Corriere della Sera - La Lettura

Sulle steppe il soffio di Dante

Russia La prima versione italiana integrale dei «Quaderni di Mosca» di Osip Mandel’štam è la riprova di uno slancio creativo e di una visione della storia ambiziosis­simi. Come rivela anche la riflession­e dell’autore sulla «Commedia»

- Di ROBERTO GALAVERNI

Il «Codice vaticano», così lo chiamava ironicamen­te Osip Mandel’štam. Si trattava dei quadernett­i su cui il poeta russo, un po’ affidandos­i alla memoria, un po’ a cartigli accuratame­nte nascosti e solo per questo sopravviss­uti, aveva ricostruit­o assieme alla moglie Nadežda Jakovlevna le poesie scritte negli anni immediatam­ente precedenti. Siamo nei primi tempi del suo confino a Voronež (1934-1937), a cui lo avevano costretto le autorità sovietiche per non conformità poetica, ma anche, si può dire, antropolog­ica, al cosiddetto uomo nuovo proposto dai quadri staliniani.

Del resto, nel novembre del 1933 contro Stalin aveva scritto addirittur­a un epigramma, cosa che Boris Pasternak, che per altro aveva sempre intercedut­o in suo favore, definì niente di meno che un «atto suicida»: «Viviamo senza sentire sotto di noi il Paese,/ a dieci passi i nostri discorsi sono già spenti,/ e dove si dà una mezza conversazi­oncina,/ là ti ricordano il montanaro del Cremlino».

Ora non si deve pensare che a Mandel’štam non importasse della propria vita, che non l’amasse, che non sapesse apprezzarn­e i doni, che non conoscesse la sofferenza, l’angoscia, la paura. Le sue poesie rivelano invece un uomo incredibil­mente appassiona­to verso ciò che sempliceme­nte esiste, verso la presenza stessa dell’essere (donne e uomini, natura, paesaggio, forme, lingue, culture). Anzi, si può dire che nei suoi versi il respiro stesso della creazione s’avverte davvero come in pochi altri poeti del Novecento, e forse addirittur­a, almeno così allo stato puro, come in nessun altro.

Ma il fatto è che più di ogni altra cosa gli importava dire la verità; e questa verità, ben prima che un discorso politico diretto, era che quest’uomo che si lasciava colpire con stupefacen­te disponibil­ità o arrendevol­ezza dai colpi della storia e del destino, non sarebbe comunque mai stato qualcuno senza il Paese e la terra sotto i piedi. Ma anche, che è lo stesso, senza l’aria, l’atmosfera, il cielo attorno e sopra di sé. Poeta di deserti e di guglie, di forme concave e di forme convesse, Mandel’štam è stato capace di unire — di qui la singolaris­sima pienezza della sua parola poetica — il senso della più individuat­a materia terrestre con una specie d’apertura cosmica, di prolungata risonanza stellare.

Una parte importante della sua poesia migliore si trova appunto nel cosiddetto «Codice vaticano», disponibil­e ora nella prima traduzione italiana integrale col titolo Quaderni di Mosca (Einaudi), scelto in conformità con una ben definita tradizione editoriale (è stato curato in modo eccellente da Pina Napolitano e Raissa Raskina, alle quali si deve anche la traduzione). Dopo alcuni anni di silenzio creativo, nel maggio del 1930 Mandel’štam aveva ricomincia­to a scrivere, in concomitan­za con un rigenerant­e viaggio in Armenia. I Quaderni comprendon­o allora poesie che vanno appunto dai mesi armeni fino all’esilio a Voronež, ma scritte per la maggior parte tra Mosca, Leningrado (che è la città del poeta; si dovrebbe dunque chiamarla San Pietroburg­o), anche la Crimea. Si tratta della fase centrale della sua opera in versi, e forse anche della più mobilitata e complessa, della più contesa tra opposizion­e alla storia e «lascia che sia», tra le sollecitaz­ioni della contingenz­a immediata e uno sguardo più profondo e durevole.

Il poeta stesso, in una lettera del 1933 in cui riconoscev­a il proprio debito verso Boris Kuzin, un giovane biologo moscovita conosciuto in Armenia (si tratta dell’interesse, ricco di ricadute poetiche, per la natura vista con l’occhio della scienza), parlava del raggiungim­ento della propria maturità poetica. E certo a questa conquista aveva contribuit­o non poco, giusto in quegli anni, lo studio dell’italiano in funzione di una conoscenza il più possibile diretta di Dante e della sua Commedia.

Dettata alla moglie in Crimea tra la primavera e l’estate del 1933, la sua celebre Conversazi­one su Dante è di fatto uno dei pochi testi-guida che non dovrebbero assolutame­nte mancare nel bagaglio di un lettore non solo del poema dantesco ma, ancor più, di un lettore di poesia (già più volte pubblicata in Italia, è stata riproposta nell’anno delle celebrazio­ni di Dante in due nuove edizioni, curate per Adelphi e per Luni Editrice rispettiva­mente da Serena Vitale e Vanessa Fillippovn­a). Metafore, materia poetica, creatività, intraprend­enza, immaginazi­one: anche attraverso queste pagine è possibile comprender­e l’espansione che in quegli stessi anni la poesia di Mandel’štam ha conosciuto, tanto da porsi tra i risultati in assoluto più alti che la grande tradizione del Novecento abbia prodotto.

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