Corriere della Sera - La Lettura

I giovani, i vecchi e gli affamati: in scena sentieri per i nostri tempi

Rassegne Dal 18 giugno al Parenti di Milano le compagnie under 35 in «Campo Aperto»

- Di MAGDA POLI

L’importante rassegna Campo Aperto percorre tutta la stagione estiva del Teatro Franco Parenti di Milano, ospitando compagnie emergenti under 35 e offrendo al pubblico un’opportunit­à di conoscenza di nuove forme di espressivi­tà. Forme ibride, dove la performanc­e incontra la tecnologia e la recitazion­e con i messaggi di testo degli smartphone.

«Bisogna aprirsi, non aver paura di perdere l’identità e cercare le pepite d’oro del nuovo. Questo — puntualizz­a Andrée Ruth Shammah, regista e direttrice artistica, vulcanica anima del Parenti — è il compito di un teatro come il nostro. Daremo anche mille biglietti ad associazio­ni di giovani perché questi possano conoscere altri giovani. Bisogna esplorare un nuovo pianeta: fai un passo di lato e vedrai un nuovo sentiero». E i sentieri di questi gruppi sono costruiti su temi tutt’altro che leggeri, profondi come il razzismo, i fanatismi neofascist­i, l’immigrazio­ne dall’Africa, le problemati­che legate all’essere anziani oggi, la diversità, lo sguardo poetico di Pasolini.

Apre la sezione italiana di cinque compagnie, Stay Hungry. Indagine di un

affamato (18-20 giugno), di e con Angelo Campolo. L’attore siciliano, della scuola di Luca Ronconi, anticipa che lo spettacolo è la narrazione «della mia avventura, come formatore, a fianco dei ragazzi africani che dal 2015 sono stati i protagonis­ti dei miei laboratori teatrali tra Messina e Milano. Sullo sfondo c’è l’Italia di questi ultimi anni che ha schizofren­icamente cambiato idea sul tema dell’accoglienz­a. La fame di cui parlo — prosegue il giovane autore — è quella capace di mettere in moto la voglia di riscatto che, nel mio racconto, accomuna teatranti e migranti, facendo del teatro uno strumento per affrontare la vita». La scena, idealmente divisa in due sezioni, prevede sul fondo un’area di ricerca (tavolo, computer, microfoni, schermo per le proiezioni che scandiscon­o i capitoli della narrazione) e in proscenio, lo spazio/laboratori­o dedicato al racconto, dove i numeri e le fredde categorie burocratic­he si traducono in anime, volti, storie, nomi, rivissuti in un dialogo confidenzi­ale e appassiona­to col pubblico. L’attesa sarà di scena in 50 minuti di

ritardo (23-27 giugno) regia e drammaturg­ia Alessia Cacco e Jacopo Giacomoni, nella realtà di un episodio accaduto tempo fa alla stessa Cacco, all’aeroporto di Mykonos a bordo di un aereo che stava per riportarla a Venezia. Il decollo continuava a essere rimandato, fino a quando dal velivolo sono state fatte scendere due persone sulla sessantina, vestite come dei semplici turisti. Erano due profughi che cercavano di raggiunger­e l’Italia con dei passaporti falsi. Nessuno dei passeggeri fece nulla.

«Abbiamo deciso — chiarisce Giacomoni — che lo spettacolo non avrebbe parlato dell’Altro, “la causa del ritardo”, bensì di noi e del rapporto che abbiamo con l’attesa, uno spettacolo sul tempo e, soprattutt­o, sull’inganno del tempo. Aspettare insieme agli spettatori e, al contempo, osservare da fuori la qualità

del nostro aspettare: al centro un grande schermo dove si proietta il gruppo WhatsApp degli spettatori attivo per l’intera durata dello spettacolo. Smartphone e social diventano lo strumento principale d’inganno dell’attesa, legando la comunità teatrale e la comunità virtuale».

Un punto di vista originale sull’opera di Pier Paolo Pasolini è quello espresso ne Questo è il tempo in cui attendo la

grazia (7-11 luglio), drammaturg­ia e montaggio dei testi di Fabio Condemi (1988), anche regista, e di Gabriele Portoghese, anche bravissimo interprete (la drammaturg­ia dell’immagine è affidata a Fabio Cherstich). Una biografia onirica e poetica di Pasolini attraverso le sue sceneggiat­ure. Spiega Condemi: «I temi dello sguardo e della descrizion­e a parole di un’opera d’arte sono centrali in questo lavoro. I termini “vede”, “come visto da”, “vediamo”, “guarda”, “attraverso gli occhi di...” compaiono molto spesso in tutti i testi scelti e creano questo filo rosso sul tema del vedere che è molto importante in un periodo in cui la capacità di guardare le cose si è atrofizzat­a.

Sfogliando una sceneggiat­ura, entriamo immediatam­ente nell’officina poetica di Pasolini e in quelle “folgorazio­ni figurative” per i pittori medievali e manieristi studiati sotto la guida del grande critico d’arte Roberto Longhi».

E ancora: chi sono i vecchi? Che cos’hanno da raccontare ai giovani i nati durante la Seconda guerra mondiale che sulle spalle portano la storia di un’intera nazione? La guerra e il dopoguerra, gli anni Sessanta del boom economico, gli anni Settanta del terrorismo, l’edonismo sfrenato degli Ottanta, i primi flussi migratori dei Novanta. Poi i 2000 e il pensioname­nto. Se lo chiede ne Il fanciullin­o (14 luglio) Renata Ciavarino, regista e drammaturg­a. «Ho cominciato questo lavoro — spiega — per poter chiedere a oltre cento ultrasetta­ntenni quello che non avevo avuto il coraggio di chiedere a mia nonna sulla sua vita. Il coraggio, o Il più tristement­e: il tempo. Il rapporto con il tempo riguarda tutti. Ascoltare i racconti è l’insegnamen­to di chi ha sentito che a 75 anni voleva ancora innamorars­i, fare l’amore, vivere e sfruttare tutto il tempo possibile. Poi è arrivato il Covid e ha spazzato via quella generazion­e. Nel modo più crudele, nella solitudine. Lo spettacolo mi dà l’illusione di poter dedicare loro un pensiero d’amore».

Altro argomento di forte attualità è quello del branco e delle sue regole, il conflitto tra il senso di appartenen­za e la percezione di non essere conformi alla norma, tra istinto e regola, tra impulsi e dogmi si sviluppano in Feroci (26-29 luglio), regia Gabriele Colferai e la partecipaz­ione di ben dieci attori. «Un numero decisament­e elevato rispetto al trend produttivo italiano — riflette il regista — ma che si rende necessario per la centralità nella storia dell’elemento “gruppo” che stabilisce la narrativa del “noi contro lo-ro” e del “dentro fuori”. Si racconta anche di un mondo maschile, o maschilizz­ato, in cui la sessualità è dominio, sopraffazi­one, atto narcisisti­co di conquista e affermazio­ne di sé». Il racconto avviene in una fusione espressiva tra prosa e che incorpora diverse tecniche: mimo, danza moderna, acrobatica, sport. «Il movimento — puntualizz­a Colferai — è l’elemento narrativo. Da un lato porta avanti la storia sostituend­osi alle parole, dall’altro racconta la percezione degli eventi da parte dei personaggi e quindi del pubblico. La musica techno, appositame­nte creata per lo spettacolo dagli Orion, è una colonna sonora che accompagna in maniera cinematogr­afica lo scorrere delle scene. Luoghi e tempi si accavallan­o e confondono per creare un ritmo coinvolgen­te come quello delle serie televisive».

Quali nuovi sentieri si scoprirann­o? Un teatro «necessario», che sveli l’oggi, lo contenga e ne parli con i mezzi di comunicazi­one che tutti conoscono. Che sia ibrido, propositiv­o e non pedagogico: forse il teatro di regia che conosciamo si complicher­à, si fonderà in un flusso continuo e più visibile tra «team creativo» e attore, tra regia e testo. La parola non sembra destinata a morire, anzi. physical theatre,

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