Corriere della Sera - La Lettura
A casa propria ci si può anche perdere
Samanta Schweblin è una scrittrice argentina che vive a Berlino e nei suoi lavori forza costantemente i confini della realtà. Nel suo nuovo volume entra in sette abitazioni: sette incursioni che diventano altrettante storie
L’avevamo conosciuta attraverso i due suoi romanzi, Distanza di sicurezza e Kentuki, pubblicati in Italia nel 2017 e nel 2019 e accolti, soprattutto il secondo, da pareri discordanti. Samanta Schweblin, scrittrice argentina di stanza a Berlino, è stata indicata nel 2010 dalla rivista «Granta» tra i migliori scrittori in lingua spagnola sotto i 35 anni: riconoscimento significativo per un’autrice che fino ad allora aveva pubblicato solo racconti. Del resto, proprio la forma breve sembra esserle più congeniale nella ricerca di «ritmo e tensione» per affacciarsi a quella che definisce «una realtà non comune».
Ma di quale realtà parliamo? Si potrebbe pensare a quella animata in maniera sotterranea, trasmutata perché ne emergano gli aspetti del non visto, del non sentito. Il mondo inventivo di Schweblin nasce certamente nel solco di una grande tradizione — ricordiamo almeno Julio Cortázar e Rulfo e le improvvise accensioni, nei risvolti dei loro scritti, di frammenti di infinita apertura — ma si muove ormai con disinvoltura in territori «di nessun dove», in cui si è già oltrepassato il fantastico per giungere, anche attraverso deformazioni e volute sproporzioni tra gli elementi, alle manifestazioni dell’umano, alle nebbie delle mente.
Se con il romanzo Kentuki ci aveva messo dinanzi alla eventualità — nemmeno tanto remota — che un tenerissimo peluche elettronico, in foggia di drago o topo, di corvo o coniglio e con una videocamera installata al posto degli occhi, governasse la nostra vita e determinasse le nostre relazioni, aprendo a forme inedite di intimità e a una gragnola di pericoli e ossessioni; e poi, in Distanza di sicurezza, veniva mostrato il rischio di superare la distanza variabile che ci separa cautamente da qualcuno, mettendoci dentro le lacerazioni di una donna ricoverata in ospedale a seguito di un corpo a corpo con i suoi fantasmi, ma che ritrova forza nel dialogo ingaggiato con un bambino che le siede accanto; è con i racconti di Sette case vuote, nell’accurata traduzione di Maria Nicola, che Samanta Schweblin rivela la sua bravura, accresciuta dalla capacità di raccontare il reale allontanandosi dal realismo. Non a caso la raccolta ha ottenuto il Premio di Narrativa breve Ribera del Duero.
Sette storie, dunque, che hanno come cardine altrettante case. Sette emergenti vicende, introdotte dai versi del poeta e scrittore cileno Juan Luis Martínez (19421993), tratti da La desaparición de una familia: «Prima che la sua bambina di cinque anni si smarrisse tra la sala da pranzo e la cucina, lui l’aveva avvertita: questa casa non è né grande né piccola, ma alla minima distrazione spariranno i segnali lungo la strada, e di questa vita, a quel punto, perderai ogni speranza». Sette vite che diventano quattordici o ventuno e si potrebbe continuare moltiplicando, assieme alle vite, fantasmi e aberrazioni. Storie che si leggono nutrendo la bella illusione di non farne parte, ma che finiscono per essere lo spietato specchio in cui non vorremmo guardarci.
C’è da dire che non tutti i racconti raggiungono la stessa efficacia, non tutti riescono nella spiazzante ellissi del vissuto per mostrare ciò che altrimenti risulta inattingibile, ma tutti chiedono di essere percorsi di nuovo, dopo una prima lettura.
La selezione si apre con una vecchia madre che costringe la figlia a girare per le case degli altri, a spiarne le vite, a guardarne i salotti, gli arredi di legno pregiato; tutti ben alloggiati, gli altri, e chissà dove trovano gli oggetti che espongono: «Sua madre è di nuovo in casa mia», protesta la donna nella cui casa la guardona entra più volte, «sua madre vuole sapere come faccio a permettermi i rivestimenti in pelle di tutti i miei divani», e così proseguendo, di violazione in violazione, fino alla sottrazione di un oggetto e all’interramento in giardino della curiosa refurtiva.
Nel racconto più riuscito, Il respiro cavernoso, un’altra anziana donna è in lotta con la sua mente, chiusa nella casa dove le sono morti il marito e, parecchi anni prima, il figlioletto ghiotto di polvere di cacao. Qui la donna aspetta la morte, la invoca, e intanto inscatola ed etichetta tutto ciò che può essere rimosso: «Le cose erano troppe ed era tutto sulle sue spalle, era logico che ogni tanto qualche particolare sfuggisse. La settimana prima aveva dovuto aprire uno scatolone di scarpe perché, in un momento di distrazione, aveva messo via tutte le scarpe di lui. E non c’erano più spazzole né pettini nei suoi cassetti del bagno. Era questo il peggio, vedersi costretta a usare il vecchio pettine di lui». Le cose, quando sono finalmente rimosse, giocano in suo favore, così come la lista breve tenuta nella tasca del grembiule, il promemoria che le ricorda di classificare tutto, di regalare quello che non serve, di imballare le cose importanti e di concentrarsi sulla morte. La sola cosa che sfugge al suo controllo, riapparendo di continuo nella dispensa, è la polvere di cacao, il cibo dei suoi morti.
Nel racconto I miei genitori e i miei figli sono i legami primigeni, nella semplicità degli aneddoti narrati, a rivelare una realtà impietosa. E gli anziani genitori di Javier sono i veri protagonisti, sebbene presentati solo attraverso lo sguardo preoccupato di lui quando i due vecchi si lanciano nudi nel giardino della sua ex moglie, e lì si rincorrono e ballano, mostrando sederi e bocche sdentante; una danza tenera e allucinata, nella quale verranno coinvolti anche i piccoli nipoti: «Temo di arrivare in giardino e di trovare i miei figli e i miei genitori insieme. No, quello che temo è che sia Marga a trovarli insieme, e temo la scenata di rimprovero che si avvicina».
In ogni racconto è presente una casa e intorno a questa si svolgono le vite, nella dispersione delle relazioni che non hanno retto agli eventi. Il filo rosso che li lega sembra essere l’atto del togliere, del levare oggetti dagli interni domestici: fare il vuoto, come il titolo suggerisce. Portare via, liberare armadi, sbrattare, inscatolare e spostare altrove, nascondere alla vista, togliersi anche i vestiti, quindi uscire dalle case in cui troppo è accaduto: Uscire è il titolo del racconto che chiude la raccolta. Le cose, ci è noto, trattengono tracce delle vite che le hanno lambite, ne diventano talvolta simulacro o simbolo, e le case racchiudono e preservano questi universi di significati e trame. Ma nel momento in cui gli oggetti smettono la funzione e non servono più, essi acquisiscono altre possibili risonanze di significato, tornano a essere cose che agiscono, come le assenze che testimoniano.
Le storie raccontate in Sette case vuote nascondono altre storie, un tema conduce a un altro per contiguità o per metafora, tra le righe affiorano legami con l’elemento irrazionale che di solito preferiamo evitare, si scoprono commerci con la natura dell’invisibilità e rinvii che non si spiegano ma che arricchiscono il reale, non lo impoveriscono. Quando la letteratura fa questo, quando rifugge il messaggio e ricrea figure immaginali che rimandano a molteplici interpretazioni e accrescono le vie della comprensione, essa recupera parte della sua essenza.