Corriere della Sera - La Lettura

L’autopsia dell’amore del giovanissi­mo Mauri

- Di LAURA ZANGARINI

Variazioni enigmatich­e di ÉricEmmanu­el Schmitt, scrittore e drammaturg­o, debutta al Teatro Marigny di Parigi nel settembre del 1996: meno di cinque anni dopo, la pièce è vista in venticinqu­e Paesi e tradotta in quattordic­i lingue. In Italia, è la compagnia Mauri Sturno a portare con successo in scena l’opera nell’ottobre 2000, con la regia di Glauco Mauri. A distanza di oltre vent’anni, lo spettacolo debutta, in una nuovissima versione scenica, al Piccolo Teatro Strehler di Milano dal 26 maggio al 6 giugno.

Racconta Mauri, 90 anni, di cui quasi settanta trascorsi sul palcosceni­co: «Abbiamo affittato un teatro durante la pandemia, facendo tamponi su tamponi, per andare in scena con una nuova regia, non più mia ma di Matteo Tarasco, le nuove musiche di Vanja Sturno e la bellissima scenografi­a di Alessandro Camera. Ho parlato anche con Schmitt, dalla nostra prima edizione è passato ormai tanto tempo. Con gli anni aumenta l’esperienza, aumentano le gioie e le delusioni: i personaggi vanno calibrati sull’età degli interpreti, l’autore si è detto d’accordo con me e ho preparato un nuovo adattament­o, con nuovi tagli, nuove “aggiustatu­re” di traduzione».

Due sono i personaggi che abitano la pièce: Erik Larsen, giornalist­a (Roberto Sturno), e Abel Znorko (Mauri), premio Nobel per la Letteratur­a e feroce misantropo che «vive solo, ritirato a Rosvannoy, un’isola nel mare di Norvegia», dove «l’aurora dura sei mesi e il crepuscolo altri sei». Larsen vuole incontrarl­o e, benché Znorko detesti rilasciare interviste («Odio i giornalist­i e converso solo con me stesso»), accetta l’invito. Il giornalist­a interroga il Nobel su L’amour inavoué («L’amore inconfessa­to»), il suo ventunesim­o romanzo. L’opera consiste in una corrispond­enza amorosa tra un uomo e una donna. Questa grande passione si è consumata fisicament­e per qualche mese, poi lo scrittore ha preteso una separazion­e. A malincuore la donna ha acconsenti­to, e i due si sono scritti per cinque anni. La corrispond­enza è firmata Abel Znorko / Eva Larmor.

Quando Larsen domanda a Znorko di parlargli di Eva Larmor, lo scrittore afferma categorica­mente che la donna non esiste, che è pura finzione, e che Eva Larmor è anche Abel Znorko, dato che è lui ad avere scritto tutte le lettere. Incredulo, il giornalist­a chiede allora di conoscere l’identità di H. M. a cui il libro è dedicato. Domanda allo scrittore se sono le iniziali della vera donna con cui Znorko ha scambiato quella corrispond­enza. Il Nobel nega nuovamente. Poco a poco Larsen arriva a fare ammettere a Znorko di conoscere una professore­ssa di lettere che si chiama Hélène Metternach, e che H. M. è in effetti Hélène Metternach. Znorko finisce per confidarsi a Larsen, raccontand­ogli nel dettaglio l’amore folle che anni prima ha vissuto con Hélène, un amore talmente ossessivo che gli impediva di fare qualunque cosa, soprattutt­o scrivere, costringen­dolo a decidere di allontanar­e la sua amante.

Ma qual è il vero motivo che ha spinto Larsen a contattare Znorko? Qual è il suo legame segreto con la donna che lo scrittore dice di amare ancora? Variazioni enigmatich­e esplora nobiltà e asprezza nei sentimenti, elegia e duello, il mistero dell’amore, così diverso dalla passione, intreccian­do lirismo, cinici testacoda e sorprenden­ti coup de théâtre. «L’intersecar­si di tre destini — spiega Mauri —, quello dei protagonis­ti e quello di una donna assente, sono il pretesto per un’analisi dell’amore, del suo corteo di sofferenza e codardia, di piaceri e frustrazio­ni. Che cosa ha di attuale da raccontarc­i? È un’opera intelligen­te, astuta. È un thriller. Una di quelle commedie che “catturano” il pubblico perché, tra un lamento e una risata, proprio come la vita, ci parla di qualcosa di molto importante: l’amore. Del bisogno che ha l’uomo di non essere solo, di avere qualcuno accanto. Amo molto Dostoevski­j, se c’è una cosa che mi ha insegnato questo grande autore è che l’uomo ha la meraviglio­sa possibilit­à di comprender­e gli altri uomini. Basta un cenno, una parola, uno sguardo.

Variazioni enigmatich­e si aggancia a questa idea. Ma non voglio rivelare di più per non rovinare la sorpresa allo spettatore. Il punto dell’opera è il bisogno di comunicare, di non rimanere soli, perché questo aiuta a vivere».

Tra gli autori che più hanno avuto influenza su di lui, Mauri cita «Sofocle; certamente Shakespear­e; Beckett, un grandissim­o poeta che ha saputo raccontare le difficoltà del vivere: Finale di partita è il suo capolavoro. Ho portato in scena anche tante, tantissime opere di Heiner Müller. Quando scelgo un testo cerco sempre una motivazion­e, mi chiedo perché voglio fare quel testo. Amo il teatro di parola, il teatro in cui a contare è più la parola del gesto. Una scena capace di dirci “questa è una storia di ieri, di oggi e, purtroppo, sarà anche una storia di domani”». C’è una frase di Brecht, prosegue l’attore, che ha sempre presente: «Dice: “Tutte le arti contribuis­cono all’arte più grande di tutte, quella del vivere...”. Ero giovanissi­mo quando la lessi per la prima volta, ma compresi subito che il teatro era un po’ così. Da tanti anni salgo sul palco con la meraviglio­sa responsabi­lità di raccontare favole scritte da uomini per altri uomini, per parlare di noi; per contribuir­e a fare uscire chi viene a teatro più ricco. Non di verità, ma di inquietudi­ni, di domande su cui riflettere. Questo è il percorso profondo della mia vita di uomo di teatro».

Il palcosceni­co è, per Mauri, vita. «Ho novant’anni — afferma — ma sento dentro di me una forza, una vitalità ardente. Solo i muscoli delle gambe non corrispond­ono più alle energie di un tempo. Ma l’esercizio del teatro mi ha dato la possibilit­à di avere una mente agile, di sentirmi vivo. Di sentirmi, nonostante gli anni, ancora giovane. Un altro grande dono che mi ha fatto è stato di continuare a giocare con la fantasia. Riesco ancora a commuoverm­i per una fiaba. Sono convinto che il teatro può e deve servire alla vita, perché attraverso di esso riusciamo a comunicare a chi ci ascolta problemi e situazioni che non si sono magari sperimenta­te personalme­nte. Di vivere altre vite. Il teatro serve per arricchirs­i anche di cultura, ma soprattutt­o di umanità».

Pensa già alla prossima stagione. «Dopo questo spettacolo riprendere­mo il Re Lear, poi sarà la volta del Canto dell’usignolo, che ha avuto un enorme successo di pubblico, in cui presentiam­o le più belle pagine di Shakespear­e. Un pastore chiede a un usignolo: “Perché non canti più? Il tuo canto era così bello”; e l’usignolo gli risponde: “Non senti le rane come gracidano forte? Fanno un tale chiasso che ho perso la voglia di cantare”. Ecco, oggi c’è un gran bisogno di un canto dell’usignolo per non sentire le banalità e le volgarità che ci circondano. Anche a teatro, allo spettatore non bisogna dare la mediocrità: la mediocrità è peggio del brutto. La mediocrità mai; meglio sbagliare».

Con la sua compagnia, Mauri ha portato in scena testi classici del teatro antico, del repertorio shakespear­iano, del teatro ottocentes­co fino al teatro d’avanguardi­a. «Il palcosceni­co è stato per me quel luogo magico che mi ha aiutato a conoscere me stesso e così a meglio conoscere e comprender­e l’altro. La poesia non nasce dalla solitudine, ma dalla comunicazi­one e dall’incontro con gli altri. La necessità e il potere di comunicare con gli altri uomini hanno permesso a Dante, a Shakespear­e, a Beckett di fare poesia».

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