Corriere della Sera - La Lettura
Poliomielite Storia della prima vaccinazione globale
Virus Una campagna di massa cambiò il concetto di malattia
McLean, Virginia, 26 aprile 1954. Quella mattina Randall «Randy» Kerr, sei anni, indossa la camicia buona perché la scuola è piena di giornalisti e gli spetta un ruolo da protagonista. Alle 9.35, immortalato dai fotografi, porge il braccio al dottor Richard Mulvaney, che gli inocula il vaccino anti-polio sviluppato da Jonas Salk. Randy è il primo di una lunga fila, che si snoda per tutti gli Stati Uniti. È la più grande operazione sanitaria mai tentata fino a quel momento: quasi 2 milioni di alunni coinvolti, 14 mila scuole e 220 mila volontari. Un esito positivo del test si rivelerebbe cruciale, perché il virus della poliomielite ogni estate contagia decine di migliaia di persone, debilitando e uccidendo anche numerosi bambini.
Andrà bene, ma non sarà una passeggiata. Dopo il drammatico «incidente Cutter» del 1955, in cui vaccini prodotti in modo inaccurato causano diversi casi di polio e alcune vittime, Albert Sabin mette a punto la sua versione «a virus attenuato», che diventerà la più nota e impiegata a livello mondiale. Grazie allo sforzo congiunto di organizzazioni sanitarie internazionali e fondazioni private, le vaccinazioni di massa iniziate nella seconda metà degli anni Cinquanta consentiranno l’eradicazione della malattia nel giro di alcuni decenni da quasi tutti i continenti. Ma non la sua totale sconfitta: ancora oggi si contano non pochi casi nelle regioni rurali di Pakistan e Afghanistan.
Raccontare la storia della lotta alla poliomielite — molto americana, ricca di schermaglie scientifiche, inciampi, battaglie sociali e politiche — non è compito facile. Lo dimostra il fatto che in Italia esiste un vuoto bibliografico sul tema, almeno in campo divulgativo. Per fortuna un saggio in uscita per Codice Edizioni il 16 giugno sta per porre fine a questo silenzio. Lo ha scritto Agnese Collino, biologa molecolare e supervisore scientifico presso la Fondazione Umberto Veronesi. La malattia da 10 centesimi (pagine 336, € 19) è un volume documentato e appassionante, in grado di fornire informazioni scientifiche accurate e, al tempo stesso, tratteggiare un ritratto vivido dei protagonisti coinvolti, a partire dal presidente Franklin D. Roosevelt. Da brava divulgatrice qual è, Collino ha confezionato un libro in grado di competere con i titoli più blasonati della saggistica anglosassone.
È impossibile leggere questa storia senza fare paragoni con l’attuale pandemia. I legami, in fondo, non mancano. Fu per contrastare la grave epidemia di polio del 1952 a Copenaghen, ad esempio, che nacquero le prime unità di terapia intensiva, antenate di quei reparti che il Covid-19 ha messo sotto pressione nell’ultimo anno e mezzo. E, allora come oggi, lo sviluppo dei vaccini fu un processo delicato, durante il quale non mancarono passi falsi, incertezze e difficoltà. Non bisogna poi dimenticare che quella alla poliomielite fu anche una battaglia mediatica e popolare, ricca di iniziative (come la celebre «March of Dimes») che coinvolsero folle oceaniche e numerose personalità del tempo (da Marilyn Monroe a Ginger Rogers). Oltre a raccogliere una quantità incredibile di denaro, donato da persone di ogni estrazione sociale, queste attività portarono la malattia sotto gli occhi di tutti, rendendone familiare ogni aspetto, compresi i più tragici.
Alla luce di quanto accaduto per la polio, ci si potrebbe quindi chiedere se l’attuale pandemia, dopo aver saturato l’informazione per così tanto tempo, riuscirà a convogliare l’attenzione suscitata sulle grandi sfide sanitarie di domani, fra cui la lotta ai virus emergenti, che ancora appaiono lontani, misteriosi e sconosciuti.