Corriere della Sera - La Lettura
Città chiusa per tre ragazzi in attesa di tutto
Finale visionario per l’affresco urbano e intimo insieme di Tommaso Giagni
Idestini di tre amici dopo i vent’anni hanno il passo costretto degli spazi che abitano. Vivono tutti nel Quartiere, immaginaria periferia di Roma attraversata dall’Aniene: un territorio segnato dagli otto piani del Rettangolo, dalla striscia di negozi mezzi abbandonati della Spina e dalla sottostante Grotta. Quest’ultimo è un luogo i cui locali «sulle carte degli architetti erano cantine e garage; sono diventati le case degli esseri più vulnerabili della catena alimentare urbana — chi nella metropoli ha perso i gradi e deve accettare un acquartieramento misero». Vive qui Abdou, stretto con la madre e la nonna, clandestino di colore, della Costa d’Avorio, arrivato per mare rischiando di morire, mentre Manuel, figlio di egiziani nato in Italia, abita con la famiglia nel retro del negozio di frutta e verdura del padre, e Flaviano, infine, sta nel palazzo col padre ex carcerato.
I primi quattro capitoli de I tuoni, terzo romanzo di Tommaso Giagni, presentano il teatro dell’azione e i suoi giovani protagonisti in una disposizione che implicitamente rispecchia la loro posizione rispetto alla società. Un primo segnale, uno dei tanti precisi e calzanti, di come Giangi organizza la materia del suo racconto che è tanto una storia di formazione, quanto di disillusione e di indagine sociale mai banale.
Nell’area comanda il Reuccio — «un boss di cabotaggio talmente piccolo che fuori dal Quartiere nessuno se n’è mai preoccupato» — e le tensioni sono pane quotidiano: Abdou, l’unico laureato, per lo spaccio di medicine oppiacee; Manuel per le lotte con il padre che lo vorrebbe al lavoro con sé; Flaviano, che vive suonando il piano ai matrimoni, per il rimpianto della ex Cinzia. Tutti e tre hanno sogni, traumi, paure e primi struggimenti che vivono in una bolla d’esclusione, nel margine, sul terrazzo del Rettangolo da dove «devono immaginare il cuore della metropoli ma possono vederne i battiti». È Roma, infatti, l’altra protagonista del libro e le sue dinamiche diventano centrali con l’avanzare dei venti capitoli che scandiscono le tre parti. Si tocca la gentrificazione dei quartieri, l’eccesso paranoico di decoro, e la si attraversa di notte in motorino in un giro liberatorio, quando gli amici accompagnano Manuel a vedere per la prima volta la fontana di Trevi perché prima, come ammette imbarazzato, «non c’è stata occasione». La posizione del narratore onnisciente è rotta talvolta da motti tra parentesi che commentano aggiungendo un piano di rappresentazione, ma accompagna bene i suoi personaggi tanto nei dialoghi, con una lingua aderente alla realtà nei contrasti tra italiano e romanesco, che nell’approfondimento psicologico.
Ciascuno riesce a mettere mano a quanto lo blocca e c’è chi incontra, come Manuel, una ragazza che gli apre lo sguardo: Donatella, diciassettenne bella e brillante, figura chiave per il romanzo, finita con i suoi — che odia — in un complesso residenziale incompiuto confinante con il Quartiere. Si tratta di Verde Respiro, distesa di villette anonime per medio borghesi, i cui abitanti vedono il Quartiere come il male. Arriva da lì l’onda del finale visionario, immagine inquietante e aggiornata della lotta di classe, che risuona per atmosfera con Il condominio (1975) di J. G. Ballard.
Il gioco dei rapporti simbolici è ben architettato sia tra le vicende che tra i caratteri dei tre ragazzi e anche se il lettore li sente come indivisibili, solo uno di loro ha l’occasione per cambiare. Se la dialettica periferia-centro animava l’esordio L’estraneo (Einaudi Stile libero, 2012) e i rapporti padre-figlio il seguente Prima di perderti (Einaudi Stile libero, 2016), qui Giagni abbraccia entrambe le tematiche e fa un passo ulteriore e riuscito che da un lato muove in una linea ideale che passa da Pier Paolo Pasolini e da certo Walter Siti, dall’altro ha un’intonazione bella e originale. Merito di una padronanza notevole della scrittura, della sua esattezza anche lessicale puntellata da metafore mai superflue: uno stile mai esibito, a ragione, perché apre a un realismo lucido, che scardina ogni sentore di cronaca a spallate di emotività e poesia.