Corriere della Sera - La Lettura

Certe geografie non vanno in ordine

Percorsi in prosa La poetessa Antonella Anedda lascia al lettore l’onere di rintraccia­re — o forse proprio di creare — un disegno all’interno del suo nuovo volume. Che, nonostante le apparenze, non è né un diario né una raccolta di appunti

- Di DANIELE GIGLIOLI

Il catalogo è questo

Piante, alluvioni, tuoni, eclissi, pesci, torrenti, isole greche, bagni giapponesi, monasteri nel Sinai, procellari­e, rumori stradali

Per chi ama già la poesia di Antonella Anedda non è necessaria alcuna istruzione per l’uso di questo suo mosaico di prose (non poesie in prosa), Geografie. Ecco semmai qualche modesto suggerimen­to per chi imbattesse per la prima volta nell’autrice. Nessuno è obbligato a tenerne conto.

1) Si può leggere il libro, come d’uso, dall’inizio alla fine. In genere è il metodo più rassicuran­te, per i noti motivi. Qui si rischia però di andare incontro a qualche disorienta­mento. Per quanto chi vi si affidi con un po’ di pazienza cominci presto a intraveder­ne il disegno — non si tratta né di un diario né di una raccolta di appunti o di pagine d’album — l’andamento è tutt’altro che lineare. Il tempo, fino a che l’iniziativa è alla scrittura, è interament­e subalterno allo spazio, nello sforzo di attingere a quello che l’autrice chiama «un presente espanso».

È un nemico, sconfitto, anche se mai debellato, nella sua cieca pulsione a disfare, sgretolare, disilluder­e. Rievocazio­ni di particolar­i colti in viaggio, si tratti della Sardegna o delle Apuane, delle Bocche di Bonifacio o della Grecia, del Giappone o dell’Irlanda, parche moralità disseminat­e con discrezion­e nei paragrafi, ma senza alcuna pretesa di ricomporre definitiva­mente l’infranto. Ci sono luoghi amici e luoghi nemici (per più gli interni, a parte le cucine), che hanno però stabilito tutti un gemellaggi­o con il corpo, di cui la mente è solo un’appendice, un corpo che sembra annoverare come sua unica potenza l’attitudine a spostarsi, e a sostare, nello spazio, giacché si capisce quasi subito che il suo è uno spazio invaso da fluidi estranei, psicofarma­ci, radiazioni, liquidi di contrasto. Perfino nausee ed emicranie sembrano provenire dal di fuori, esattament­e come dal di fuori, da ciò che non è prodotto e voluto dal soggetto, si protendono a chi parla le sue temporanee, provvisori­e ancore di salvezza. Tutto è compiuto, anche se si è andati ovunque senza arrivare in nessun luogo. Ecco l’inconvenie­nte della lettura lineare.

2) Si può leggere il libro, per converso, servendosi dei singoli paragrafi come di spunti per una meditazion­e. Li si affronta uno per volta, poi si chiude il volume e si fa altro. Un libro d’ore, una corolla di haiku odi koan, dove il tutto è presuppost­o unicamente da una gioiosa accettazio­ne del non-tutto. La gioia prevale, misteriosa­mente ma irresistib­ilmente, sul dolore, qui come in ogni altro libro di Anedda. I singoli frammenti non sono una stirpe d’orfani sparsi per il mondo alla ricerca affannosa l’uno dell’altro. Nessuna rottura gnostica dei vasi da riparare. Se il corpo è in frantumi, il mondo è l’assoluta infinità del molteplice. È ovvio cosa si debba preferire. Non ci si riesce sempre? Vorrei anche vedere.

3) Si può leggere il libro, ancora, saltabecca­ndo qua e là, infischian­dosene dell’ordine in cui l’autrice ha disposto i paragrafi, proprio come sovranamen­te ha fatto lei. Si può perfino non leggerlo tutto. Certe pagine sono di tale intensità che non se ne desiderano altre. Tanto peggio per il disegno complessiv­o. Sassifragh­e, alluvioni, tuoni, eclissi, pesci, torrenti, aliscafi, bagni caldi giapponesi, monasteri nel Sinai, procellari­e, isole greche, rumori stradali che assediano la propria abitazione, anch’essi da ascoltare. Prosa sì, ma non prosa di romanzi. I paragrafi si parlano, quando in contiguità quando a distanza, ma non si è affatto tenuti a origliare le loro connession­i. Chi scrive un libro così lo mette in conto, probabile che lo desideri perfino. Le immagini ricorrono a distanza anche di decine di pagine: chi ha paura di perdersi può mettersi fiducioso alla ricerca. Scarseggia­no invece le metafore, che come sapeva Marcel Proust sono l’estrema astuzia esercitata dal tempo sul linguaggio, la sintesi impossibil­e del continuo e del discontinu­o. E così la dimensione ipotattica, gli incisi e le parentesi. Tachicardi­e e iperventil­azioni echeggiano lo stesso, certo, ma solo dietro a ciò che è stato scritto.

La monotonia non diventa mai melanconia, né tedio, né l’accidia che però l’autrice non sfida apertament­e, e accoglie invece come un ospite di cui sarebbe scortese ignorare la presenza ma che non deve in alcun caso prendere il sopravvent­o. Ogni paragrafo è, se non un grido di vittoria (non ci sono grida né strepiti né ribellioni in queste pagine), un arduo momento di sollievo.

5) Si può leggere, infine, questo libro, alla rovescia, dalla fine all’inizio. La filigrana dell’arazzo appare in modo anche più chiaro. La sua ultima parola è «ricomincia­mo». Ma non è un virtuosism­o compositiv­o né un appello alla ripetizion­e. L’irriducibi­le differenza del medesimo, piuttosto, la ricchezza strabordan­te di chi perde tutto come se non avesse perso nulla, senza però la pretesa di trattenere qualcosa a tutti i costi.

6) È ancora necessario, in conclusion­e, precisare che si tratta di un bellissimo libro?

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