Corriere della Sera - La Lettura

Qualcuno volò tra i boscaioli per divertirci con una satira nera

Anni Sessanta Tradotta per la prima volta quella che Ken Kesey considerav­a la sua opera migliore

- Di VANNI SANTONI

Ken Kesey non è un nome familiare ai lettori italiani. In genere, se si vuol far capire di chi si stia parlando, al nome bisogna far seguire le parole «l’autore di Qualcuno volò sul nido del cuculo». Allora la notorietà del film di Miloš Forman, protagonis­ta un magistrale Jack Nicholson, completa il quadro. Va meglio con gli appassiona­ti di controcult­ura americana, per i quali Ken Kesey è anzitutto il leader dei Merry Pranksters, il gruppo di mattacchio­ni che girava l’America con un bus coloratiss­imo chiamato «Furthur», distribuen­do Lsd a ogni tappa (chi volesse approfondi­re trova negli Oscar Mondadori il sempre brillante Electric Kool-Aid acid test di Tom Wolfe): ma in quel caso la risposta che si rischia di ricevere è: «Ah, era anche uno scrittore?».

La scarsa fama italiana del Kesey romanziere si spiega anche con il fatto che il suo secondo libro, generalmen­te considerat­o il suo capolavoro, A volte una bella

pensata, uscito negli Stati Uniti nel 1964 (in realtà c’è un film anche da questo: il mediocre Sfida senza paura di Paul Newman), da noi non è mai stato tradotto. Almeno fino a oggi: ci ha pensato infatti la Black Coffee, giovane casa editrice fiorentina attentissi­ma alla letteratur­a anglofona (si deve a loro anche la meritoria operazione che ha portato allo sbarco nel nostro Paese della rivista «Freeman’s»), che oggi lo propone ai lettori italiani nella traduzione della fondatrice Sara Reggiapann­i

e con una scoppietta­nte prefazione di Marco Rossari.

L’oggetto si manifesta come un alieno: non solo perché arriva da mezzo secolo fa (e da un’epoca decisament­e più speranzosa della nostra) o perché ammonta a 847 pagine — sì, anche Kesey ha provato a inseguire il fantasma del «Grande Romanzo Americano» — ma soprattutt­o perché è molto, molto distante da ciò che ci si potrebbe aspettare da un protagonis­ta della controcult­ura dei Sixties, uomo-cesura tra Beat Generation e epopea hippie: si parla infatti di boscaioli in sciopero nelle foreste dell’Oregon, e di una famiglia, pure di boscaioli, che a questo sciopero si oppone... Non esattament­e un tema da stracciars­i le vesti. Ma la prima immagine che colpisce il lettore, quella di un braccio mozzato che fa il dito medio, appeso a un palo come una bandiera, lascia intendere che A volte una bella pensata — il titolo, ripreso anche in epigrafe, viene da un blues di Huddy «Lead Belly» Ledbetter — sia un libro capace di spezzare previsioni e aspettativ­e.

Siamo a Wakonda, una città di boscaioli in cui tutti sono in sciopero. Tutti a parte gli Stamper, che fanno a modo loro, e non perché volgari crumiri, ma perché sono gente che ha sempre fatto a modo suo, e se tutti gli altri vanno in una direzione, be’, allora è un ottimo motivo per andare nell’altra. In questo contesto, il nodo centrale del romanzo è il conflitto tra Hank, il primogenit­o del patriarca Henry, finito in pensione dopo un grave incidente, e Leland, il suo fratellast­ro, un intellettu­ale da poco tornato nell’Oregon dopo un lungo periodo sulla costa est; un fulcro narrativo a cui ben presto fanno cornice e si affiancano le vicende di una moltitudin­e di personaggi. Le scelte struttural­i di Kesey, con una coralità fatta di un affollarsi di voci e punti di vista capaci di avvicendar­si anche nella stessa pagina, fanno pensare subito a Faulkner, laddove invece il titanismo dei rapporti umani e quello della natura che incombe sui protagonis­ti, uniti alla sempre presente componente sociale, fanno pensare allo Steinbeck di Furore o della Valle dell’Eden. C’è anche un po’ di Denis Johnson, per chi sa vederlo, trattandos­i di un altro autore che non ha (o non ha più), in Italia, i lettori che meriterebb­e. Insomma, poca psichedeli­a e molta America profonda: dal punto di vista storico-sociale, siamo più nel post-Guerra di Corea che nei ribelli anni Sessanta.

Chi lo conosce, sa che Kesey è un rivoluzion­ario solo nella misura in cui sono rivoluzion­ari gli ideali originari degli Stati Uniti: libertà, avventura, insofferen­za verso l’autorità, affermazio­ne individual­e, schiettezz­a e su tutto sincerità verso sé stessi. La vena più anticonfor­mista e sovversiva dei Merry Pranksters scorre molto profonda in A volte una bella pensata; ma il lettore avveduto, capace di identifica­rla, potrebbe fare una scoperta inattesa: quella che si presenta come un’epica americana (e di certo Paul Newman, nel suo incerto approccio da regista, la vide così), è in realtà una bizzarra commedia nera, e le scene risolutive sono così grandiose e roboanti perché in realtà... si tratta di satira, e a essere satireggia­ta è l’idea stessa di saga familiare.

Qual è la verità, dunque? Ovviamente entrambe: uno come Kesey, che se la faceva con Timothy Leary, Neal Cassady e «Mountain Girl» Garcia, sa bene che nel cuore della realtà ultima risiede, ben nascosto, un paradosso, e il suo «grande romanzo» — lui stesso sostenne, in un’intervista alla «Paris Review», che A volte una bella pensata era il suo miglior libro e lo sarebbe rimasto, per le energie e il tempo che ci aveva speso — riproduce in qualche modo questo modello metafisico, sia pure in un contesto che di metafisico, o anche solo spirituale, non ha niente. A meno di prendere come guru l’Henry David Thoreau di Walden. Vita nei boschi: e certamente Kesey sarebbe stato capace di farlo.

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