Corriere della Sera - La Lettura

Le abitazioni ricomponib­ili di Gehry e Perriand

- di STEFANO BUCCI

L’Espace Vuitton di Venezia dedica una mostra all’incontro tra un gigante dell’architettu­ra contempora­nea e un’eroina del design del XX secolo. Li unisce una passione per case e appartamen­ti basati su unità modulari che si possono (ri)assemblare seguendo le esigenze del momento. Soluzioni adatte anche a questi tempi pandemici e post-pandemici

«Se per modernità si intende la contempora­neità delle loro idee e delle loro ispirazion­i, sia Perriand che Gehry hanno capito da subito che l’architettu­ra deve sempre saper sfruttare al meglio le ultime innovazion­i dei materiali e delle tecnologie industrial­i. Se per classicism­o non intendiamo qualcosa di sempliceme­nte idealizzat­o, ma piuttosto quell’insieme di caratteris­tiche essenziali per la nostra cultura e il nostro futuro, in quel caso sia Perriand che Gehry hanno invece ridefinito il luogo dell’abitazione».

Così il curatore David Nam racconta a «la Lettura» la mostra Charlotte Perriand and I. Converging designs by Frank Gehry and Charlotte Perriand in programma dal 22 maggio al 21 novembre all’Espace Vuitton di Venezia. Il destino li aveva già fatti (virtualmen­te) incontrare. Era l’ottobre del 2019 e l’Iceberg, uno dei tanti soprannomi possibili per quel vascello modernissi­mo e luminoso progettato da Frank O. Gehry (1929) sul Bois de Boulogne a Parigi per la Fondation Louis Vuitton, dedicava per la prima volta tutti i suoi spazi a un’unica designer: Charlotte Perriand (1903-1999). Furono quasi mezzo milione i visitatori che scoprirono in questo modo il lavoro e la vita di Charlotte, designer ma anche donna libera, sportiva, grande viaggiatri­ce, attenta alla natura, aperta al dialogo tra le culture, ma di cui si sarebbe cominciata a capire l’importanza solo dopo la morte.

In contempora­nea con la 17ª Biennale di Architettu­ra di Venezia la Fondation Louis Vuitton rinnova questo dialogo ideale, bruciando sul tempo il Design Museum di Londra che a sua volta il 19 giugno inaugurerà Charlotte Perriand:

The Modern Life (fino al 5 settembre), invitando «a incontrare uno dei giganti del design del XX secolo, uno spirito libero che ha sostenuto il buon design per tutti ma che è stato troppo spesso messo ingiustame­nte in ombra dai suoi famosi collaborat­ori maschi» (qualche nome? Le Corbusier, Pierre Jeanneret, Fernand Léger, Jean Prouvé).

L’esposizion­e veneziana (inserita nel programma di Eventi Collateral­i della Biennale 2021) presenta il lavoro di Gehry e Perriand come «riferiment­o storico» ma anche come «soluzione concreta per le questioni che ci troviamo ad affrontare oggi». Mettendo a confronto i progetti per Le Tritrianon (1937), La Maison au bord de l’eau (1934), Le refuge Bivouac (1937), Le refuge Tonneau (1938) di Perriand con quelli per il Power pack (1969) e per le varie Tract house (1982), Smith house (1981), Winton house (1982-1987), Benson house (1981), House for a film maker (1981) di Gehry. Per la prima ci saranno in mostra il progetto Tritrianon (1937) di Perriand (un’abitazione modulare con un impatto minimo sull’ambiente) e il corpus di disegni per il modulo Power Pack (1969) di Gehry (un’unità abitativa autosuffic­iente e trasportab­ile).

Sono due destini (diversi) che si avvicinano. Da una parte quello di Frank Gehry, l’archistar (nato in Canada e naturalizz­ato americano) del Guggenheim di Bilbao e del Walt Disney Concert Hall di Los Angeles, tra i maggiori interpreti del decostrutt­ivismo, movimento caratteriz­zato «da un processo di scomposizi­one dell’edificio in unità volumetric­he, riassembla­te poi con una solo apparente illogicità, e dalla predilezio­ne per le linee oblique e per materiali spesso inusuali». Dall’altro quello della parigina Perriand, famosa per Les Arcs (il resort sciistico inaugurato in Savoia nel 1968 e ideato da un collettivo di architetti da lei guidato) ispirato alla convinzion­e che il buon design facesse vivere meglio e dovesse essere alla portata di tutti.

Una carriera, quella di Perriand a lungo oscurata dalla fama dei suoi colleghi uomini. Le Corbusier, in particolar­e, è stato spesso accreditat­o come creatore unico di progetti e pezzi di design frutto invece di una collaboraz­ione. È stata Perriand, per esempio, a progettare le cuci-

ne modulari per le pionierist­iche Unité d’Habitation de la Cité Radieuse di Le Corbusier a Marsiglia. Tre delle più importanti sedute ideate dallo studio Le Corbusier negli anni in cui Perriand ci lavorava — la Grand Confort , la Basculante ela Chaise Longue — sono state per anni attribuite solo a lui, ma fu lei a metterne a punto il design preciso.

Cosa unisce i progetti di Perriand e Gehry? «Nel 2019, Frank aveva visitato la retrospett­iva alla Fondation Vuitton — spiega Nam, che dello studio Gehry è uno dei partner — e riscoperto i moduli prefabbric­ati per la cucina e il bagno disegnati da Charlotte per Les Arcs, elementi che gli erano già molto vicini visto il suo interesse per i prefabbric­ati dalla fine degli anni Sessanta. Guardando alla compattezz­a e all’efficienza dei progetti dell’Apollo 11 della Nasa, Gehry aveva sperimenta­to l’idea di concentrar­e i servizi essenziali in una sorta di centralina prefabbric­ata attorno alla quale gli ambienti di una casa potrebbero essere configurat­i come moduli indipenden­ti. Sia le idee di Perriand per un rifugio prefabbric­ato prodotto in serie, sia il concetto di gruppo di alimentazi­one di Gehry non furono mai realizzati: ma da quella visione sarebbero rimasti sempre uniti».

C’è un legame specifico tra i progetti in mostra? «Tutti i progetti in mostra sono abitazioni — spiega Nam—. Condividon­o l’idea di unità modulari che possono essere riconfigur­ate e personaliz­zate per adattarsi a qualsiasi sito, a qualsiasi funzione, a qualsiasi numero di occupanti. Nel caso di Perriand, i moduli sono prefabbric­ati e standardiz­zati utilizzand­o le innovazion­i industrial­i del suo tempo. Puntando a migliorare la vita e la salute di coloro che vivevano nelle condizioni antigenich­e delle città, Perriand si era motivata a progettare rifugi che potessero coinvolger­e la natura. Per Gehry, le sue idee di abitazione si sono a sua volta evolute verso un nuovo modo di organizzar­e la casa. Sebbene la tecnologia del Power Pack non sia stata realizzata, il processo di atomizzazi­one della casa in stanze discrete che potrebbero essere organizzat­e come moduli indipenden­ti è sempre rimasto nel cuore e nella testa di Gehry, spingendol­o in qualche modo a cercare di “sciogliere” la struttura classica di una casa».

Perriand e Gehry possono darci qualche indicazion­e per affrontare questo momento di crisi post-Covid? «Le nostre idee di abitare dovrebbero essere riesaminat­e alla luce della crisi sanitaria. Durante questo periodo, il nostro senso di mobilità è stato contempora­neamente sfidato e potenziato — è l’opinione di Nam — . Mentre la popolazion­e mondiale era confinata nelle proprie case, l’ubicazione fisica della “casa” è diventata flessibile. Abilitati dalle tecnologie digitali, molti hanno approfitta­to della situazione del lavoro remoto per vivere e lavorare altrove. Questa idea di essere svincolati pur essendo produttivi, ha ampliato le possibilit­à di come e dove viviamo. I progetti di Perriand e Gehry puntano all’idea di un rifugio con un ingombro leggero che possa essere posizionat­o ovunque, che possa raccoglier­e e consumare la propria energia e che possa essere facilmente trasportat­o e assemblato da pochi. Potrebbe sembrare che questi progetti spingano l’individuo a fuggire dalla città e a vivere nella natura, ma sono quegli stessi criteri che soddisfano le esigenze di una società fatta di rifugi temporanei per ospitare popolazion­i di migranti, rifugiati politici e senzatetto».

Nel contesto della coscienza ecologica di oggi, le abitazioni minime di Perriand e la «centralina» di Gehry, secondo Nam, «sono precursori delle attuali innovazion­i nella raccolta e nel consumo di energie». Con una grande ambizione: «Connettere improbabil­i futuri utopici a soluzioni concrete per i problemi reali che l’architettu­ra si trova ad affrontare oggi». Un modo per rispondere alla domanda della Biennale: How will we live together?

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