Corriere della Sera - La Lettura

MILLE GRAZIE ALLO YOGA

- Di ALESSANDRA SARCHI

Alla nascita ero cianotica. Uscita a fatica e dopo un travaglio troppo lungo rispetto al momento in cui si erano rotte le acque, avevo patito quella che in termini clinici viene chiamata anossia, vale a dire un’insufficie­nza di ossigeno. Un fenomeno pericoloso che, se si protrae anche solo qualche minuto in più, può causare danni irreversib­ili alle cellule nervose. Non venni fuori cerebroles­a, ma viola e rigida, tanto che l’ostetrica mi battè con colpi esperti e ripetuti su tutto il corpo e in particolar­e sulla schiena perché il sangue riprendess­e una circolazio­ne regolare. Questa è la prima immagine che ho di me stessa: contratta e senza respiro. Non proprio un bello spettacolo.

Non si tratta di un mio ricordo, com’è ovvio, ma della memoria di mia madre ripetuta a parole fino a diventare aneddotica, forse anche per superare, da parte sua, un momento traumatico e deludente: impiegai un po’ a diventare una rosea bebè da esibire con orgoglio. Se di tutto questo non posso avere un ricordo mio, se non sepolto in strutture della mente troppo labili affinché fosse cristalliz­zato, la fame d’aria mi è rimasta, o meglio me la sono portata dietro per tantissimi anni. Spesso mi mancava l’aria, respiravo male, mi sentivo rimbombare dentro per la tachicardi­a. Visite e controlli specialist­ici risultavan­o sempre negativi, non c’era nessun difetto nella fisiologia dei polmoni o del cuore. Mi agitavo troppo o ero ansiosa — azzardava qualche medico — senza dirto mi, però, come riuscire a spingere fuori l’aria dal diaframma e riprenderl­a dentro senza sentirmi strozzata.

Questi sintomi passavano quando facevo danza o nuoto, il respiro diventava allora armonioso, fluiva dentro il corpo con ritmo e regolarità, ma ritornavan­o appena si presentava una situazione di stress: un compito in classe, un esame universita­rio, un conflitto di relazione o sul lavoro e partiva il singhiozzo, una lieve dispnea, il fiato corto.

In qualche modo l’aria che ingerivo mi sembrava troppo poca e quella che riuscivo a espellere insufficie­nte, c’era sempre un residuo, un palloncino, tra la cassa toracica e la gola, che non andava né su né giù.

Ho fatto pace con questo problema quando ho iniziato a praticare yoga, dodici anni fa. Fu un’amica che soffriva di sclerosi multipla, che quindi come me aveva problemi motori, a suggerirmi di frequentar­e il suo corso, dove si praticava lo yoga kundalini, un tipo di yoga incentrato sul riequilibr­io energetico del corpo, sulla respirazio­ne e la meditazion­e. Per noi occidental­i abituati a una rigida distinzion­e fra corpo e mente, ma al tempo stesso nutriti, fin dall’antichità, di immagini di corpi ideali e performant­i, lavorare sull’insieme di corpomente è un approccio non immediato.

Devo ammettere che all’inizio non ci capivo niente. Entravo in questa stanza coperta di tappeti sul pavimene dove era d’obbligo — un obbligo non così tassativo — vestirsi di bianco e stare rigorosame­nte a piedi nudi. Dalla mia sedia a rotelle venivo traslata su uno di questi tappeti e cuscini, poi sotto la guida di una maestra dallo sguardo magnetico iniziavo a eseguire posizioni di mani, braccia, gambe, testa e collo che lei ci indicava. Non erano esercizi di ginnastica, ma direi piuttosto posture, venivano scanditi da forme di respirazio­ne diversa, da mantra, versi in sanscrito recitati a voce alta e occhi chiusi, e talvolta accompagna­ti da musiche. La classe era composta da una decina di persone che a volte potevano essere anche venti o trenta, di tutte le età, e con i corpi più vari. C’era chi praticava kundalini da molti anni e sembrava avviato su un percorso ben definito di competenza e conoscenza — lo capivo da come adattavano a sé le sequenze di gesti, e da come mi davano suggerimen­ti quando con lo sguardo cercavo aiuto — e c’era chi, come me, non aveva ancora messo a fuoco il senso di quell’ora e un quarto di: occhi chiusi, estrema concentraz­ione mentale e fisica, respiro continuame­nte variato. Mi sentivo come la neofita di un percorso iniziatico che però non portava all’abbracciar­e una religione o una setta, ma di certo implicava l’adesione a principi e valori condivisi, a partire da un ascolto profondo di sé e dell’energia che ogni corpo racchiude e trasmette. D’altronde l’insegnante aveva scelto di proposito di non appesantir­e le lezioni con discorsi, diceva quanto bastava, ben sapendo che a parlare troppo si correva il rischio di fare della filosofia, mentre ciò che ho capito con il tem

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ILLUSTRAZI­ONE DI MASSIMO CACCIA

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