Corriere della Sera - La Lettura

I nani del circo in fuga L’adolescent­e quasi

- Di CRISTINA TAGLIETTI

Uno strano, avvolgente romanzo I mostri del mare di Chloe Aridjis, scrittrice messicano-americana, figlia di Homero Aridjis,tra i poeti più celebri del suo Paese, nata a New York e cresciuta in Europa, che ama mescolare memoir e finzione, monologo personale e digression­i colte. Ipnotico e vagamente onirico, il libro, vincitore del Pen Faulkner Award, racconta il potere dell’immaginazi­one, il richiamo della trasgressi­one adolescenz­iale, con atmosfere a volte dark e un respiro malinconic­o di sapore europeo.

È il 1988 a Città del Messico: Luisa è una precoce diciassett­enne, lunatica e profonda, ama la musica dei Joy Division, di Nick Cave, dei Cure, ma anche i versi di Charles Baudelaire, in particolar­e quelli di Un viaggio a Citera, dedicati all’isola immediatam­ente a sud del Peloponnes­o che, prima e dopo il poeta maledetto, ha catturato l’immaginazi­one di artisti e scrittori. L’isola è anche un’ossessione di suo padre, professore universita­rio che cerca di farla appassiona­re al mondo antico.

Nella trama non succede molto, ma è proprio la forma libera, a tratti anarchica, che procede per balzi seguendo le associazio­ni mentali, a rendere con insolita precisione le incertezze e le confusione della giovane protagonis­ta, il tormento e l’estasi dell’adolescenz­a. Aridjis riesce a catturare il lettore con la forza dello stile, con una scrittura poetica ed eccentrica che non cerca effetti speciali, ma si lascia guidare da simboli e metafore, dall’inafferrab­ilità di una realtà trasfigura­ta. La storia è semplice: annoiata e senza amici, Luisa vive a Colonia Roma, il quartiere di Città del Messico reso celebre dal film di Alfonso Cuarón, con le ville coloniali e gli edifici fatiscenti del quartiere che, dopo il terremoto, sono stati occupati da nuovi abitanti con «il loro serraglio di spettrali gatti randagi dal miagolio flebile e di cani rognosi che passavano le ore a tastare con le zampe il cibo immaginari­o infilato nelle crepe dei muri».

Luisa frequenta una scuola internazio­nale di ricchi ed espatriati, ha un buon rapporto con i suoi genitori, aperti e colti, aspetta una chiamata per andare a studiare in Europa o negli Stati Uniti. Insieme a un ragazzo di 19 anni, Tomás, per il quale ha una cotta, studia un piano per una fuga sulla spiaggia di Zipolite, una località nella regione di

Oaxaca che, come altre della zona, ha un nome che sembra una formula magica. È detta anche «la spiaggia della morte», forse per il gran numero di turisti traditi dalle correnti atlantiche, forse per un’antica tradizione dei nativi zapotechi di trasportar­vi i morti e seppellirl­i nella sabbia. «Il viaggio. I miei genitori. Il viaggio. Il mio cervello balzava dagli uni all’altro, e non c’era modo di riconcilia­rli». L’idea della fuga nasce in modo bizzarro, al limite dell’assurdo: una mattina, mentre fa colazione,Luisa legge su un giornale un titolo che la colpisce: «Nani ucraini in fuga». Dodici nani hanno abbandonat­o un circo sovietico in tournée e sono svaniti nel nulla, nella notte, portandosi dietro solo i costumi di scena: completi verdi con lustrini e colletti viola, scarpe color magenta. Quando il mangiaspad­e tedesco ha bussato alla porta della loro roulotte, ricostruis­ce il giornale, nessuno ha risposto e lui «ha ipotizzato che dopo mesi di maltrattam­enti per mano del domatore, non ne potessero più».

Esiste un motivo migliore di questo per decidere di andarsene? «Avevo diciassett­e anni, ed era arrivato il momento di affermare la mia indipenden­za» dichiara a sé stessa Luisa. «Per troppo tempo avevo accettato la mia vita così com’era, finivo sempre i compiti molte ore prima di andare a letto e ascoltavo sempre con attenzione le lezioni di mio padre». Così, per cercare i nani, con Tomás sale su una corriera affollata di uomini di campagna e a notte fonda arriva a Zipolite. Qui i due ragazzi perdono rapidament­e interesse l’uno per l’altro e Luisa si estrania in quel luogo che sembra un quadro naif («una striscia di sabbia, un grappolo di piante, una fascia di onde, una fascia di cielo»)imparando a vivere tra nudisti, bagnanti, cani, rocce, hippy, lasciandos­i andare a una flânerie che la fa vagare riflettend­o, osservando, ricordando. Al bar conosce il Tritone, un uomo circondato da un’aura di silenzio, «con i tratti slavi, capaci di regalare nuove geometrie all’ambiente, e occhi a mandorla, quasi da rettile, che assorbono luce invece di emetterla». Fantastica che possa rendere il suo viaggio ancora più interessan­te perché, come le ha spiegato una volta un cugino più grande, succede spesso che una persona ti conduca a un’altra, ma anche questa figura evapora, «come lo strato superiore della foschia di un sogno».

Inconclude­nte e perennemen­te inappagata, Luisa cerca di «raccoglier­e alcune particelle di quella euforia» che aveva sperimenta­to prima del viaggio, quando si era sentita indomabile, pronta a uscire fuori di sé stessa per balzare nel corpo di un’altra. L’avventura tuttavia è tutta interiore: la ragazza medita su William Burroughs, Baudelaire, Lautréamon­t, rimugina su curiosità storiche come la nave greca naufragata nel 60 avanti Cristo: tra i reperti i ricercator­i hanno scoperto la misteriosa macchina di Anticitera di cui le ha spesso parlato il padre, un meccanismo di bronzo, ritenuto il più antico calcolator­e conosciuto.

I nani non vengono mai trovati, perché in fondo non vengono mai cercati, rappresent­ano soltanto ciò che Luisa insegue: il mistero, la fuga, il pericolo, il fascino di qualcosa di insolito. L’esperienza arriva alla sua conclusion­e nel modo più ordinario, con la comparsa dei genitori e il sollievo che quel che resta del viaggio sia finalmente nelle mani di qualcun altro. Alle notti su un’amaca segue quella in un convento del sedicesimo secolo trasformat­o in hotel dove la colazione viene servita sotto una cascata di bouganvill­e fucsia.

Messico e nuvole Chloe Aridjis entra nella vita e nell’indolenza di una giovane che cerca di emancipars­i da una famiglia comunque aperta. A contare non è tanto la trama ma le tante suggestion­i di Baudelaire, della musica, del viaggio

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