Corriere della Sera - La Lettura
Il dolore di Kae Tempest «Lo conosco, lo dico»
Kae Tempest, artista che ha definito non-binaria la propria identità di genere, riceverà il 9 luglio, il Leone d’Argento della Biennale Teatro e porterà in scena, sempre a Venezia, un suo recital poetico. Intanto prepara a Londra l’adattamento del dramma di Sofocle. Spiega in quest’intervista a «la Lettura»: «Il testo esplora questioni che toccano la coscienza di ognuno, come l’esclusione del malato e la sua solitudine senza rimedio, il conflitto tra presunti interessi superiori e la pietà. Lo scandalo assurdo della sofferenza. E l’enigma della condizione umana»
R apper, poetessa, drammaturga, performer, scrittrice, è una delle voci più importanti nella letteratura e nella cultura queer. Kate Tempest, nata Kate Esther Calvert (il suo vero nome) a Brockley, sobborgo del sudest londinese, ha dichiarato quasi un anno fa la sua identità di genere non-binaria (non si riconosce come maschio o femmina, da qui l’uso in inglese dei pronomi they/them, cioè loro/essi) e cambiato il suo nome nel più neutro Kae. Nel 2019 è uscito il suo quarto album musicale, The Book of
Traps and Lessons (Caroline International, distribuzione Universal), che Tempest presenterà in forma di spoken word, senza musica, sabato 10 luglio nell’ambito della Biennale Teatro di Venezia (Teatro Goldoni, ore 21) presieduta da Roberto Cicutto. Il giorno prima riceverà il Leone d’Argento per — recita la motivazione del premio proposto di ricci/forte (Stefano Ricci e Gianni Forte), direttori del settore Teatro — «il coraggio ardimentoso nel dissezionare e raccontare con sguardo lucido angosce, solitudine, paure e precarietà di vivere, i più invisibili eppure concreti compagni di vita della nostra epoca». «Non so — racconta Tempest — quando ho iniziato a interessarmi alla poesia. Ad affascinarmi sono sempre state le parole più che la liricità dei versi, prima ancora di quanto possa ricordare...».
Nei suoi testi risuona un attento processo di ascolto, di osservazione...
«Si tratta proprio di prestare attenzione, di ascoltare. Più si guarda e più si vede. E se di mestiere si scrive, più si guarda più si vede, più si ascolta più si sente. Tutto questo va condiviso con l’Altro, va reso visibile. Sarebbe un fardello troppo pesante da portare da soli».
Qual è il tema che in questo momento la preoccupa di più?
«Penso sia più importante parlare di cosa oggi mi procura gioia. Da qualche settimana ho cominciato le prove di Paradise, riscrittura del classico greco Filottete di Sofocle per il National Theatre di Londra, dove debutterà il 4 agosto. Un cast tutto al femminile di 12 attrici, un regista, uno scenografo, un direttore di scena stanno lavorando per ridare vita a una vecchia storia con voce nuova. Questo mi fa stare bene, la collaborazione mi rende felice, essere di nuovo insieme dopo il lungo periodo di isolamento che abbiamo dovuto affrontare».
Che cosa l’ha colpita dell’eroe di Sofocle?
«Filottete, nobile principe di Tessaglia, alleato degli Achei nella guerra contro Troia, a causa di una ferita infetta e incurabile fu da essi abbandonato su un’isola deserta, dove per nove anni trascina una vita di stenti. Quando una profezia annuncia che solo con lui e con il suo arco infallibile, dono di Eracle, si otterrà la vittoria, Ulisse e Neottolemo, figlio di Achille, arrivano sull’isola per condurlo a Troia. Da qui un dramma che interroga su questioni che toccano la coscienza di ognuno: l’esclusione del malato e la sua irrimediabile solitudine, il conflitto tra presunti interessi superiori e la pietà, lo scandalo assurdo della sofferenza, l’enigma della condizione umana. Conosco molto bene la sofferenza di Filottete perché è anche la mia. Nel testo originale è chiaro che la vittima, chi soffre, chi è ferito, prova rabbia: Filottete è intossicato, il suo essere selvaggio suscita compassione; nella mia pièce è in contrasto con il Coro, donne che hanno dovuto guarire da ferite peggiori di quelli del nobile arciere, sono delle sopravvissute, delle “guaritrici”. Sono nella vita, non contro la vita: tutta l’opera riguarda proprio l’essere soprattutto sopravvissuti rispetto all’essere vittime di qualcosa. E questo risuona molto attuale per me».
Chi sono i classici che meglio ci aiutano a comprendere il presente e i contemporanei che potrebbero diventare classici?
«È interessante vedere come i classici, il loro canone, si siano cementati nella nostra cultura, definendola. Per quanto riguarda i contemporanei, non saprei».
E qual è la parola chiave che racconta il contemporaneo?
«La parola riconoscimento. È giunto il tempo di affrontare le proprie responsabilità».
L’amore attraversa il suo lavoro come un gesto politico.
«Sì, è così, almeno per me. Poiché che la mia natura è diversa da quella della narrazione dominante, per potermi tutelare in maniera efficace, per potermi proteggere anche dalla vergogna, ho dovuto lavorare duramente. Amare non è facile, ma quando l’amore ci sostiene è una forza propulsiva, che ci porta all’incontro, a iniziare anche la ricerca di un’idea».
Per rendere più inclusiva la lingua italiana, che contempla due soli generi, ritiene valida la proposta di usare la schwa (una piccola «e» rovesciata che simboleggia un suono vocalico indistinto)?
«Si tratta di un tema che affronto in molte lingue, ne parlo ad esempio con i miei traduttori in Francia, in Spagna, in Germania: sono loro che riflettono su quale soluzione trovare per superare il problema. Sono certə che nel vostro Paese ci siano persone già alle prese con la questione, alle quali esprimo gratitudine, che credo possano essere risorse importanti a cui fare riferimento».
La Brexit ha diviso il suo Paese; la pandemia ha consentito una sorta di «riconnessione»?
«Credo che la crisi conseguente alle molte perdite, non solo in termini di vite umane ma anche di mezzi, di risorse per vivere, abbia portato a una profonda riflessione. Non penso che la pandemia abbia contribuito a superare le divisioni provocate dalla Brexit, quanto abbia piuttosto portato le persone a riconnettersi con sé stesse, a essere più tolleranti verso gli altri. Non credo di poter sostenere che ci sia un legame tra Brexit e Covid. Certo, all’inizio della crisi pandemica le persone hanno cominciato ad aiutarsi, c’era chi andava a fare la spesa per chi non poteva farla personalmente, ma non ritengo che questo abbia poi rappresentato un modo per trovare un terreno di intesa tra due opposte visioni».
Quello della pandemia è stato un tempo creativo per lei?
«Venendo da diciotto mesi di tournée, lo stop forzato è stato un momento di intensa creatività, soprattutto a livello personale, che mi ha fatto pensare a come volevo riscrivere la mia vita. Non avevo un rapporto così profondo con la mia creatività da quando ero adolescente. Ho scritto per la pura gioia di farlo e non perché dovevo esibirmi. Sì, è stato un anno molto importante per il mio sviluppo come persona e come artista».
Scrive in modo diverso a seconda che le sue rime siano destinate a un libro o a una canzone?
«Sicuramente. Forme di espressione diverse richiedono impostazioni diverse a seconda che stia scrivendo una canzone, un libro, una poesia. Ci sono di certo punti in comune, ma la gioia è diversa».
La sua nuova raccolta di poesie, «Un arpeggio sulle corde», sembra avere uno sguardo più intimo, meno rivolto al sociale, al politico. È così?
«Si, la lente è puntata sulla fine di una relazione e l’inizio di un’altra. È una raccolta concentrata sull’intimità, sulla disperazione, sull’amore, sul sesso. O, anche, semplicemente sul quotidiano». Esiste una connessione tra amore e creatività?
«L’amore è di per sé stesso un atto creativo. Credo che tutto sia un atto creativo, è questa la nostra forza».
Le sue esibizioni dal vivo sono estremamente appassionate. Che sensazioni prova sul palco? «Finché non trovo il groove sono in tensione, poi finalmente mi sciolgo. Ragiono in termini musicali e ritmici perché ho iniziato come rapper ed è stato prima attraverso la musica che si è espresso il mio amore per il linguaggio. Ogni volta sul palco è diversa, non sai mai come andrà. È qualcosa di fisico, ma anche di estremamente emotivo. Sono apparsa sulla scena dello slam a 16 anni, ho imparato come “sparire” di fronte alle parole, è un mestiere. In privato sono piuttosto timidə, con il pubblico cerco invece di creare una connessione, esibirsi è un mestiere; scrivere è un mestiere».
Quest’anno celebriamo il 700° anniversario della morte di Dante Alighieri. Quanto conosce il nostro poeta?
«Da giovane desideravo leggere tutto quello che aveva l’aura del capolavoro o che mi veniva segnalato come tale. Cercavo i libri con il contrassegno della grandezza, volevo studiarli, essere insieme a quei geni. Non penso di avere un legame personale con Dante, ma nel Libro delle
Trappole e delle Lezioni che presenterò a Venezia, avverto la sua influenza. Dante smarrisce la retta via, ed è questo l’inizio della storia che ritroviamo Nelle trappole
e nelle lezioni, come preferisco definire in breve questa mia l’opera. Ho inoltre letto l’Inferno nella straordinaria traduzione in inglese contemporaneo del poeta e romanziere irlandese Ciaran Carson. Comprai il libro mentre ero in America: me ne sono innamoratə». L’arte ha ancora il potere di cambiare il mondo?
«L’arte può sempre cambiare il mondo. Quando mi sento perdutə, smarritə, cerco, e trovo, conforto nella musica, in un libro, in uno spettacolo. Il mondo, perlomeno il mio, è cambiato dall’arte. Mi consente di uscire dal buio, dall’intorpidimento, dal nulla della mia depressione. L’arte mi salva. Diverso è dire che la musica possa cambiare il mondo, dare il via a una rivoluzione, liberarci da ciò che ci opprime. Con il mio lavoro cerco di creare un ambiente in cui riconnettersi, questo può cambiare la nostra vita. Rimane che come esseri umani siamo definiti in quanto “consumatori”, le situazioni di insoddisfazione, di disagio “controllato” ci inducono a consumare sempre di più. Sotto il controllo e la spinta di società, media, social. Dobbiamo essere famelici, voluttuosi. Intorpiditi. Separati dallo spirito. È così che ci vogliono. L’arte ci permette di tornare a dialogare con il nostro io più profondo». Come immagina il mondo post Covid?
«Spero nel cambiamento. Ma non lo vedo. Perché ciò che più importa in questo momento storico, e che noi continuiamo a mettere davanti a tutto, è il profitto. L’idea di aver fermato i mercati per un anno dovrebbe rappresentare un cambiamento importante, dovrebbe permetterci di guardare oltre. Ma questo non rientra tra gli interessi di governi e multinazionali. Vedo grandi frizioni, paura del futuro, sfiducia. Sì, un cambiamento ci sarà. Non so però dire quale». Che effetto le ha fatto vedersi assegnare il Leone d’argento?
«È un onore immenso, tanto più in un Paese che non parla la mia lingua. Dunque è anche un premio a chi mi pubblica, a chi mi traduce (Riccardo Duranti, ndr). Il loro lavoro permette di far vivere il mio».