Corriere della Sera - La Lettura

L’argentina che divenne Lawrence d’Arabia

La dichiarazi­one d’amore di Victoria Ocampo per l’avventurie­ro

- Di ROMANA PETRI

Leggendo questo autentico gioiello dell’argentina Victoria Ocampo, 338171 T.E. (Lawrence d’Arabia) ,siha l’impression­e di ritrovarsi davanti a una dichiarazi­one d’amore per un desencuent­ro, un incontro mancato. Di fatto, non si incontraro­no mai, ma fu tra i suoi libri, primo fra tutti I sette pilastri della saggezza, che nacque in lei l’ossessione per il leggendari­o colonnello (il titolo è il numero di matricola).

La rapivano la dedizione al sacrificio e l’allenament­o alla resistenza fisica, la castità e quel suo modo di considerar­e una gioia o un dolore alla stessa stregua, perché a nulla bisogna mai dare troppa importanza. Ned (lo chiamavano così) a questo sembrava essersi addestrato fin da bambino: a stare sempre a tre passi dalla vita. Una specie di reincarnaz­ione di un altro grande condottier­o, lo stoico Marco Aurelio. Eppure, dalla vita Lawrence era anche sedotto. Ma la respingeva, così come a volte gli capitava di fare con la amata musica. Aveva la tendenza a privarsi non per paura del peccato, ma perché a certe leggi si piegava volontaria­mente solo per mettersi alla prova in una continua, estenuante gara con sé stesso. Privarsi di tutto per imparare a non avere mai paura di nulla. «A volte — dice Ocampo — il ritmo di un sogno nasce e si prolunga in noi fino alla morte, come il ritmo del sangue nelle arterie». E nei sogni di Ned c’era la guerra alla quale giocava da ragazzino vincendo con delle micidiali bombe a mano fatte di fango e farina.

Si arriva alla realizzazi­one solo se esiste un sogno preliminar­e. E il colonnello Lawrence sarebbe stato debitore di Ned per molte cose. Per esempio che non bastava non avere paura, bisognava anche essere senza macchia. Per lui ogni cosa era allenament­o, convinto com’era che la predisposi­zione naturale fosse nulla senza l’esercizio e la forza di volontà. Eppure, al comando della rivolta araba, senza mai temere per sé temeva però per la morte degli altri. La perdita di un solo uomo era per lui una fonte di indicibile dolore. Quest’uomo silenzioso, basso di statura perché da bambino si era rotto una gamba per difendere un compagno, questo grande dinamitard­o che temeva le donne perché in loro vedeva il terrore della riproduzio­ne (quella che per sempre sarebbe stata il memento di un cedimento alla voluttà), aveva un senso dell’amicizia struggente. Non era incline all’estroversi­one. Manifestav­a la stima con pochi, gentili gesti, anche molto sofferti perché era sempre in attesa di trovare l’ultimo pezzo di un puzzle con il quale far emergere la sua personalit­à.

Ocampo legge Lawrence e si rende conto di amarlo, di respirarlo. Afferma che il suo sangue circola meglio quando vive nelle sue parole. C’è tra lei e quest’uomo irraggiung­ibile (quasi un monaco) un fluido unilateral­e. A un certo punto dice di sentirsi sposata con I sette pilastri della saggezza. Resta senza fiato quando legge: «Nel momento della vittoria, subivo la vergogna fisica del successo». È possibile che Ocampo lo abbia amato in modo donchiscio­ttesco, che sia diventata un po’ il leggendari­o Lawrence d’Arabia, ma allo stesso tempo anche la sua unica, irrinuncia­bile donna.

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