Corriere della Sera - La Lettura
Frenesia, desideri, sogni: una stagione tutta nuova
Società L’uscita dalla pandemia ha messo in moto una smania di recuperare il tempo perduto e tornare in piena attività che ha aspetti patologici, come si è visto nella tragedia del Mottarone. Con il grave rischio di smarrire l’indispensabile senso del limite
Fareed Zakaria è un editorialista del «Washington Post». Nel suo libro appena uscito da Feltrinelli, Il mercato non basta, riconosce che «abbiamo creato un mondo che viaggia sempre sulle marce alte» e ci siamo trovati in «un’accelerazione spettacolare negli ultimi due secoli».
Accelerazione è la parola chiave del nostro presente: sembra che il tempo corra più veloce. Perché non ci sono solo i «terrapiattisti», ma anche i «terravelocisti»: infatti qualche buontempone ha provato a sostenere che la Terra deve avere aumentato la velocità di rotazione sul suo asse, perché si ha la sensazione che le ore del giorno e della notte si siano accorciate. È l’impressione di non avere abbastanza tempo. L’urgenza di riuscire a fare tutto in fretta genera un’ansia da prestazione che coinvolge ogni settore, dal lavoro alla vita privata. E il dono del tempo, come ricordava Jacques Derrida, è oggi il bene più prezioso che si possa offrire a un’umanità sempre più impaziente.
L’idea di accelerazione viene da lontano, da quando le prime macchine hanno stravolto i tempi della vita umana, fino ad allora sintonizzati sul trascorrere dei giorni, delle stagioni, dei ritmi della natura. La macchina, cantata dai futuristi che vedevano nella velocità il carattere rappresentativo di una realtà in evoluzione, ha imposto un passo diverso.
Fare presto si è identificato con il riuscire a fare, nel senso di realizzarsi, in un’epoca che pretende di assolvere a ogni compito subito, trattenendo il futuro dentro un presente dilatato.
Si è persino parlato di incapacità di progettare il futuro, specie nei giovani, per i quali le prospettive non sono cancellate, bensì compresse nell’immediatezza di oggi.
Poi, di colpo, tutto si è fermato. La pandemia ha interrotto il circuito virtuoso come un fermo immagine filmico, ha inchiodato ognuno nella posizione in cui si trovava nei primi giorni del marzo 2020. Fissando un movimento appena accennato, sfollando dalle strade, svuotando le città, chiudendo dentro le case, quando non dentro le stanze di terapia intensiva degli ospedali. Se gli esseri umani sono stati costretti a segnare il passo, le macchine non si sono fermate.
Ora la diminuzione dei contagi e la progressiva riapertura hanno scatenato un fenomeno sociale degno di rilievo: la frenesia da Covid-liberazione. Palpabile già dal caso di quel cinema di Milano che, alle sei del mattino del 26 aprile, ha registrato il tutto esaurito per il primo spettacolo dopo il lockdown.
Più che nella scorsa estate, si avvertono i segnali di un comportamento diverso, più fiducioso, nella consapevolezza che i progressi nelle vaccinazioni fanno scemare le paure, infondono coraggio. Anche se, com’è d’obbligo, è meglio mantenere ogni cautela: nuove ondate potrebbero essere sempre in agguato. Nonostante tutto, l’atmosfera che si respira è quella dell’uscita dal tunnel, la stessa di quando si riemerge da un conflitto o da una condizione penosa di oppressione.
Cessato allarme? Sembra proprio così, a giudicare dai bar affollati, dai ritrovi all’aperto dove non resta un tavolo libero. Ristoranti di nuovo gremiti di avventori, pioggia di prenotazioni per le vacanze estive. Ma soprattutto turisti: una specie che sembrava improvvisamente estinta, è tornata ad affacciarsi nelle nostre città d’arte. È la colomba dopo il diluvio. Così in questo clima di liberazione aumenta un’insolita frenesia sociale.
Frenesia, dal greco phrén («animo»), è
quella febbrile urgenza interiore che spinge a muoversi. Come una molla troppo a lungo compressa che, nel suo rilasciarsi, travolge ogni cosa.
Tra le emozioni meno nobili, proprio la frenesia — avendo sede nel diaframma, si riteneva anticamente — è quella che ha meno a che fare con la ragione. La sua sostanza è ambivalente: prodotta da uno stimolo positivo a muoversi più in fretta, ma molto difficile da controllare a causa della sua irrazionalità, può causare effetti indesiderati.
La sua violenza, la sua carica impetuosa e irrazionale, induce a sfidare la sorte, con un rischio per niente calcolato. Ne abbiamo avuto un esempio con la tragedia del Mottarone. La frenesia di riaprire, di tornare in piena attività, recuperare il tempo perduto, ha fatto tralasciare le più elementari norme di sicurezza. La voglia di normalità si trasforma in anormalità. Spesso per la fretta o la distrazione, si è portati a rinunciare a qualche dispositivo di prevenzione o a disattivarlo momentaneamente. Sembra un gesto innocuo, fatto con la leggerezza di chi crede di avere tutto sotto controllo, mentre non è così.
Questo perché le catastrofi sono sempre dietro l’angolo. Per evitarle, osservava Zygmunt Bauman in Paura liquida (Laterza), occorre convincersi che l’impossibile è possibile. Che il possibile è sempre in agguato, senza tregua, ben protetto dall’involucro dell’impossibilità. A pensarci bene, più che delle catastrofi naturali (terremoti, alluvioni), siamo sempre più vittime di catastrofi morali, quelle prodotte dall’uomo. Sotto l’irrazionalità dell’attività frenetica, ammantata di spontaneità (qualità di gran moda, che però si rivela controproducente), si riconosce a volte una razionalità strumentale. Una finalità nascosta per il proprio tornaconto.
È il lascito di una cultura ancestrale che torna a fare capolino nei momenti di crisi, quando la patina di civiltà è incrinata dall’istinto di sopravvivenza. Di questo retaggio la frenesia è uno dei sintomi più evidenti. Si sospetta che tutto sia a termine, con una scadenza di cui non conosciamo la data. Allora il frenetico cogliere al volo ciò che si presenta, anche se non strettamente necessario, si giustifica con l’insicurezza di fondo. La frenesia dipende dal timore di non fare in tempo a godere di un beneficio o di un privilegio, per paura che le regole cambino da un momento all’altro. Come in tutte le condizioni d’incertezza, considerando anche la contraddittorietà delle indicazioni che si sono succedute durante la pandemia, vale ancora il «chi vuol essere lieto sia, del doman non v’è certezza» di rinascimentale memoria.
Perché frenetici? Se lo chiedeva già Renato Zero nel brano Frenesia del 1984: «Chissà, se è giusto correre/ Frenetica mania/ La vita ci sorpasserà, così/ E dopo tanto correre, noi qui», lasciando intuire un’umanità in preda a un’ansia crescente. La frenesia si innesta sull’abitudine ad andare di fretta, ma non solo su questa. Infatti la pandemia ha spinto a mettersi in fila per comprare il pane come per vaccinarsi. Nell’attendere in fila trapela la volontà di partecipare civilmente, assieme all’urgenza di fare prima a usufruire di un servizio o accedere a un beneficio, per non ritrovarsi ultimi o addirittura esclusi. Riemergono antiche paure del tempo di guerra sedimentate nella memoria collettiva, di cui la frenesia vuole sbarazzarsi al più presto. Muoversi è la parola d’ordine, e non importa per andare dove, né perché. Dai monopattini ai banchi a rotelle, tutto sembra un invito a non restare fermi.
L’orizzonte rimane incerto. Il senso del limite — di cui Remo Bodei ha dato una lettura magistrale nel libro Limite (il Mulino) — appare sfuocato, dai tratti indistinti. Sarà per l’incertezza che ha contraddistinto certe comunicazioni in ambito scientifico, sarà per quei messaggi della prima ora, che affermavano l’inutilità di un dispositivo, per poi riconoscerlo indispensabile, ma questa dissolvenza dei limiti è un’esortazione alla frenesia. Il limite è un potente propulsore del progresso umano: sapere quali sono i nostri limiti infonde consapevolezza, mentre spinge a superarli per crescere. Non a caso Aristotele considerava l’àpeiron (senza péras, «limite») un concetto negativo, assimilabile all’infinito, lo stesso che Jorge Luis Borges confermava come estremamente pericoloso, proprio per l’assenza di misura. Questo perché se all’orizzonte di noi esseri finiti poniamo l’infinito, lo scompenso che ne deriva genera un malessere collettivo. Rasenta l’anomia, l’assenza delle regole che servono appunto a «limitare» i comportamenti umani. E senza regole non si sopravvive.
Nell’attesa che siano reintrodotte e rese note, prende la frenesia, l’urgenza di fare qualcosa. Solo una delle reazioni possibili a questo stato di cose. Non un effetto duraturo, bensì un’altra di quelle manifestazioni occasionali che segnalano la presenza di un disagio.
Come del resto accade con il languishing, una tendenza a distaccarsi dalla realtà e a osservarla con apatia: l’esatto contrario della frenesia, perché ognuno reagisce secondo la sua sensibilità. Le sfaccettature emotive sono tante quanto gli aspetti della società. Se il languishing rappresenta una reazione minoritaria e passiva alla pandemia la frenesia è il suo contraltare attivo, accresciuto dal furore di ristabilire le condizioni precedenti.
Tra il languire, attendendo gli eventi nella più assoluta indifferenza, e il prendere l’iniziativa, c’è uno scatto di consapevolezza. Muoversi è la modalità di sopperire alla mancanza di limiti, di tradurla in azioni da compiere prima che intervengano nuove limitazioni. E se il limite è etico, socialmente utile per uscire dallo stato di minorità, l’assenza del limite — purché temporanea — rompe un sistema consolidato e prepara nuovi equilibri.
La frenesia che caratterizza il nostro presente, allora, prelude forse a un tempo nuovo. Dopo lo slow-food, che ci ha insegnato a rallentare e a curare la qualità dell’alimentazione, ci vorrebbe anche uno slow-biz: una modalità di vivere, lavorare e realizzarsi senza fretta, rispettando i nostri tempi biologici. Tanto la rotazione terrestre, almeno per il momento, non cambia.