Corriere della Sera - La Lettura
Giudici, il romanzo di una vita in versi
Anniversari Dieci anni fa la scomparsa di una delle voci più significative del dopoguerra. L’influsso di Gozzano e di Saba, la scansione dell’esistenza attraverso le sue raccolte, la maestria metrica. E, lunedì 24 maggio, un seminario online
Se la qualità di un poeta e della sua poesia si lega a un’immagine complessiva che il lettore può portare con sé, non c’è dubbio che l’opera in versi di Giovanni Giudici, di cui il 24 maggio cade il decimo anniversario della scomparsa, sia tra le più definite che il secondo Novecento italiano ci abbia lasciato. Si pensa a Giudici e non si può che identificarlo con un personaggio concreto, in carne e ossa, che vive esperienze particolari, che attraversa luoghi riconoscibili, che ha una storia precisa e determinata dentro a un orizzonte storico altrettanto preciso e determinato. Per la nostra poesia non è questo un risultato comune. I versi della vita, come dal titolo consuntivo del volume che raccoglie tutte le sue poesie (è uscito nel 2000 a cura di Rodolfo Zucco per I Meridiani di Mondadori), si possono davvero leggere come un romanzo.
Preso atto di questo, tuttavia, va subito aggiunto che tra la persona dell’autore e il personaggio intercorre un rapporto tutt’altro che lineare o diretto. Questo doppio o alter ego o sosia, come l’ha definito a suo tempo Giovanni Raboni, è infatti il portato di una strategia poetica scaltra e sagace, in cui s’intrecciano motivazioni molto diverse e anzi contraddittorie: confessione, autodifesa, reticenza, desiderio di fare chiarezza, falsa coscienza.
Come prendere in parola l’uomo comune, l’autentico io-tutti che questi versi mettono in scena? Piuttosto, si tratterà di una fusione non semplificabile di sincerità e ipocrisia, di verità che sono bugie e di bugie che sono verità. Se si pensa che la poesia di Giudici raggiunge la propria maturità, e forse anche la sua definizione più memorabile, nel cuore degli anni Sessanta (con La vita in versi, uscito nel 1965), non esiste forse correlativo o metafora più precisa del miracolo economico e dell’esistenza cosiddetta piccolo borghese con le sue velleità, patemi e «impiegatizie frustrazioni», che la doppiezza stessa di questo discorso poetico. «Metti in versi la vita, trascrivi/ fedelmente, senza tacere/ particolare alcuno, l’evidenza dei vivi.// Ma non dimenticare che vedere non è/ sapere, né potere, bensì ridicolo/ un altro voler essere che te». Nel romanzo in versi la lancetta del senso oscilla, si rovescia e si smarca continuamente, come se non intendesse comunque farsi prendere con le mani nel sacco.
Si pensi solo ai due poeti che più hanno influito sulla definizione della sua poesia: Guido Gozzano e Umberto Saba (quest’ultimo il suo più amato in assoluto). Fermo restando che sono entrambi poeti metrici in tempi di verso libero (e tale è appunto Giudici), dal punto di vista della pronuncia e della disposizione dell’io poetico non si possono forse immaginare due voci più distanti. Con tutta la prudenza del caso, il primo un poeta della simulazione, dell’ironia, del distacco, della finzione, dell’aridità sentimentale; e invece il secondo un poeta dell’autenticità lirica, dell’empatia e della partecipazione, della passione amorosa. E di fatto Giudici li ha messi non d’accordo, ma in qualche misura insieme, mettendo a frutto la loro stessa contraddizione. Così nel suo canzoniere l’affondo lirico potrà sempre essere interpretato come una recita o un depistaggio, e d’altro canto l’assunzione esplicita di una posa, di una maschera, di un ruolo sociale, come la sola verità consentita.
Dentro a questo sistema di slittamenti e di sostanziale equivocità, è comunque la vita di un uomo che, come detto, poesia dopo poesia, raccolta dopo raccolta, prende progressivamente forma. E in ogni caso tra La vita in versi e i successivi Autobiologia (1969) e O beatrice (1972), appaiono già compiutamente individuati i tre poli decisivi nella storia del personaggio che parla in prima persona: Milano, ovvero la città di residenza, del boom economico, del lavoro, dell’impegno, degli orizzonti progressivi, degli intellettuali, della letteratura e dell’industria nei loro rapporti reciproci; la Roma del collegio e dell’educazione cattolica (vi era arrivato orfano di madre nel 1933 e vi rimarrà fino al 1956); quindi la Liguria natale, i cui ricordi diradati risultano tanto più struggenti (Giudici nasce a Le Grazie, una frazione del comune di Porto Venere, nel 1924).
Semplificando un po’, si può dire che quest’opera poetica sia determinata dall’intreccio alterno, o meglio dallo scontro tra questi luoghi che sono anche epoche, situazioni psicologiche e possibilità esistenziali. Come costellazioni che, a metà tra retaggio e orizzonte, galleggino allo stato fluido nell’immaginario del poeta. Basti dire che il ricordo della Roma della giovinezza torna prepotentemente ancora in Eresia della sera, l’ultimo libro uscito nel 1999.
Si è accennato a Giudici poeta metrico, e questo mette subito in forse la presunta immediatezza della sua pronuncia. Si sa, del resto, che per certi poeti le costrizioni e i vincoli formali non sono che la condizione propizia per muoversi con maggiore disinvoltura e libertà. Giudici è senz’altro tra questi. Predilige le strofe regolari, ha il senso dell’autonomia del singolo verso (tant’è che da una certa altezza la ribadirà facendolo sempre iniziare con la maiuscola), si appoggia spesso e volentieri alla rima, eppure — e qui davvero va trovato il suo punto di forza — tutto l’armamentario formale che il grande codice della poesia mette a disposizione si conforma sempre alla necessità prima del discorso poetico. Detto altrimenti, nella sua poesia gli strumenti espressivi che parrebbero prefigurati in realtà non sono che una funzione della volontà di dire, argomentare, spiegare. Non è un caso che tenda a far procedere con lo stesso passo verso e discorso (non ama particolarmente l’enjambement, infatti), anziché il contrario, come invece la tradizione poetica italiana per sua intima natura sembra prediligere.
Con i libri più tardi, e in particolare con la sua trilogia finale — Quanto spera di campare Giovanni (1993), Empie stelle (1996) e il già ricordato Eresia della sera — Giudici sposterà progressivamente il suo orizzonte d’interesse e la sua pronuncia. La sua interrogazione più che storico-esistenziale diventa metafisica, si presentano con insistenza sempre maggiore i motivi dei vivi e dei morti, dell’oltre, di un impossibile o viceversa possibile paradiso (tra la speranza cristiana e l’utopia socialista), l’intonazione da comico-realistica e caricaturale si fa drammatica, anche tragica, il dettato poetico risulta più scorciato, secco, perentorio. Eppure con sempre maggiore chiarezza in queste raccolte più tarde si rivela quel carattere liturgico e rituale che la sua poesia possedeva fin dall’inizio, e che magari la scorza realistica e narrativa del racconto in versi impediva di cogliere appieno. Un titolo come Autobiologia, in ogni caso, poteva già mettere sulle tracce di cosa fosse davvero in gioco.
Giudici venerava Franz Kafka, e questo dice davvero tanto del carattere emblematico, perfino allegorico del protagonista così comune e ordinario delle sue poesie. Non una semplice autobiografia, dunque, ma la vita di tutti, il destino della specie o, come il poeta stesso ha scritto, «la sorte di ogni altro».