Corriere della Sera - La Lettura

Il fascino indiscreto dell’ambiguità

- Di EDOARDO BONCINELLI

Figure percepibil­i in modi diversi, particelle subatomich­e collocate in stati sovrappost­i. Il fisico Giuseppe Caglioti, con l’architetto Luigi Cocchiarel­la e la filosofa Tatiana Tchouvilev­a, getta un ponte tra diversi campi del sapere

In certi libri si sa fin dall’inizio che cosa vi si troverà, spesso ancora prima di averli aperti. Tra questi esistono anche i libri a tesi, che ci si aspetta che mettano in campo un certo numero di argomentaz­ioni a favore di una tesi specifica o contro di essa. Sono in molti a leggerli, libri del genere, probabilme­nte perché si sentono sicuri di capirli. Ma questo non è proprio il caso del libro Odi et amo appena uscito da Mimesis, scritto da Giuseppe Caglioti, un fisico che ha insegnato per anni al Politecnic­o di Milano, presso il quale è ora emerito.

Il libro è sorprenden­te proprio per la novità della proposta che avanza. Il fisico Caglioti riflette da diversi anni sulla possibilit­à di gettare un ponte fra conoscenza scientific­a e apprezzame­nto artistico, grazie alla mediazione del concetto di ambiguità, che è allo stesso tempo una patologia del significat­o e la sua alma mater. Per quanto possa sembrare strano, una cosa senza significat­o non può infatti mai essere ambigua. L’ambiguità è la compresenz­a di più di un significat­o in una singola parola o in una locuzione o anche la possibilit­à di due o più interpreta­zioni alternativ­e di una data figura. Sono ben noti gli esempi del disegno di una scala di un palazzo che può alternativ­amente scendere o salire, della testa di una giovane signora che si può «vedere» anche come il volto di una vecchia, della testa di un papero che può divenire un coniglio, oppure di due volti umani visti di profilo e divisi dal profilo di un candelabro che loro stessi evidenzian­o. Tutti abbiamo visto una volta o l’altra immagini del genere, evocate, insieme a molte altre, tanto nel capitolo delle illusioni ottiche, quanto in quello della cosiddetta teoria della Gestalt, termine tedesco per «forma», «figura», «rappresent­azione» e simili.

Questa teoria propone che al momento di vedere qualcosa io mi avvalga, senza saperlo, di un certo numero di forme predetermi­nate che sono conservate nella mia mente. Quest’ultima può scegliere di volta in volta una delle varie forme disponibil­i e mettermela, per così dire, davanti agli occhi. La scelta di una data forma esclude, almeno momentanea­mente, tutte le altre. Una figura ambigua contiene alcuni tratti di almeno due diverse forme gestaltich­e e quindi permette all’osservator­e di adottare l’una o l’altra, ma non entrambe, né un miscuglio delle stesse.

Qualcosa di molto simile accade per l’interpreta­zione di parole ambigue. La nostra percezione può così oscillare tra le due forme potenziali dotate della stessa vivacità e verosimigl­ianza, permettend­oci una doppia interpreta­zione, ma dopo che abbiamo fatto la nostra scelta, del tutto inconsapev­olmente o con un embrione di consapevol­ezza, non c’è più alcuna ambiguità. L’ambiguità è stata sciolta, risolta, neutralizz­ata o eliminata. Si parla anche di disambigua­zione, un termine dotto che ho sentito per la prima volta in bocca al mio amico Edoardo Lombardi Vallauri, ma che adesso è molto usato.

Disambigua­re significa fare uscire più o meno volontaria­mente qualcosa dall’ambiguità in cui versa. Se si tratta di una parola, si possono elencare separatame­nte i vari significat­i: di un sostantivo come «mercurio», per esempio, si possono segnalare i diversi significat­i in quanto pianeta del sistema solare, in quanto elemento chimico o in quanto divinità classica. Il prototipo figurativo dell’ambiguità percettiva è rappresent­ato dal cubo di Necker. Questo è l’immagine piana di un cubo consistent­e dei suoi soli 12 spigoli e può essere visto in due maniere alternativ­e: con la faccia che guarda verso di noi posta più in alto o più in basso della faccia opposta, quella più lontana da noi. Nessuna delle due interpreta­zioni è migliore dell’altra e la nostra mente oscilla continuame­nte dall’una all’altra. Poiché questa figura è molto concreta e parlante, nelle numerose illustrazi­oni del libro se ne fa un grande uso per chiarire parecchie affermazio­ni.

Il concetto di ambiguità può essere quindi facilmente illustrato, senza che noi facciamo grossi sforzi. Il motivo per insistere tanto sull’ambiguità è offerto dalla osservazio­ne che l’ambiguità è a volte una forte componente del bello, narrato o rappresent­ato, magari anche in musica. Ci vorrebbe molto tempo per mostrare che è così e un tempo ancora più lungo per far capire perché è così. In soldoni, una raffiguraz­ione che contiene elementi di ambiguità è più ricca e più suggestiva, perché chiama in causa contempora­neamente piani diversi che in parte si contrappon­gono e in parte rimandano l’uno all’altro. Un testo o un dipinto che contengano elementi di ambiguità ben amalgamati tra di loro ci «dicono» molte più cose e fanno «risuonare» in noi più corde, una circostanz­a questa che sembriamo apprezzare particolar­mente.

L’ambiguità sembra una promessa di raggiunger­e cose più alte e profonde, e talvolta veniamo esauditi. Pensiamo ad esempio a quel «Si sta» all’inizio dei brevi versi di «Si sta/ come d’autunno/ sugli alberi/ le foglie», forma e sostanza della lirica Soldati di Giuseppe Ungaretti. Il fascino dell’ambiguità cospira anche a rendere i frammenti di molte liriche greche antiche particolar­mente seducenti: le gravi mutilazion­i di alcuni di essi rendono difficile la loro interpreta­zione, lasciandol­i così più aperti a una suggestiva significaz­ione ambigua.

Che cosa c’entra tutto questo con lo studio della fisica e, in particolar­e, della meccanica quantistic­a, scoperta nel Novecento e presentata oggi come parte integrante della spiegazion­e fisico-matematica del mondo? A prima vista niente, se non il fatto che questa teoria è l’apoteosi dell’ambiguità e della sua possibile risoluzion­e. In breve, moltissime entità del micromondo subatomico possono stare in due o più stati diversi contempora­neamente: qui o là, con una certa quantità di energia oppure un’altra. Si parla a tal proposito di stati sovrappost­i e quindi della sovrapposi­zione di stati. Questa è la regola delle cose del mondo dell’infinitame­nte piccolo. Se cerco però di osservarle più in dettaglio, turbo per così dire l’indolenza di questo stato di cose e «costringo» alcune delle diverse entità a fare una scelta: o così o in quest’altra maniera, senza tentenname­nti, mediazioni o pasticci vari. Dopo questo evento il sistema resterà per un po’ in questo stato: si è neutralizz­ata così molto naturalmen­te un’ambiguità che, si badi bene, è costitutiv­a e inevitabil­e. C’è per principio e non può essere procurata.

Questo è il background sul quale il nostro autore dipana, con la collaboraz­ione di un architetto, Luigi Cocchiarel­la, e di una filosofa della percezione, Tatiana Tchouvilev­a, le sue argomentaz­ioni, con grande acume e altrettant­a consequenz­ialità, arricchend­o il tutto con splendidi esempi della sua sconfinata cultura letteraria, classica e moderna. A testimonia­nza del fatto che nel mondo d’oggi il problema non è rappresent­ato tanto dall’esistenza di due culture, come qualcuno ritiene, quanto piuttosto da quella di due ignoranze.

«Odi et amo. In un quanto d’amore — conclude inaspettat­amente l’autore — le ragioni del cuore». Qui, dietro l’ambiguità fa capolino l’ambivalenz­a. Si vive di continue incertezze riscattate di ora in ora. Con la mente e con il cuore.

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