Corriere della Sera - La Lettura
Nell’isola fantastica il vero tesoro sei tu
Geografie immaginarie La giapponese Kaho Nashiki ambienta in una terra dalla natura rigogliosa l’esplorazione di uno studioso che, col tempo, troverà sé stesso. Ed esalta la ricchezza spirituale dello sciamanesimo e del sincretismo religioso
Il vasto campionario di terre immaginarie plasmate dalla letteratura si arricchisce, con Le bugie del mare di Kaho Nashiki, di una nuova isola. Osojima, con la forma di un cavalluccio marino, si troverebbe a poca distanza dal Kyushu (questa, invece, è vera: la più meridionale delle isole maggiori del Giappone) e, soprattutto, costituisce il cuore di un romanzo che gioca con l’esattezza di termini botanici e zoologici per garantire il massimo di plausibilità.
Dettagli reali, trama realistica. A metà degli anni Trenta un geografo, Akino, raggiunge Osojima per completare le ricerche che il suo maestro aveva lasciato incompiute. Ha tre lutti che lo scavano dentro — fidanzata e genitori morti a poca distanza — e un’indole solitaria. L’isola, solitaria come lui, lo accoglie con l’imperioso rigoglio della sua natura. Akino annota tutto, tutto osserva, sviluppa teorie, comincia a percorrerla, consapevole che «un’isola è come un bonsai (...) straborda di un’energia vitale che non cessa mai di esplodere». Fa incontri preziosi, come una coppia di contadini, o il proprietario dell’unica casa a due piani, tornato a Osojima dopo una vita sulle navi da crociera e figlio di un monaco che aveva abbozzato una carta del territorio, o — ancora — il giovane Kajii che gli sarà guida in una settimana di esplorazioni.
Progressivamente, il protagonista coglie i segni di un passato impregnato di religiosità e di eventi traumatici radicati nel cozzare di diverse pratiche religiose. Degli antichi templi buddhisti che avevano fatto di Osojima un centro devozionale fiorente non restano che scarsissime tracce ma l’intera geografia si manifesta come una sorta di grande teatro spirituale. Tutto rimanda a un sincretismo più tenace della superbia umana, a un’energia che trascende la violenza con la quale gli shintoisti, alfieri delle tradizioni autoctone del Giappone, avevano devastato i santuari del buddhismo, religione straniera. Riemerge l’eco degli sciamani: i loro riti si sono perduti eppure il protagonista ne capta il sapere, che non s’è veramente dissolto. Le montagne disegnano un’ancestrale topografia dell’anima nel quale anche il forestiero può riconoscersi.
È così che il protagonista, man mano che procede nella mappatura dell’isola, avanza anche con quella di sé stesso, tra spaventi e illuminazioni. Ripercorrere le faide tra i diversi credi religiosi gli genera un «tragico senso di perdita che sembrava trascinarmi verso un abisso senza fondo» ma, accanto, cresce la consapevolezza di un viaggio necessario: «Ogni cosa aveva un suo perché, ma dentro di me niente era collegato». L’isola vivente, l’isola-organismo gli manda segnali — siano folate di vento o volatili rari, l’apparizione di un capricorno — evoca la sorte della sua fidanzata scomparsa. Lo studioso sente aprirsi «la strada verso abissi sconosciuti» ma salvifici.
Stacco. Mezzo secolo dopo — metà degli anni Ottanta, alla guerra è seguito il formidabile boom del Giappone — Akino, ormai anziano, è sposato e ha due figli adulti. Nella sua carriera accademica non ha mai scritto nulla sulla sua lontana avventura e sa che di coloro che aveva incontrato non vive più nessuno, neppure Kajii, caduto in combattimento su un’altra isola, nel Pacifico. Il protagonista si imbatte per caso in una notizia su Osojima, ora collegata alla terraferma da un avveniristico ponte (fine dell’insularità...), e scopre che proprio uno dei figli ne sta organizzando l’imponente sviluppo turistico. Lo raggiunge e vede con sgomento l’ovvio: l’isola aggredita dallo sviluppo, la sua natura scempiata. Eppure Osojima, dove dalle vallate di montagna si poteva scorgere il mare «come acqua in una coppa da sake», resiste. L’isola non ha perso la sua forza, irradia quel vigore spirituale che l’ottusità degli uomini non ha mai spento. L’aura di Osojima spinge padre e figlio ad avvicinarsi.
Nel romanzo Nashiki sviluppa temi già presenti nella novella uscita nel 1994 che l’aveva imposta in patria e all’estero, Un’estate con la Strega dell’Ovest: il rapporto tra generazioni (in quel caso nonna e nipotina), la sussistenza del magico della vita ordinaria e nella natura, la via alla conoscenza di sé. In Le bugie del mare, pubblicato nel 2014 e ora in arrivo per Feltrinelli nella traduzione di Gianluca Coci, l’autrice compie un passo ulteriore e ambizioso, dando un’efficace veste narrativa alla sua visione (o, se non suona eccessivo, alla sua filosofia). Lasciando che Osojima, isola del tesoro interiore, offra consolazione e ripristini l’armonia capovolgendo in positivo la negatività dell’aggressione alla bellezza, Nashiki ne fa un Eden perduto e ritrovato, ritrovato e perduto. E l’apparire ad Akino e al figlio di una delle «bugie del mare» del titolo — cioè un miraggio che segna la contiguità e continuità tra realtà e universi oltremondani — può alleviare il male di vivere e placare i turbamenti d’un tempo: «Ora che ero diventato vecchio quei sentimenti si erano placati e si ritrovavano come piegati con ordine dentro di me».