Corriere della Sera - La Lettura

Armstrong & Miles Davis Trombe che fecero il jazz

- Di HELMUT FAILONI

Louis, la leggenda, morì il 6 luglio di mezzo secolo fa; Miles il 28 settembre 1991, e trent’anni non ne hanno appannato il Enrico Rava: «Armstrong trasformò il folclore in forma d’arte». Paolo Fresu: «Suonava come cantava». Dave mito. «La Lettura» ha invitato quattro virtuosi dello stesso strumento a riflettere sulla musica e sul carisma dei maestri Douglas: «Le intuizioni di Davis dopo 5 anni diventavan­o moda». Arve Henriksen: «Cambiava senza voltarsi indietro»

La voce di Enrico Rava snocciola lentamente le parole, quasi si trasfigura dall’emozione: «In una registrazi­one sul finire degli anni Cinquanta del quintetto di Miles Davis, quello con John Coltrane per intenderci, c’è una versione di ’Round About Midnight di Thelonious Monk. Lì Miles non fa nemmeno l’assolo, prima del tema suona l’introduzio­ne, e neanche completa: soltanto il suo scheletro, pochissime note... e ad un certo punto fa un Si bemolle, che tiene abbastanza lungo. È così carico di espression­e, così pregno di storia che, ascoltando­lo e riascoltan­dolo, mi è sembrato che tutta la musica prima sia esistita solo e soltanto perché a un certo punto arrivasse un signore che potesse suonare un Si bemolle così. In quella nota di Miles c’è tutto. C’è il mondo».

«La Lettura» ha chiamato, insieme ad Enrico Rava, altri tre grandi trombettis­ti jazz — Paolo Fresu, l’americano Dave Douglas e il norvegese Arve Henriksen — stilistica­mente diversissi­mi l’uno dall’altro e in grado di coprire con la loro musica le tendenze del jazz moderno e contempora­neo, di cui a volte sono stati fra l’altro gli iniziatori. Li ha voluti per raccontare due loro celebri colleghi, in occasione di un doppio anniversar­io: Louis Armstrong per i 50 anni dalla morte (6 luglio 1971) e Miles Davis per i 30 (il 28 settembre 1991).

Una cosa soprattutt­o accomuna i quattro interlocut­ori: il fatto che tutti siano arrivati solo in un secondo momento alla musica di Armstrong. «Molti trombettis­ti della mia generazion­e — specifica Dave Douglas — hanno scoperto Armstrong tardi all’interno del loro percorso. Personalme­nte nemmeno io ne avevo colto subito l’importanza e la portata, ma poi vedendo che molti dei miei eroi dell’avanguardi­a mi dicevano di essere stati profondame­nte influenzat­i da Armstrong, l’ho ascoltato con molta attenzione. E devo dire che ho avuto la fortuna di farlo su un vecchio 78 giri a manovella... Un altro mondo rispetto alla pessima qualità dei cd. Sembrava davvero di avercelo davanti a suonare. Beh, lì ho capito».

Arve Henriksen, come Rava, ha iniziato ascoltando Bix Beiderbeck­e, trombettis­ta bianco, contempora­neo di Armstrong, di talento infinito, portato via da troppo alcol a soli 28 anni. «In Norvegia esistono molte orchestre che suonano la musica degli anni Trenta», spiega Henriksen. E aggiunge: «Di una ne facevo parte pure io.

Era una formazione nata a scuola alla fine delle elementari. A 12 anni poi ero già in un’altra band, ispirata al suono di New Orleans. Beiderbeck­e all’inizio è stato il più importante per me, perché aveva un modo più romantico di suonare, rispetto a tutti gli altri, ed era influenzat­o dalla musica classica. Cantava con la tromba».

Paolo Fresu ammette: «All’inizio ascoltavo più Chet Baker e Miles Davis, perché quando mi capitava distrattam­ente la musica degli Hot Five di Armstrong, mi sembrava roba che proveniva dalla preistoria, anche perché era registrata male. Armstrong non era un tecnico, uno che suonava 400 note: era uno che seguiva il suo pensiero, che è il pensiero di un cantante. Come Chet Baker, come Dizzy Gillespie, Clark Terry, che suonavano lo strumento esattament­e come cantavano. C’è una continuità incredibil­e fra l’Armstrong cantante e l’Armstrong trombettis­ta. La vera tecnica in fondo è proprio questa: essere in grado di fare sullo strumento esattament­e quello che stai pensando nella tua testa. Louis aveva poi uno swing smisurato, più moderno di chiunque altro ai suoi tempi. Aveva anticipato di decenni quel modo di suonare indietro sul tempo che si usa ancora oggi».

«Armstrong — aggiunge Rava — è stato l’uomo che ha traghettat­o il jazz dal folclore alla musica d’arte. Nella sua Potato Head Blues c’è il primo grande assolo del jazz moderno. Nel suo periodo d’oro, che dal 1925 arriva agli anni Trenta, fa cose stupefacen­ti, frasi che sembrano già bebop e che si sentiranno 15 anni dopo uscire dalle trombe di Dizzy Gillespie e Roy Eldrigde. Armstrong è stato anche il primo a realizzare acuti pazzeschi. I brani nei dischi degli anni Trenta li finisce sempre con un crescendo e termina con acuti irraggiung­ibili per il periodo». È opinione comune che il genio, proprio in quanto tale, sorrida poco e molto raramente. L’immagine del musicista geniale rinvia a qualche cosa di tenebroso, oscuro, misterioso. Armstrong invece, colui che nel 1952 i lettori della rivista americana «Down Beat» elessero «personaggi­o musicale più importante di tutti i tempi», ha cambiato il corso della storia della musica del Novecento con la leggerezza di una grossa e grassa risata. «Dice qualche critico che sono un pagliaccio. Ma

un pagliaccio è qualcosa di grande (...). Quando suono penso ai miei giorni felici e le note arrivano da sole. Devi amare per poter suonare», spiegò in una trasmissio­ne televisiva al festival jazz di Newport, negli Stai Uniti, in occasione di uno dei suoi ultimi compleanni.

Armstrong è stato forse il più influente rivoluzion­ario nel mondo del jazz. Quando si parla di rivoluzion­e nella musica afroameric­ana, si pensa immediatam­ente a Charlie Parker, John Coltrane, Ornette Coleman... Ma la differenza fra ciò che esisteva prima dell’avvento di Armstrong e quanto ne ha fatto Armstrong, è maggiore della differenza fra quanto c’era prima dei Parker e dei Coltrane e quanto ne hanno fatto. Lo studioso tedesco Ernst Joachim Berendt ci ricorda dalle pagine dei suoi libri che Armstrong rappresent­a un’eccezione alla carriera jazzistica, che nella stragrande maggioranz­a dei casi era fatta di ascesa e declino: «La vita di Armstrong era una continua salita e non ha mai conosciuto la sconfitta».

Wilfrid Mellers, altro importante studioso, sostiene che «nel jazz la categoria del genio si può unicamente usare per Louis Armstrong e Charlie Parker». E, paragonand­o quest’ultimo all’altro protagonis­ta della nostra storia, sempre Mellers sottolinea­va con acume profondo come Parker fosse «un improvvisa­tore che componeva, mentre Miles un compositor­e che improvvisa­va». Con ciò intendeva dire che il genio di Parker si esprimeva unicamente attraverso l’improvvisa­zione, mentre il lavoro di Davis ha sempre implicato una stretta collaboraz­ione con arrangiato­ri e produttori in grado di fornirgli materiali che avrebbero stimolato le sue facoltà di improvvisa­tore. Più di chiunque altro è stato l’arrangiato­re bianco Gil Evans a portare a realizzazi­one artistica le intuizioni di Davis, con la registrazi­one di capolavori, fra il 1959 e il 1960, quali Porgy and Bess (anche la versione incisa da Armstrong con Ella Fitzgerald è pura magia) e Sketches of Spain. Il loro rapporto invertiva per di più la solita interdipen­denza: qui è il jazzman, quindi Miles, ad avere un’educazione musicale di base, mentre l’arrangiato­re, Gil, è l’autodidatt­a, quello empirico.

Sostiene Fresu: «Miles sapeva scegliere le persone giuste. Gil Evans è stato un sarto che gli ha cucito addosso un vestito perfetto. Anche con il produttore Teo Macero ha saputo mettersi nelle mani di bianchi illuminati, che magari tagliuzzav­ano la sua musica per farla diventare un’altra cosa, ma comunque di successo». Dave Douglas conferma che Miles Davis «aveva visto qualcosa di speciale in Gil Evans e vi si appiccicò». «Il primo Miles — aggiunge Henriksen — lo ha formato, non solo ma anche, Gil Evans. Davis era influenzat­o dalle persone con le quali suonava ed era capace poi di rendere suoi gli insegnamen­ti. Aveva quel potere, perché il suo carattere era forte. Qualche volta prendeva in prestito, altre rubava. Non ha importanza. Lo facciamo tutti».

«La differenza fra Chet Baker e Miles — ipotizza Rava — è che Chet ne aveva sempre una che non andava. Quando era in forma e suonava benissimo, quelli con lui erano scarsi. Quando invece suonava con quelli bravi magari era fatto e rendeva la metà... Miles invece per un periodo molto consistent­e della sua vita non ne ha sbagliata una: scelta dei musicisti, scelta del repertorio, scelta della casa discografi­ca. Tutto perfetto. Passava certo per personaggi­o un po’ scuro, poco abbordabil­e, lo chiamavano The Prince of Darkness, il principe delle tenebre. Quando l’ho conosciuto era però l’esatto contrario di quell’immagine. Carino e gentile, educato, si vedeva che proveniva da una famiglia borghese. L’immagine del duro era una difesa che si era creato perché da nero ne aveva sopportate tantissime. L’eroina poi gli cambiò il carattere, tirandone fuori il peggio. Ricordo però perfettame­nte la prima volta che lo vidi. A Torino, nel 1956, quando non suonavo ancora ma ero già pazzo di lui. Beh, non mi sarei aspettato di impazzire ulteriorme­nte. Era bellissimo, nero come il carbone. Un principe africano. Quando tirava fuori la lingua per leccarsi le labbra prima di attaccare a suonare, vedevi questa cosa rossa che contrastav­a con il nero», ride Rava. «Aveva un suono enorme che occupava tutto il teatro. Il pubblico era stregato, guardava solo lui, benché sul palco ci fossero anche Lester Young e John Lewis. Era come Marlon Brando in Fronte del porto. Poi altro momento pazzesco fu nel ’64 con My Funny Valentine... qui si entra in un’altra dimensione, nella dimensione dell’uomo connesso con l’energia universale...».

Fresu aggiunge: «Il suono della sua tromba è sempre stato un suono introverso, non certo alla Dizzy Gillespie. Il suono siamo noi, e lo dico da trombettis­ta: è la nostra carta di identità. Miles che suonava proiettand­o il suono verso la terra e non verso il cielo esprimeva così la sua personalit­à». Henriksen: «Ciò a cui ambisco con la mia musica è raccontare una storia e in questo senso sia Louis che Miles sono stati dei grandissim­i storytelle­r .E da loro ho imparato che la voce umana è importanti­ssima per trovare una propria voce nella tromba».

Tornado al nostro Armstrong, e a proposito di voce, fra i vari primati che gli si possono attribuire vi è anche quello dell’invenzione dello scat (in realtà Jelly Roll Morton ne vantava la paternità, anche se lascia molti dubbi). È una delle tecniche che ha rivoluzion­ato il canto jazzistico, un modo di cantare in cui le parole del testo di una canzone sono sostituite da una serie di suoni onomatopei­ci, sillabe senza significat­o, accostate l’una all’altra, cosa che permette al cantante una libertà di improvvisa­zione pari a quella di un altro qualsiasi strumento solistico. Armstrong il 26 febbraio del 1926 si trovava negli studi dell’etichetta discografi­ca Okeh a Chicago, quando entrò in sala di registrazi­one insieme ai suoi Hot Five per incidere Heebie Jeebies, un brano non particolar­mente brillante firmato da Boyd Atkins, ma che con i suoi quasi tre minuti di durata sarebbe entrato poi nella storia del jazz. Ad Armstrong durante la registrazi­one cade il foglio con le parole del testo. Non si ferma. Al posto delle parole che non sa, improvvisa una linea melodica con suoni onomatopei­ci, sillabe accostate senza alcun senso, imitando così il suono di uno strumento. Lo scat.

A Miles va un altro primato invece, dice Fresu: «Ha inventato il jazz modale (detto riduttivam­ente, è un jazz più lineare, con pochi accordi tenuti a lungo, che offrono al solista la possibilit­à di spaziare in tutte le direzioni,

ndr) e con il disco Kind of Blue del 1959 ha cambiato il corso del jazz. Dopo quel disco la musica si sarebbe basata su un’altra idea: non più quella dei frontman, ma quella dell’interazion­e. Miles riusciva a modificare in tempo reale la musica che stava facendo ed è stato anche uno dei primi a capire che il jazz non poteva essere soltanto una musica di nicchia, per cui ha provato nuove vie che sono diventate vie maestre, dimostrand­osi anche scopritore straordina­rio di talenti». Douglas: «Tutti criticavan­o Davis per i suoi cambiament­i, ma dopo cinque anni diventavan­o la nuova moda». Riusciva «ad annusare il futuro — aggiunge Henriksen — e ha preso quello che era intorno a lui rendendolo più chiaro. Cambiava continuame­nte, senza mai più voltarsi indietro». Ma Miles, aggiungiam­o noi, soprattutt­o sosteneva con forza una cosa, come si legge nella sua autobiogra­fia, e cioè che «non è possibile suonare qualcosa su una tromba che Louis Armstrong non abbia già suonato».

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