diversi anni sulla possibilità di gettare un ponte fra conoscenza scientifica e apprezzamento artistico, grazie alla mediazione del concetto di ambiguità, che è allo stesso tempo una patologia del significato e la sua alma mater. Per quanto possa sembrare strano, una cosa senza significato non può infatti mai essere ambigua. L’ambiguità è la compresenza di più di un significato in una singola parola o in una locuzione o anche la possibilità di due o più interpretazioni alternative di una data figura. Sono ben noti gli esempi del disegno di una scala di un palazzo che può alternativamente scendere o salire, della testa di una giovane signora che si può «vedere» anche come il volto di una vecchia, della testa di un papero che può divenire un coniglio, oppure di due volti umani visti di profilo e divisi dal profilo di un candelabro che loro stessi evidenziano. Tutti abbiamo visto una volta o l’altra immagini del genere, evocate, insieme a molte altre, tanto nel capitolo delle illusioni ottiche, quanto in quello della cosiddetta teoria della Gestalt, termine tedesco per «forma», «figura», «rappresentazione» e simili.
Questa teoria propone che al momento di vedere qualcosa io mi avvalga, senza saperlo, di un certo numero di forme predeterminate che sono conservate nella mia mente. Quest’ultima può scegliere di volta in volta una delle varie forme disponibili e mettermela, per così dire, davanti agli occhi. La scelta di una data forma esclude, almeno momentaneamente, tutte le altre. Una figura ambigua contiene alcuni tratti di almeno due diverse forme gestaltiche e quindi permette all’osservatore di adottare l’una o l’altra, ma non entrambe, né un miscuglio delle stesse.
Qualcosa di molto simile accade per l’interpretazione di parole ambigue. La nostra percezione può così oscillare tra le due forme potenziali dotate della stessa vivacità e verosimiglianza, permettendoci una doppia interpretazione, ma dopo che abbiamo fatto la nostra scelta, del tutto inconsapevolmente o con un embrione di consapevolezza, non c’è più alcuna ambiguità. L’ambiguità è stata sciolta, risolta, neutralizzata o eliminata. Si parla anche di disambiguazione, un termine dotto che ho sentito per la prima volta in bocca al mio amico Edoardo Lombardi Vallauri, ma che adesso è molto usato.
Disambiguare significa fare uscire più o meno volontariamente qualcosa dall’ambiguità in cui versa. Se si tratta di una parola, si possono elencare separatamente i vari significati: di un sostantivo come «mercurio», per esempio, si possono segnalare i diversi significati in quanto pianeta del sistema solare, in quanto elemento chimico o in quanto divinità classica. Il prototipo figurativo dell’ambiguità percettiva è rappresentato dal cubo di Necker. Questo è l’immagine piana di un cubo consistente dei suoi soli 12 spigoli e può essere visto in due maniere alternative: con la faccia che guarda verso di noi posta più in alto o più in basso della faccia opposta, quella più lontana da noi. Nessuna delle due interpretazioni è migliore dell’altra e la nostra mente oscilla continuamente dall’una all’altra. Poiché questa figura è molto concreta e parlante, nelle numerose illustrazioni del libro se ne fa un grande uso per chiarire parecchie affermazioni.
Il concetto di ambiguità può essere quindi facilmente illustrato, senza che noi facciamo grossi sforzi. Il motivo per insistere tanto sull’ambiguità è offerto dalla osservazione che l’ambiguità è a volte una forte componente del bello, narrato o rappresentato, magari anche in musica. Ci vorrebbe molto tempo per mostrare che è così e un tempo ancora più lungo per far capire perché è così. In soldoni, una raffigurazione che contiene elementi di ambiguità è più ricca e più suggestiva, perché chiama in causa contemporaneamente piani diversi che in parte si contrappongono e in parte rimandano l’uno all’altro. Un testo o un dipinto che contengano elementi di ambiguità ben amalgamati tra di loro ci «dicono» molte più cose e fanno «risuonare» in noi più corde, una circostanza questa che sembriamo apprezzare particolarmente.
L’ambiguità sembra una promessa di raggiungere cose più alte e profonde, e talvolta veniamo esauditi. Pensiamo ad esempio a quel «Si sta» all’inizio dei brevi versi di «Si sta/ come d’autunno/ sugli alberi/ le foglie», forma e sostanza della lirica Soldati di Giuseppe Ungaretti. Il fascino dell’ambiguità cospira anche a rendere i frammenti di molte liriche greche antiche particolarmente seducenti: le gravi mutilazioni di alcuni di essi rendono difficile la loro interpretazione, lasciandoli così più aperti a una suggestiva significazione ambigua.
Che cosa c’entra tutto questo con lo studio della fisica e, in particolare, della meccanica quantistica, scoperta nel Novecento e presentata oggi come parte integrante della spiegazione fisico-matematica del mondo? A prima vista niente, se non il fatto che questa teoria è l’apoteosi dell’ambiguità e della sua possibile risoluzione. In breve, moltissime entità del micromondo subatomico possono stare in due o più stati diversi contemporaneamente: qui o là, con una certa quantità di energia oppure un’altra. Si parla a tal proposito di stati sovrapposti e quindi della sovrapposizione di stati. Questa è la regola delle cose del mondo dell’infinitamente piccolo. Se cerco però di osservarle più in dettaglio, turbo per così dire l’indolenza di questo stato di cose e «costringo» alcune delle diverse entità a fare una scelta: o così o in quest’altra maniera, senza tentennamenti, mediazioni o pasticci vari. Dopo questo evento il sistema resterà per un po’ in questo stato: si è neutralizzata così molto naturalmente un’ambiguità che, si badi bene, è costitutiva e inevitabile. C’è per principio e non può essere procurata.
Questo è il background sul quale il nostro autore dipana, con la collaborazione di un architetto, Luigi Cocchiarella, e di una filosofa della percezione, Tatiana Tchouvileva, le sue argomentazioni, con grande acume e altrettanta consequenzialità, arricchendo il tutto con splendidi esempi della sua sconfinata cultura letteraria, classica e moderna. A testimonianza del fatto che nel mondo d’oggi il problema non è rappresentato tanto dall’esistenza di due culture, come qualcuno ritiene, quanto piuttosto da quella di due ignoranze.
«Odi et amo. In un quanto d’amore — conclude inaspettatamente l’autore — le ragioni del cuore». Qui, dietro l’ambiguità fa capolino l’ambivalenza. Si vive di continue incertezze riscattate di ora in ora. Con la mente e con il cuore.