Corriere della Sera - La Lettura
La gatta (nera) sul tetto che scotta
Il dramma di Tennessee Williams era già andato in scena a Broadway con un cast tutto di afroamericani. Ora tocca al film, anche questo «all black». Una soluzione alla scarsa presenza di interpreti di colore? Parrebbe, ma non è così. Perché si tradisce lo spirito del testo, impregnato proprio del razzismo degli anni della segrega-zione. «Meglio cercare nuove sto-rie», dice a «la Let-tura» lo sceneg-giatore di Spike Lee, James McBride
Era la pièce a cui Tennessee Williams era più affezionato. La gatta sul tetto che scotta (1955), storia di avidità, ipocrisia, mortalità e desideri repressi nel Mississippi degli anni Cinquanta. Fu portata in scena da Barbara Bel Geddes, Burl Ives e Ben Gazzara, per la regia di Elia Kazan, e vinse un Pulitzer; e poi al cinema tre anni dopo, con Elizabeth Taylor e Paul Newman. Ora, La gatta torna sul grande schermo, con un cast interamente nero diretto dal regista di Training Day Antoine Fuqua. Che ha unito le forze con Stephen Byrd e Alia Jones-Harvey, già produttori del revival all black della pièce diretto da Debbie Allen che nel 2008 aveva sbancato Broadway (nonché di Un tram che si chiama Desiderio con Blair Underwood nel ruolo di Kowalski).
Il film di Fuqua, fanno sapere, mescolerà la pièce di Williams con elementi nuovi. Una scelta, quella di un cast interamente nero per La gatta, che torna a far discutere, anche per via del contesto e del sostrato razziale del testo originale. Coprotagonista della pièce di Williams, infatti, è il milionario bianco Big Daddy, arrogante proprietario di un’enorme piantagione di cotone («28 mila acri della terra più fertile al di qua della Valle del Nilo») attorno alla quale ruotano le tensioni familiari. Non solo: il 1955 è l’anno del linciaggio di Emmett Till, il quattordicenne afroamericano ucciso in Mississippi per avere apparentemente offeso una donna bianca. Le leggi Jim Crow sulla segregazione razziale governeranno il Sud ancora a lungo. Un falso storico, insomma. Soprattutto, secondo James McBride, vincitore del National Book Award per The Good Lord Bird e sceneggiatore di Spike Lee, un’occasione persa: «Ci sono così tanti autori neri di talento — dice a “la Lettura” — con testi originali. Perché bere allo stesso pozzo dove si sono abbeverati tutti? In ogni pagina di ogni libro di storia afroamericana c’è un romanzo. Certo, trovare i fondi per nuove voci e nuove storie è difficile. Ed è questo il problema. Non abbiamo bisogno di colorare vecchie storie ma di una ridistribuzione degli spazi che amplifichi le voci delle minoranze».
Si chiama, con un’espressione ormai datata, colorblind casting: la pratica di scritturare un attore senza considerarne l’etnia e il colore della pelle. Pratica a parole egalitaria ma storicamente utilizzata per escludere i non bianchi, dal whitewashing di Mickey Rooney nei panni dell’asiatico Yunioshi in Colazione da Tiffany (1961) al blackface di Laurence Olivier truccato da Otello (1965). A parti invertite, l’ideologia colorblind, affermatasi con il Movimento per i diritti civili — ecco l’obiezione — è retorica controproducente: sostenendo di non vedere il colore della pelle (come si dice di Joanna in Indovina chi viene a cena?, 1967) si rischia di ignorare la discriminazione. Come nel musical Hamilton (2015), dove la scelta, celebrata come sovversiva, di far interpretare i Padri Fondatori ad attori non bianchi, cancellava di fatto la realtà stori
ca della schiavitù. La protesta afroamericana più famosa contro il colorblind casting resta quella del drammaturgo August Wilson (1945-2005), due volte premiato con il Pulitzer, autore di Barriere e di Ma Rainey’s Black Bottom. Nel 1996, in un discorso a Princeton, Wilson definì un insulto i revival con cast neri di pièce come Morte di un commesso viaggiatore, che indagano la condizione umana attraverso le specificità della cultura bianca.
Fiori d’acciaio, Quello che le donne vogliono: negli ultimi anni, remake e reboot con cast interamente o quasi neri di film e serie del passato si moltiplicano. Nel 2018, uno studio di «Vulture» ne contava in lavorazione almeno una quarantina. Il reboot più atteso è quello di Blue Jeans, amatissima serie tv di formazione, ambientata alla fine degli anni Sessanta e andata in onda alla fine degli Ottanta, su una famiglia suburbana americana. Nella nuova produzione è una famiglia nera della classe media dell’Alabama. «È realistico», spiega a «la Lettura» Dale Maharidge, che da quarant’anni studia le classi sociali. «Già allora, nel Sud, c’era un mondo di piccoli imprenditori e proprietari terrieri neri. E, durante la segregazione, afroamericani della classe media gestivano hotel e negozi dedicati».
Ma se temi come la rappresentazione e l’identificazione sono fondamentali (ancora nel 2016, nel cinema statunitense, era non bianco solo il 14% degli attori protagonisti, ed è evidente l’importanza di film come la Cenerentola con Brandy o I Fantastici Quattro con Michael B. Jordan), perfino l’ex cestista Kareem AbdulJabbar, in un editoriale sull’«Hollywood Reporter», si chiedeva che cosa ci fosse davvero di nero nei remake e reboot con cast neri, notando come in tanti casi si trattasse solo di «ricolorazioni»: la stessa storia per un pubblico diverso. Siamo ancora così indietro da dover rimarcare che un attore nero può recitare in qualsiasi ruolo? Non farebbero meglio, allora, registi e produttori neri, a concentrarsi su produzioni che raccontino l’esperienza nera invece di falsarla, come fanno Get Out di Jordan Peele (2017) o When They See Us di Ava DuVernay (2019)?
Certo, ci sono storie e personaggi universali. Ma la morte imminente di Big Daddy ne La gatta è solo una parte della storia. Se la famiglia di Un grappolo di sole di Lorraine Hansberry, prima drammaturga nera a Broadway, venisse interpretata da bianchi, la pièce perderebbe senso. Proprio quello che, per Douglas Turner Ward, il fondatore della Negro Ensemble Company, era accaduto con il cast nero della pièce di Debbie Allen. «Rinnega il contesto sociale, spogliandola di significato. La gatta non è ambientata in un universo astratto, ma nel Mississippi di allora. Big Daddy vive sulle spalle dei neri». Tanto più che la pièce è costellata da sfumature che oggi diremmo problematiche: dalla provenienza quasi certamente schiavista della piantagione ai domestici che nelle note di scena non vengono distinti («I negri lasciano la stanza»; «Negri in giacca bianca entrano con un’enorme torta»).
Questo non vuol dire che il colorblind
casting sia sempre fuori luogo in certe produzioni: lo stesso Turner Ward notava che ne La dolce ala della giovinezza
(1959) di Williams un attore nero sarebbe stato perfetto per il protagonista Chance Wayne. Come ha un suo perché Lola di
Torna, piccola Sheba di William Inge (1950) interpretata da S. Epatha Merkerson, il tenente Van Buren della serie Law & Order.