Corriere della Sera - La Lettura
MILLE GRAZIE ALLO YOGA
Alla nascita ero cianotica. Uscita a fatica e dopo un travaglio troppo lungo rispetto al momento in cui si erano rotte le acque, avevo patito quella che in termini clinici viene chiamata anossia, vale a dire un’insufficienza di ossigeno. Un fenomeno pericoloso che, se si protrae anche solo qualche minuto in più, può causare danni irreversibili alle cellule nervose. Non venni fuori cerebrolesa, ma viola e rigida, tanto che l’ostetrica mi battè con colpi esperti e ripetuti su tutto il corpo e in particolare sulla schiena perché il sangue riprendesse una circolazione regolare. Questa è la prima immagine che ho di me stessa: contratta e senza respiro. Non proprio un bello spettacolo.
Non si tratta di un mio ricordo, com’è ovvio, ma della memoria di mia madre ripetuta a parole fino a diventare aneddotica, forse anche per superare, da parte sua, un momento traumatico e deludente: impiegai un po’ a diventare una rosea bebè da esibire con orgoglio. Se di tutto questo non posso avere un ricordo mio, se non sepolto in strutture della mente troppo labili affinché fosse cristallizzato, la fame d’aria mi è rimasta, o meglio me la sono portata dietro per tantissimi anni. Spesso mi mancava l’aria, respiravo male, mi sentivo rimbombare dentro per la tachicardia. Visite e controlli specialistici risultavano sempre negativi, non c’era nessun difetto nella fisiologia dei polmoni o del cuore. Mi agitavo troppo o ero ansiosa — azzardava qualche medico — senza dirto mi, però, come riuscire a spingere fuori l’aria dal diaframma e riprenderla dentro senza sentirmi strozzata.
Questi sintomi passavano quando facevo danza o nuoto, il respiro diventava allora armonioso, fluiva dentro il corpo con ritmo e regolarità, ma ritornavano appena si presentava una situazione di stress: un compito in classe, un esame universitario, un conflitto di relazione o sul lavoro e partiva il singhiozzo, una lieve dispnea, il fiato corto.
In qualche modo l’aria che ingerivo mi sembrava troppo poca e quella che riuscivo a espellere insufficiente, c’era sempre un residuo, un palloncino, tra la cassa toracica e la gola, che non andava né su né giù.
Ho fatto pace con questo problema quando ho iniziato a praticare yoga, dodici anni fa. Fu un’amica che soffriva di sclerosi multipla, che quindi come me aveva problemi motori, a suggerirmi di frequentare il suo corso, dove si praticava lo yoga kundalini, un tipo di yoga incentrato sul riequilibrio energetico del corpo, sulla respirazione e la meditazione. Per noi occidentali abituati a una rigida distinzione fra corpo e mente, ma al tempo stesso nutriti, fin dall’antichità, di immagini di corpi ideali e performanti, lavorare sull’insieme di corpomente è un approccio non immediato.
Devo ammettere che all’inizio non ci capivo niente. Entravo in questa stanza coperta di tappeti sul pavimene dove era d’obbligo — un obbligo non così tassativo — vestirsi di bianco e stare rigorosamente a piedi nudi. Dalla mia sedia a rotelle venivo traslata su uno di questi tappeti e cuscini, poi sotto la guida di una maestra dallo sguardo magnetico iniziavo a eseguire posizioni di mani, braccia, gambe, testa e collo che lei ci indicava. Non erano esercizi di ginnastica, ma direi piuttosto posture, venivano scanditi da forme di respirazione diversa, da mantra, versi in sanscrito recitati a voce alta e occhi chiusi, e talvolta accompagnati da musiche. La classe era composta da una decina di persone che a volte potevano essere anche venti o trenta, di tutte le età, e con i corpi più vari. C’era chi praticava kundalini da molti anni e sembrava avviato su un percorso ben definito di competenza e conoscenza — lo capivo da come adattavano a sé le sequenze di gesti, e da come mi davano suggerimenti quando con lo sguardo cercavo aiuto — e c’era chi, come me, non aveva ancora messo a fuoco il senso di quell’ora e un quarto di: occhi chiusi, estrema concentrazione mentale e fisica, respiro continuamente variato. Mi sentivo come la neofita di un percorso iniziatico che però non portava all’abbracciare una religione o una setta, ma di certo implicava l’adesione a principi e valori condivisi, a partire da un ascolto profondo di sé e dell’energia che ogni corpo racchiude e trasmette. D’altronde l’insegnante aveva scelto di proposito di non appesantire le lezioni con discorsi, diceva quanto bastava, ben sapendo che a parlare troppo si correva il rischio di fare della filosofia, mentre ciò che ho capito con il tem