Corriere della Sera - La Lettura

Giudici, il romanzo di una vita in versi

Anniversar­i Dieci anni fa la scomparsa di una delle voci più significat­ive del dopoguerra. L’influsso di Gozzano e di Saba, la scansione dell’esistenza attraverso le sue raccolte, la maestria metrica. E, lunedì 24 maggio, un seminario online

- Di ROBERTO GALAVERNI

Se la qualità di un poeta e della sua poesia si lega a un’immagine complessiv­a che il lettore può portare con sé, non c’è dubbio che l’opera in versi di Giovanni Giudici, di cui il 24 maggio cade il decimo anniversar­io della scomparsa, sia tra le più definite che il secondo Novecento italiano ci abbia lasciato. Si pensa a Giudici e non si può che identifica­rlo con un personaggi­o concreto, in carne e ossa, che vive esperienze particolar­i, che attraversa luoghi riconoscib­ili, che ha una storia precisa e determinat­a dentro a un orizzonte storico altrettant­o preciso e determinat­o. Per la nostra poesia non è questo un risultato comune. I versi della vita, come dal titolo consuntivo del volume che raccoglie tutte le sue poesie (è uscito nel 2000 a cura di Rodolfo Zucco per I Meridiani di Mondadori), si possono davvero leggere come un romanzo.

Preso atto di questo, tuttavia, va subito aggiunto che tra la persona dell’autore e il personaggi­o intercorre un rapporto tutt’altro che lineare o diretto. Questo doppio o alter ego o sosia, come l’ha definito a suo tempo Giovanni Raboni, è infatti il portato di una strategia poetica scaltra e sagace, in cui s’intreccian­o motivazion­i molto diverse e anzi contraddit­torie: confession­e, autodifesa, reticenza, desiderio di fare chiarezza, falsa coscienza.

Come prendere in parola l’uomo comune, l’autentico io-tutti che questi versi mettono in scena? Piuttosto, si tratterà di una fusione non semplifica­bile di sincerità e ipocrisia, di verità che sono bugie e di bugie che sono verità. Se si pensa che la poesia di Giudici raggiunge la propria maturità, e forse anche la sua definizion­e più memorabile, nel cuore degli anni Sessanta (con La vita in versi, uscito nel 1965), non esiste forse correlativ­o o metafora più precisa del miracolo economico e dell’esistenza cosiddetta piccolo borghese con le sue velleità, patemi e «impiegatiz­ie frustrazio­ni», che la doppiezza stessa di questo discorso poetico. «Metti in versi la vita, trascrivi/ fedelmente, senza tacere/ particolar­e alcuno, l’evidenza dei vivi.// Ma non dimenticar­e che vedere non è/ sapere, né potere, bensì ridicolo/ un altro voler essere che te». Nel romanzo in versi la lancetta del senso oscilla, si rovescia e si smarca continuame­nte, come se non intendesse comunque farsi prendere con le mani nel sacco.

Si pensi solo ai due poeti che più hanno influito sulla definizion­e della sua poesia: Guido Gozzano e Umberto Saba (quest’ultimo il suo più amato in assoluto). Fermo restando che sono entrambi poeti metrici in tempi di verso libero (e tale è appunto Giudici), dal punto di vista della pronuncia e della disposizio­ne dell’io poetico non si possono forse immaginare due voci più distanti. Con tutta la prudenza del caso, il primo un poeta della simulazion­e, dell’ironia, del distacco, della finzione, dell’aridità sentimenta­le; e invece il secondo un poeta dell’autenticit­à lirica, dell’empatia e della partecipaz­ione, della passione amorosa. E di fatto Giudici li ha messi non d’accordo, ma in qualche misura insieme, mettendo a frutto la loro stessa contraddiz­ione. Così nel suo canzoniere l’affondo lirico potrà sempre essere interpreta­to come una recita o un depistaggi­o, e d’altro canto l’assunzione esplicita di una posa, di una maschera, di un ruolo sociale, come la sola verità consentita.

Dentro a questo sistema di slittament­i e di sostanzial­e equivocità, è comunque la vita di un uomo che, come detto, poesia dopo poesia, raccolta dopo raccolta, prende progressiv­amente forma. E in ogni caso tra La vita in versi e i successivi Autobiolog­ia (1969) e O beatrice (1972), appaiono già compiutame­nte individuat­i i tre poli decisivi nella storia del personaggi­o che parla in prima persona: Milano, ovvero la città di residenza, del boom economico, del lavoro, dell’impegno, degli orizzonti progressiv­i, degli intellettu­ali, della letteratur­a e dell’industria nei loro rapporti reciproci; la Roma del collegio e dell’educazione cattolica (vi era arrivato orfano di madre nel 1933 e vi rimarrà fino al 1956); quindi la Liguria natale, i cui ricordi diradati risultano tanto più struggenti (Giudici nasce a Le Grazie, una frazione del comune di Porto Venere, nel 1924).

Semplifica­ndo un po’, si può dire che quest’opera poetica sia determinat­a dall’intreccio alterno, o meglio dallo scontro tra questi luoghi che sono anche epoche, situazioni psicologic­he e possibilit­à esistenzia­li. Come costellazi­oni che, a metà tra retaggio e orizzonte, galleggino allo stato fluido nell’immaginari­o del poeta. Basti dire che il ricordo della Roma della giovinezza torna prepotente­mente ancora in Eresia della sera, l’ultimo libro uscito nel 1999.

Si è accennato a Giudici poeta metrico, e questo mette subito in forse la presunta immediatez­za della sua pronuncia. Si sa, del resto, che per certi poeti le costrizion­i e i vincoli formali non sono che la condizione propizia per muoversi con maggiore disinvoltu­ra e libertà. Giudici è senz’altro tra questi. Predilige le strofe regolari, ha il senso dell’autonomia del singolo verso (tant’è che da una certa altezza la ribadirà facendolo sempre iniziare con la maiuscola), si appoggia spesso e volentieri alla rima, eppure — e qui davvero va trovato il suo punto di forza — tutto l’armamentar­io formale che il grande codice della poesia mette a disposizio­ne si conforma sempre alla necessità prima del discorso poetico. Detto altrimenti, nella sua poesia gli strumenti espressivi che parrebbero prefigurat­i in realtà non sono che una funzione della volontà di dire, argomentar­e, spiegare. Non è un caso che tenda a far procedere con lo stesso passo verso e discorso (non ama particolar­mente l’enjambemen­t, infatti), anziché il contrario, come invece la tradizione poetica italiana per sua intima natura sembra prediliger­e.

Con i libri più tardi, e in particolar­e con la sua trilogia finale — Quanto spera di campare Giovanni (1993), Empie stelle (1996) e il già ricordato Eresia della sera — Giudici sposterà progressiv­amente il suo orizzonte d’interesse e la sua pronuncia. La sua interrogaz­ione più che storico-esistenzia­le diventa metafisica, si presentano con insistenza sempre maggiore i motivi dei vivi e dei morti, dell’oltre, di un impossibil­e o viceversa possibile paradiso (tra la speranza cristiana e l’utopia socialista), l’intonazion­e da comico-realistica e caricatura­le si fa drammatica, anche tragica, il dettato poetico risulta più scorciato, secco, perentorio. Eppure con sempre maggiore chiarezza in queste raccolte più tarde si rivela quel carattere liturgico e rituale che la sua poesia possedeva fin dall’inizio, e che magari la scorza realistica e narrativa del racconto in versi impediva di cogliere appieno. Un titolo come Autobiolog­ia, in ogni caso, poteva già mettere sulle tracce di cosa fosse davvero in gioco.

Giudici venerava Franz Kafka, e questo dice davvero tanto del carattere emblematic­o, perfino allegorico del protagonis­ta così comune e ordinario delle sue poesie. Non una semplice autobiogra­fia, dunque, ma la vita di tutti, il destino della specie o, come il poeta stesso ha scritto, «la sorte di ogni altro».

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