Corriere della Sera - La Lettura
Sulle steppe il soffio di Dante
Russia La prima versione italiana integrale dei «Quaderni di Mosca» di Osip Mandel’štam è la riprova di uno slancio creativo e di una visione della storia ambiziosissimi. Come rivela anche la riflessione dell’autore sulla «Commedia»
Il «Codice vaticano», così lo chiamava ironicamente Osip Mandel’štam. Si trattava dei quadernetti su cui il poeta russo, un po’ affidandosi alla memoria, un po’ a cartigli accuratamente nascosti e solo per questo sopravvissuti, aveva ricostruito assieme alla moglie Nadežda Jakovlevna le poesie scritte negli anni immediatamente precedenti. Siamo nei primi tempi del suo confino a Voronež (1934-1937), a cui lo avevano costretto le autorità sovietiche per non conformità poetica, ma anche, si può dire, antropologica, al cosiddetto uomo nuovo proposto dai quadri staliniani.
Del resto, nel novembre del 1933 contro Stalin aveva scritto addirittura un epigramma, cosa che Boris Pasternak, che per altro aveva sempre interceduto in suo favore, definì niente di meno che un «atto suicida»: «Viviamo senza sentire sotto di noi il Paese,/ a dieci passi i nostri discorsi sono già spenti,/ e dove si dà una mezza conversazioncina,/ là ti ricordano il montanaro del Cremlino».
Ora non si deve pensare che a Mandel’štam non importasse della propria vita, che non l’amasse, che non sapesse apprezzarne i doni, che non conoscesse la sofferenza, l’angoscia, la paura. Le sue poesie rivelano invece un uomo incredibilmente appassionato verso ciò che semplicemente esiste, verso la presenza stessa dell’essere (donne e uomini, natura, paesaggio, forme, lingue, culture). Anzi, si può dire che nei suoi versi il respiro stesso della creazione s’avverte davvero come in pochi altri poeti del Novecento, e forse addirittura, almeno così allo stato puro, come in nessun altro.
Ma il fatto è che più di ogni altra cosa gli importava dire la verità; e questa verità, ben prima che un discorso politico diretto, era che quest’uomo che si lasciava colpire con stupefacente disponibilità o arrendevolezza dai colpi della storia e del destino, non sarebbe comunque mai stato qualcuno senza il Paese e la terra sotto i piedi. Ma anche, che è lo stesso, senza l’aria, l’atmosfera, il cielo attorno e sopra di sé. Poeta di deserti e di guglie, di forme concave e di forme convesse, Mandel’štam è stato capace di unire — di qui la singolarissima pienezza della sua parola poetica — il senso della più individuata materia terrestre con una specie d’apertura cosmica, di prolungata risonanza stellare.
Una parte importante della sua poesia migliore si trova appunto nel cosiddetto «Codice vaticano», disponibile ora nella prima traduzione italiana integrale col titolo Quaderni di Mosca (Einaudi), scelto in conformità con una ben definita tradizione editoriale (è stato curato in modo eccellente da Pina Napolitano e Raissa Raskina, alle quali si deve anche la traduzione). Dopo alcuni anni di silenzio creativo, nel maggio del 1930 Mandel’štam aveva ricominciato a scrivere, in concomitanza con un rigenerante viaggio in Armenia. I Quaderni comprendono allora poesie che vanno appunto dai mesi armeni fino all’esilio a Voronež, ma scritte per la maggior parte tra Mosca, Leningrado (che è la città del poeta; si dovrebbe dunque chiamarla San Pietroburgo), anche la Crimea. Si tratta della fase centrale della sua opera in versi, e forse anche della più mobilitata e complessa, della più contesa tra opposizione alla storia e «lascia che sia», tra le sollecitazioni della contingenza immediata e uno sguardo più profondo e durevole.
Il poeta stesso, in una lettera del 1933 in cui riconosceva il proprio debito verso Boris Kuzin, un giovane biologo moscovita conosciuto in Armenia (si tratta dell’interesse, ricco di ricadute poetiche, per la natura vista con l’occhio della scienza), parlava del raggiungimento della propria maturità poetica. E certo a questa conquista aveva contribuito non poco, giusto in quegli anni, lo studio dell’italiano in funzione di una conoscenza il più possibile diretta di Dante e della sua Commedia.
Dettata alla moglie in Crimea tra la primavera e l’estate del 1933, la sua celebre Conversazione su Dante è di fatto uno dei pochi testi-guida che non dovrebbero assolutamente mancare nel bagaglio di un lettore non solo del poema dantesco ma, ancor più, di un lettore di poesia (già più volte pubblicata in Italia, è stata riproposta nell’anno delle celebrazioni di Dante in due nuove edizioni, curate per Adelphi e per Luni Editrice rispettivamente da Serena Vitale e Vanessa Fillippovna). Metafore, materia poetica, creatività, intraprendenza, immaginazione: anche attraverso queste pagine è possibile comprendere l’espansione che in quegli stessi anni la poesia di Mandel’štam ha conosciuto, tanto da porsi tra i risultati in assoluto più alti che la grande tradizione del Novecento abbia prodotto.