Corriere della Sera - La Lettura
Certe geografie non vanno in ordine
Percorsi in prosa La poetessa Antonella Anedda lascia al lettore l’onere di rintracciare — o forse proprio di creare — un disegno all’interno del suo nuovo volume. Che, nonostante le apparenze, non è né un diario né una raccolta di appunti
Il catalogo è questo
Piante, alluvioni, tuoni, eclissi, pesci, torrenti, isole greche, bagni giapponesi, monasteri nel Sinai, procellarie, rumori stradali
Per chi ama già la poesia di Antonella Anedda non è necessaria alcuna istruzione per l’uso di questo suo mosaico di prose (non poesie in prosa), Geografie. Ecco semmai qualche modesto suggerimento per chi imbattesse per la prima volta nell’autrice. Nessuno è obbligato a tenerne conto.
1) Si può leggere il libro, come d’uso, dall’inizio alla fine. In genere è il metodo più rassicurante, per i noti motivi. Qui si rischia però di andare incontro a qualche disorientamento. Per quanto chi vi si affidi con un po’ di pazienza cominci presto a intravederne il disegno — non si tratta né di un diario né di una raccolta di appunti o di pagine d’album — l’andamento è tutt’altro che lineare. Il tempo, fino a che l’iniziativa è alla scrittura, è interamente subalterno allo spazio, nello sforzo di attingere a quello che l’autrice chiama «un presente espanso».
È un nemico, sconfitto, anche se mai debellato, nella sua cieca pulsione a disfare, sgretolare, disilludere. Rievocazioni di particolari colti in viaggio, si tratti della Sardegna o delle Apuane, delle Bocche di Bonifacio o della Grecia, del Giappone o dell’Irlanda, parche moralità disseminate con discrezione nei paragrafi, ma senza alcuna pretesa di ricomporre definitivamente l’infranto. Ci sono luoghi amici e luoghi nemici (per più gli interni, a parte le cucine), che hanno però stabilito tutti un gemellaggio con il corpo, di cui la mente è solo un’appendice, un corpo che sembra annoverare come sua unica potenza l’attitudine a spostarsi, e a sostare, nello spazio, giacché si capisce quasi subito che il suo è uno spazio invaso da fluidi estranei, psicofarmaci, radiazioni, liquidi di contrasto. Perfino nausee ed emicranie sembrano provenire dal di fuori, esattamente come dal di fuori, da ciò che non è prodotto e voluto dal soggetto, si protendono a chi parla le sue temporanee, provvisorie ancore di salvezza. Tutto è compiuto, anche se si è andati ovunque senza arrivare in nessun luogo. Ecco l’inconveniente della lettura lineare.
2) Si può leggere il libro, per converso, servendosi dei singoli paragrafi come di spunti per una meditazione. Li si affronta uno per volta, poi si chiude il volume e si fa altro. Un libro d’ore, una corolla di haiku odi koan, dove il tutto è presupposto unicamente da una gioiosa accettazione del non-tutto. La gioia prevale, misteriosamente ma irresistibilmente, sul dolore, qui come in ogni altro libro di Anedda. I singoli frammenti non sono una stirpe d’orfani sparsi per il mondo alla ricerca affannosa l’uno dell’altro. Nessuna rottura gnostica dei vasi da riparare. Se il corpo è in frantumi, il mondo è l’assoluta infinità del molteplice. È ovvio cosa si debba preferire. Non ci si riesce sempre? Vorrei anche vedere.
3) Si può leggere il libro, ancora, saltabeccando qua e là, infischiandosene dell’ordine in cui l’autrice ha disposto i paragrafi, proprio come sovranamente ha fatto lei. Si può perfino non leggerlo tutto. Certe pagine sono di tale intensità che non se ne desiderano altre. Tanto peggio per il disegno complessivo. Sassifraghe, alluvioni, tuoni, eclissi, pesci, torrenti, aliscafi, bagni caldi giapponesi, monasteri nel Sinai, procellarie, isole greche, rumori stradali che assediano la propria abitazione, anch’essi da ascoltare. Prosa sì, ma non prosa di romanzi. I paragrafi si parlano, quando in contiguità quando a distanza, ma non si è affatto tenuti a origliare le loro connessioni. Chi scrive un libro così lo mette in conto, probabile che lo desideri perfino. Le immagini ricorrono a distanza anche di decine di pagine: chi ha paura di perdersi può mettersi fiducioso alla ricerca. Scarseggiano invece le metafore, che come sapeva Marcel Proust sono l’estrema astuzia esercitata dal tempo sul linguaggio, la sintesi impossibile del continuo e del discontinuo. E così la dimensione ipotattica, gli incisi e le parentesi. Tachicardie e iperventilazioni echeggiano lo stesso, certo, ma solo dietro a ciò che è stato scritto.
La monotonia non diventa mai melanconia, né tedio, né l’accidia che però l’autrice non sfida apertamente, e accoglie invece come un ospite di cui sarebbe scortese ignorare la presenza ma che non deve in alcun caso prendere il sopravvento. Ogni paragrafo è, se non un grido di vittoria (non ci sono grida né strepiti né ribellioni in queste pagine), un arduo momento di sollievo.
5) Si può leggere, infine, questo libro, alla rovescia, dalla fine all’inizio. La filigrana dell’arazzo appare in modo anche più chiaro. La sua ultima parola è «ricominciamo». Ma non è un virtuosismo compositivo né un appello alla ripetizione. L’irriducibile differenza del medesimo, piuttosto, la ricchezza strabordante di chi perde tutto come se non avesse perso nulla, senza però la pretesa di trattenere qualcosa a tutti i costi.
6) È ancora necessario, in conclusione, precisare che si tratta di un bellissimo libro?