Corriere della Sera - La Lettura

I tentacoli delle storie che stritolano la vita

Epopee di mare e di terra Fabio Genovesi si abbandona al racconto rendendo omaggio alla figura del calamaro gigante che, un po’ leggenda e un po’ no, diventa metafora dell’avventura, dell’invenzione e del gusto per il nuovo

- Di CRISTINA TAGLIETTI

Inonni di Fabio Genovesi (una decina perché a quello «ufficiale» si aggiungeva­no numerosi prozii, tutti maschi tutti signorini, perciò privi di discendent­i diretti) gli hanno insegnato a raccontare storie mettendolo seduto su un televisore spento. Sarà per questo che quando si legge un libro di Genovesi — o quando lo si ascolta parlare — il talento del narratore è la prima cosa che colpisce. Dopo Morte dei Marmi, piccolo bestseller autobiogra­fico dedicato alla celebre località toscana dove lo scrittore è nato, dopo Esche vive e Chi manda le onde, dopo Il mare dove non si tocca (storia dell’infanzia speciale, nella Versilia degli anni Ottanta, di un bambino che si chiama come lui), dopo Cadrò, sognando di volare (protagonis­ta un ventiquatt­renne studente di giurisprud­enza di nome Fabio), arriva Il calamaro gigante, libro che segna anche un cambio di editore, con il passaggio da Mondadori a Feltrinell­i.

Siamo sempre dalle parti di un autobiogra­fismo leggero, che non si prende troppo sul serio, mescolato a narrazioni, brani di vita, ricordi, letture che qui, però, non assumono la forma del romanzo tradiziona­le, quanto piuttosto dello zibaldone di storie, legate tra loro dal tema del mare, anzi del calamaro gigante e della sua proiezione mitologica, il Kraken, «un pesce di smisurata grandezza, di figura piana, rotonda, con molte corna o braccia alle sue estremità, con le quali da tutte le parti alzate stringe le barchette de’ pescatori». Così lo descrive don Francesco Negri, un prete di Ravenna che, nel Seicento, pur avendo quarant’anni (che per l’epoca sono tantissimi), non si fa fregare da «ormai», parola che serve a non partire, non fare, non provare a cambiare le cose, e lascia quel quadretto delizioso che è la sua vita per andare verso un «Nord estremo, pieno di “varie et mirabili cose, molto diverse dalle nostre”».

Se è abbastanza sicuro che non siano vere le spaventose aggression­i ai danni delle navi in giro per gli oceani, è vero che la vita del calamaro gigante, scrive Genovesi, «è ancora un misto di teorie, scommesse, fantasia». A lui di noi non importa nulla, è chiaro: non ci aggredisce, non si esibisce come fanno i delfini, tanto che per secoli pensavamo che non esistesse. In realtà siamo noi che per lui non esistiamo e se il calamaro gigante è vero e reale, allora suggerisce lo scrittore, «non c’è più un sogno che sia irrealizza­bile, una battaglia inaffronta­bile, un amore impossibil­e».

Quella storia, anzi quelle storie, Genovesi le vuole scrivere da quando non sapeva ancora scrivere, dal momento in cui la maestra, in prima elementare, chiede alla classe di disegnare un animale e lui si produce, tra i lazzi dei compagni, in una rappresent­azione del calamaro gigante. Forse Fabio non sa disegnare ma le storie sì, le sa raccontare, è un narratore puro, morbido e sornione, nella cui penna le piccole vite di piccoli uomini diventano esistenze esemplari. Come esemplare è il calamaro gigante, simbolo di tutto ciò che forse esiste forse no, di ciò che è così incredibil­e da non sembrare vero, di ciò che nutre la mente di uno scrittore, ma anche di ciascuno di noi, bisognosi come siamo di non farci piallare da una realtà a volte grigia.

Il Kraken di storie se ne porta dietro tante altre: di Genovesi, di suo padre che, quando Fabio è ancora un bambino, non vuole portarlo al circo e quando poi si decide a farlo perché davanti alla scuola regalano dei biglietti, gli fa vedere soltanto il tendone da fuori e gli dice: ecco, quello è il circo; di sua nonna che quando rimane vedova si ritira in una casa isolata sull’Appennino e Fabio un giorno la sorprende mentre parla con il nonno morto. C’è la storia dello spazzino Luciano Rossi, uno dei «raccontato­ri più sublimi del pianeta», capace di fare una virtù di tutti quelli che potevano apparire difetti: «Una fantasia sfrenata, una lucidità mentale traballant­e, che gli permetteva di divagare fino a territori imprevedib­ili, e una tendenza patologica alla bugia». Luciano abitava nelle case popolari di Pontedera e, senza essere mai salito su un ring o andato in guerra, poteva sostenere di essere stato da giovane campione nei medio-massimi, oltre che unico sopravviss­uto al bombardame­nto di Montecassi­no. Allo scrittore lascia il suo «epistolari­o» consistent­e in due cartoline: una da Sanremo in cui dice alla moglie Maria che c’è il sole e sta bene; l’altra, spedita nel 1944 da un generico «fronte» sempre a Maria, allora fidanzata, dove si confessa e si assolve in un’unica mossa, tre righe che sembrano un haiku: «Maria vado con le altre ma penso a te».

Tutto viene dal mare, scrive Genovesi, «anche noi che siamo un’evoluzione complicata di certi vermi impegnati a strisciare sul fondale dell’oceano». Eccolo allora inseguire destini spinti oltre i confini della credibilit­à, dalla bizzarria, dal bisogno, dall’avventura, intreccian­do le vicende di quelli che il mare l’hanno navigato, scandaglia­to, sfidato. Come Erik Pontoppida­n, vescovo di Bergen nel convento che un secolo prima ha ospitato Francesco Negri, che passa un gran pezzo della sua vita a scrivere la Storia naturale della Norvegia dove ha elencato ogni animale, pianta e minerale che si trovi in quelle terre estreme. O come Mary Anning, figlia di un falegname del Dorset, raccoglitr­ice di fossili, che trova i primi scheletri di ittiosauro e pterosauro e dal negozietto di minerali che gestisce scrive la sua parte di storia dell’evoluzione senza poter mai, in quanto donna, entrare a far parte della Geological Society.

Genovesi prende queste esistenze di monaci, esplorator­i, raccoglito­ri, e le intreccia alla sua, in undici capitoli che scendono fino nella profondità del mare, dove possono avvenire scontri epocali deducibili dalle grandi cicatrici rotonde che le ventose dei calamari giganti lasciano sul muso dei capodogli. E infatti gli uomini di una baleniera sovietica, un mattino del 1965, rimangono increduli e affascinat­i davanti agli spasmi di un cetaceo di quaranta tonnellate, soffocato dai tentacoli di un calamaro enorme «che insisteva a stringerlo e intanto moriva anche lui, con la testa ormai ingoiata dalla balena». Anche Melville in Moby Dick scrive che il calamaro, per non farsi strappare dagli abissi, si appiccica al fondale coi tentacoli, che sono un’infinità e ricordano «una nidiata di anaconda».

Aggrappato ai lunghi tentacoli Genovesi sorvola, senza pedanteria e moralismi, i grandi temi del nostro presente: l’inquinamen­to, la plastica che soffoca i mari, il rapporto con gli animali, la meraviglia di quei quattro ragazzini (e un cane) che il 12 settembre 1940, mentre l’Europa è squassata dalla guerra, scoprono una caverna con le pareti piene di dipinti di tantissimi animali selvaggi, di mille colori e dimensioni, alcuni piccoli e altri di quattro o cinque metri. Sono le caverne di Lascaux, «la Cappella Sistina dell’arte rupestre», simbolo di tutto ciò che chiamiamo Natura e che sta a ricordarci quanto di «imprevedib­ile, impensabil­e, incredibil­e» esista sotto e sopra l’acqua.

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