Corriere della Sera - La Lettura
Gay e nero Narro Wallace cioè me stesso
Esordi Brandon Taylor scrive un romanzo che è anche il suo diario. Poi si libera dello «zio Tom»
Harper Lee ha spiegato che cos’è la letteratura attraverso Atticus Finch, l’eroe saggio di Il buio oltre la siepe (1960): «Non potrai mai conoscere un uomo veramente finché non ti metti nei suoi panni e non ci vai a spasso». Se leggere è provare un’esperienza intima, allora grazie al romanzo d’esordio di Brandon Taylor (1989) — scrittore afroamericano originario dell’Alabama come Harper Lee — ci troviamo nel Midwest insieme a Wallace, uno studente di biochimica nero e gay che si muove nell’asfissiante universo accademico bianco. Una vita vera, finalista al Booker Prize 2020 e appena uscito da Codice edizioni, segue un weekend nella vita di Wallace. In questo breve lasso di tempo ci troviamo nei panni di un ragazzo tormentato dalla perdita del padre e da un ambiente di lavoro tossico, segnato dal pregiudizio; lo vediamo affrontare un potenziale fallimento professionale e una relazione incerta con un amico eterosessuale. C’è di più: Wallace nasconde un abuso, una ferita del passato difficile da guarire.
Wallace non parla in prima persona ma attraverso Brandon Taylor, una sorta di alter ego: entrambi, scrittore e creazione letteraria, vengono dall’Alabama rurale e sono gay; entrambi hanno una formazione scientifica; entrambi lasciano il Sud per il Midwest; entrambi hanno avuto relazioni complicate con uomini eterosessuali. «Ho cominciato a scrivere il libro nell’aprile 2017 — spiega lo scrittore da Iowa City, dove vive — ma in realtà è come se mi fossi preparato tutta la vita». Come ha preso forma il romanzo?
«L’unica cosa che conoscevo davvero è che cosa significhi essere uno studente, vivere in un ambiente accademico, lavorare per diventare scienziato. Ogni volta che provavo a scrivere un romanzo fallivo, mi sono sempre sentito più a mio agio con le storie brevi. Non sapevo sviluppare eventi attraverso gli anni. La mia forza è riuscire a condensare la pienezza di un momento sulla pagina: per questo ho puntato sul tempo limitato del weekend. Nella vita di uno studente è un momento prezioso, è il momento che gli appartiene». Dove finisce la sua storia? E dove comincia quella del protagonista, Wallace?
«Le prime pagine del romanzo sono tratte dai miei diari. A questo punto della storia le nostre vite si assomigliano: Wallace è un gay nero che vive tra i bianchi, come me. Poi arriva la fiction, l’esercizio romanzesco. Wallace e io cominciamo a distinguerci, il suo passato e i suoi amici sono diversi. Mi sono chiesto che cosa sarebbe successo se una persona simile a me si fosse trovata ad affrontare problemi simili ai miei, con quali risorse avrebbe provato a diventare uno scienziato. Sono cresciuto copiando comportamenti altrui perché la mia emozione predominante era il disorientamento. Mi chiedevo come facessero le persone a sapere che cosa fare e dove andare. Scrivendo il libro volevo che il lettore provasse questi dilemmi». La perdita del padre disorienta Wallace. La morte è un modo un po’ egoista di ripensare la nostra vita?
«Perdere qualcuno è anche un’opportunità per reinterrogare sé stessi, per arrivare a una nuova comprensione dei propri sentimenti. Per Wallace, la perdita del padre rappresenta un’opportunità per riflettere sul modo in cui è rimasto a galla nella vita. La morte rappresenta uno shock allo status quo». Che Midwest voleva raccontare?
«Involontariamente ho concentrato molti dettagli di Madison, Wisconsin, dove ho vissuto cinque anni. Amici di Madison hanno detto di avere riconosciuto tutti i riferimenti alla città nascosti nel libro. La mia esperienza del Midwest è molto locale, ho vissuto in oasi liberali in una parte d’America conservatrice. Spero che il lettore veda il Midwest come un luogo degno di interesse, come uno spaccato della cultura americana. Ci sono milioni di persone che non vivono a New York, a L. A. o a Chicago ma in posti più piccoli: anche loro hanno sogni e ambizioni, dolori personali. Quando mi sono trasferito, tutti i bianchi mi chiedevano se mi sentissi sollevato ad avere lasciato un luogo razzista come il Sud. La verità è che il razzismo è ovunque in America». L’ambiente universitario, dove si svolge parte dell’azione, è meno progressista di quanto si pensi...
«Anche un contesto “alto” come quello accademico può essere pieno di insidie se sei nero o se sei gay, o se appartieni a una classe sociale più bassa».
Qual è la sua opinione sul dibattito relativo alla Cancel Culture? La letteratura ha bisogno di essere «aggiornata» secondo standard contemporanei?
«La destra americana ha provato a cancellare informazioni dai testi scolastici dagli albori dell’istruzione pubblica: penso alla schiavitù, un tema di cui non si parla veramente a scuola, a meno che uno non scelga uno specifico corso di storia. Gli eventi storici sono sempre valutati in base a un’agenda politica. Il dibattito sulla Cancel Culture è un segno di democrazia ma non credo che rimuovere la parola nigger (negro, ndr )da Mark Twain o Harper Lee aiuti qualcuno. Ciò che serve è migliorare il sistema educativo, studiare gli eventi con serietà, contestualizzarli».
L’abolizionista bianca Harriet Beecher Stowe moriva 125 anni fa. Ha lasciato un’opera cruciale, «La capanna dello zio Tom». Quali sono i limiti della comprensione dell’esperienza afroamericana così come è narrata in opere di questo genere?
«Oggi tanti autori neri scrivono per raccontare la propria esperienza in prima persona, senza l’assillo di dovere rispondere a un’audience bianca, come nel caso de La capanna dello zio Tom. Margaret Atwood scrive che dentro ogni donna c’è un uomo che osserva quella donna. Per me, dentro ogni scrittore nero c’è uno scrittore bianco che osserva e controlla lo scrittore nero. Dobbiamo uccidere quello scrittore bianco. Zio Tom è figlio del suo tempo, dobbiamo liberarci di quella visione. Toni Morrison ci ha dato una voce, un linguaggio tutto nostro, un linguaggio liberatorio». La letteratura usa la scienza per provare a spiegare in modo più accurato l’esperienza umana?
«Entrambe provano a capire il mondo a un livello più profondo. Mi considero un naturalista, un genere che sta tornando di moda».