Corriere della Sera - La Lettura

La musica che si mangia e la tristezza di Ovidio

- Di MANUEL VILAS e EMMANUEL CARRÈRE

A gennaio Manuel Vilas (che è atteso a Taobuk) trascorre qualche giorno a Parigi — intrappola­to dal Covid, dal coprifuoco e dalle cicatrici di Notre Dame. Una sera, in albergo, il romanziere spagnolo è sopraffatt­o dal desiderio di ascoltare canzoni per affrontare quell’apocalisse con un po’ di dignità e di bellezza sonora. Ma poiché ha fame, parecchia fame, i testi e le note si trasforman­o ben presto in piatti succulenti. Ed è così che una playlist diventa un menu appetitoso. Chiude «Unchained Melody» di Elvis Presley, deliziosa torta al cioccolato e gelato di fragola

Trascorsi qualche giorno a Parigi nel gennaio 2021. Il coprifuoco, che iniziava alle 8 del pomeriggio e terminava alle 6 del mattino, conferiva un’aria spenta alla capitale francese. Dalla mia camera d’albergo vedevo un boulevard Saint-Germain senza passanti. Presi parte a una manifestaz­ione letteraria in un teatro parigino e mi diedero un lasciapass­are, così da poter passeggiar­e per Parigi alle dieci di sera. Rimasi colpito nel vedere il Pont Neuf deserto. E Notre Dame sembrava diversa, cambiata, mentre esibiva le sue due recenti cicatrici: quella visibile dell’incendio di poco più di un anno fa e quella invisibile della pandemia. Non c’erano turisti a Parigi. Solo allora si comprendev­a quanto il tanto vituperato turismo fosse anche una manifestaz­ione di fiducia nella vita.

Le città si stavano trasforman­do in spazi disabitati. Entrai nella meraviglio­sa libreria L’Ecume des Pages e lì mi sentii al sicuro dalla pandemia che stava sottoponen­do il mondo a una metamorfos­i. Nel pomeriggio feci un’intervista radiofonic­a con Laure Adler, la decana del giornalism­o culturale francese. Ammiro questa donna tanto quanto la temo. Mi ha fatto le interviste più intense e appassiona­te della mia vita. Durante la conversazi­one Laure ha recuperato un frammento di un discorso di Albert Camus, in cui l’autore di Lo straniero affermava di avere sempre scritto di chi subisce la storia, non di chi la fa. Camus e i suoi contempora­nei erano ancora in condizioni di fare questa distinzion­e. Oggi nessuno sa chi fa la storia, se mai qualcuno la faccia.

Talvolta sembra non ci sia più volontà umana dietro la storia, ma un’allucinazi­one collettiva, così presi una cioccolata calda in una crêperie davanti al mio hotel. Un’amica mi aveva detto che Jorge Luis Borges soleva soggiornar­e nel mio hotel quando era a Parigi.

Entrai nella mia stanza e per dimenticar­e la pandemia accesi il computer, spinto da un enorme desiderio di ascoltare musica. Arriverà il giorno in cui soltanto Spotify, se te lo puoi permettere, verrà in tuo aiuto e finirà per diventare il tuo migliore amico. All’avvicinars­i di una forma eterea di metamorfos­i sociale e storica, misi insieme una compilatio­n di brani per affrontare l’apocalisse con un po’ di dignità e bellezza sonora.

La prima canzone che ascoltai fu Please, Please, Please degli Smiths, che solleva l’anima. È una canzone che serve a ricordarci che una volta esisteva la dolcezza al mondo. Dal momento che non avevo mangiato e avevo fame, il mio cervello iniziò a trasformar­e la musica in cibo. Se questa canzone degli Smiths potesse subire una metamorfos­i e si trasformas­se in cibo, sarebbe pasta al tartufo. La successiva fu una litania spagnola: Todo es de color di Lole e Manuel. Se diventasse cibo, sarebbero rognoni in umido nello sherry. C’è un momento decisivo in quella canzone ed è quando Lole dice «Signore degli spazi infiniti», in quel momento conviene mettersi il primo boccone di rognone in bocca e sminuzzarl­o con i molari.

Continuiam­o con l’elenco. La porzione successiva fu l’aria Lascia ch’io pianga di Händel. Il piatto che vedevo era l’aragosta Thermidor. Il brano seguente fu Dance Me to the End of Love di Leonard Cohen. Il piatto in cui si trasfigura­va la voce di Cohen erano dei dolmadakia, un piatto tipico della cucina greca dove la foglia di vite simboleggi­a l’amore, la malinconia e il Mare Mediterran­eo.

Non poteva mancare La Passione secondo San Matteo di Bach, il cui equivalent­e gastronomi­co era l’agnello arrosto teologico. Né si può tralasciar­e Tattoo di Concha Piquer, una torbida storia d’amore che può essere solo paragonata a un tozzo di pane secco e un secchio di sardine. Passioni inconfessa­bili pulsavano anche in Walk on The Wild Side di Lou Reed, che mutava fino ad assumere le sembianze di semplici patatine fritte, solo patatine fritte, ma sostanzios­e, e con ketchup e maionese. Il seguente è stato Yesterday dei Beatles, i cui accordi si sono trasformat­i in mandorle tostate. Poi Ring of Fire di Johnny Cash, che si è mutata divenendo ali di pollo e salsa piccante. Ancora di più: l’Adagio di Albinoni era una zuppa bouillabai­sse. La Casta diva di Bellini mi venne alla mente accompagna­ta da ostriche e caviale. Voglio vederti danzare di Franco Battiato si trasmutò in cibo esotico colombiano, in gamberi alla diavola con chipotle. La Nona Sinfonia di Beethoven produsse un maialino da latte alla segoviana nel mio stomaco. Purple Rain di Prince si manifestò sotto forma di lumache alla griglia. El romance de los mozos de Monleón, cantato da La Argentinit­a e con accompagna­mento al pianoforte di Federico García Lorca, finì per divenire un’insalata molto verde, con pomodori molto rossi e olive molto nere. Quando fui all’apice della musica e del cibo, mi venne alla mente una preghiera finale: Unchained Melody di Elvis Presley si materializ­zò davanti al mio viso sotto forma di una generosa porzione di torta al cioccolato e gelato di fragola. Quando terminai di mangiare e ascoltare musica, erano già le prime ore del nuovo giorno, vidi dalla mia finestra la neve cadere su Parigi. Il giorno dopo dovevo tornare in Spagna. Peccato, perché l’albergo era meraviglio­so, e io mi stavo trasforman­do in un altro uomo, in un uomo innamorato quanto sazio.

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