Corriere della Sera - La Lettura
In una cordigliera il curriculum del Cile
Documentari Pur vivendo in esilio da 47 anni dopo essere sfuggito al golpe di Pinochet, il regista Patricio Guzmán racconta il suo Paese. «Lavorare sul passato aiuta a incorporarlo nel presente»: qui racconta il suo nuovo cimento
«Un Paese che non ha cinema documentario è come una famiglia senza album di fotografie». Patricio Guzmán a vent’anni si immaginava scrittore. Aveva pubblicato qualche racconto, un primo romanzo breve. Poi l’incontro con alcuni amici e una cinepresa in Super8 e la fascinazione di un pugno di opere — Notte e nebbia di Alain Resnais, Europa di notte di Alessandro Blasetti , Le temps du ghetto e Mourir à Madrid di Frédéric Rossif, L’Amérique vu par une Français di François Reichenbach — lo spinsero verso la drammaturgia della realtà.
Il suo film più recente, La cordigliera dei sogni, passato a Cannes 2019, terzo capitolo di una trilogia composta da Nostalgia della luce e La memoria dell’acqua (Orso d’argento alla Berlinale 2015), è appena arrivata nelle sale italiane, distribuita da I Wonder Pictures. Una sintesi della sua idea di cinema. «Queste montagne immense, il cuore del progetto, sono diventate per me metafora dell’immutabile, di ciò che abbiamo lasciato e di ciò che continua a vivere con noi quando pensiamo che sia tutto perduto. Immergermi nella Cordigliera mi consente di nuotare nei miei ricordi. Quando scruto le ripide vette o mi tuffo nelle valli profonde, inizio un viaggio introspettivo che rivela parzialmente i segreti della mia anima cilena». Il regista — che ha lasciato il suo Paese nel 1973 dopo il golpe di Pinochet, e l’arresto e la detenzione con migliaia di altri prigionieri all’Estadio Nacional di Santiago — è al lavoro per un nuovo capitolo del suo racconto sul Cile, come racconta a la lettura.
Perché la Cordigliera?
«Passa di fronte a Santiago, è alta 4 mila metri, un grande un muro accanto alla città. Una frontiera variabile, di stagione in stagione, che ti trovi a osservare per tutta la vita. Per molti resta un territorio sconosciuto ma una presenza costante che non puoi mai dimenticare. Il Cile è un luogo di montagne, il sole sorge più tardi che in altri Paesi, deve scalvare rocce, rilievi. Siamo dominati da un senso di lontananza che ci connota. È un’altra America Latina. Ho pensato che la bellezza misteriosa e imperiosa di questa montagna poteva essere il fondale di un film e ho iniziato a riunire gli elementi su Santiago e sulle cose che mi stanno a cuore. Non tanto sulla storia della città, quanto sugli anni della dittatura».
Nel film, accanto a immagini spettacolari di natura, compaiono uomini e donne che sono segnati da quella storia, come lo scultore Francesco Gazitúa, lo scrittore Jorge Baradit, la musicista Javiera Parra, nipote di Violeta.
«Ho incontrato persone che erano state in carcere, hanno subito torture, sperimentato vent’anni di repressione. Tutti mi hanno aiutato a trovare la chiave giusta. È stato fondamentale l’incontro con un cineasta, Pablo Salas, che ha filmato tutto, come un vigilante dell’immagine della città».
Lei abita in Francia, ha lasciato il Cile 47 anni fa e lo ha raccontato in 20 film.
«Dal 1973 ho vissuto a Cuba, in Venezuela, negli Stati Uniti, in Germania, molti anni in Spagna e alla fine mi sono fermato in Francia. La mia vita è un esilio continuo e non credo che cambierà. Quello che mi ha mantenuto vivo e ottimista è il ricordo del Cile. Ho fatto molti film sul mio Paese, è vero, mi piace guardarlo da fuori. La distanza offre maggiore prospettiva. Forse, se fossi rimasto a Santiago, avrei fatto film su Lima o Buenos Aires».
È stato il testimone negli anni Settanta dell’ascesa e caduta del governo di Salvador Allende. Lo ha raccontato in un’altra trilogia, «La battaglia del Cile». E poi ci è tornato con «Cile, la memoria ostinata», «Il caso Pinochet» e «Salvador Allende». Cos’è per lei la memoria: un’ossessione, una necessità, un obbligo?
«Credo che lavorare sul passato non serva tanto a ricordarlo, quanto a incorporarlo nel presente perché è, in qualche modo, una rappresentazione della nostra identità, come un curriculum vitae .Il passato non se ne va, è come gli anni dell’infanzia, ricordi che non si cancellano. Da noi ci sono persone che non vogliono parlare della dittatura ma la ricordano comunque. In quanto a me, al momento della rivoluzione pacifica di Allende, la volli filmare. Il Cile cambiò, si trasformò in un Paese allegro e vitale, con la gente per le strade, nascevano nuove professioni e attitudini, c’era un ottimismo debordante. Un Paese in festa, fu una lunga domenica durata tre anni. Io avevo pronte delle sceneggiature di finzione ma di fronte a questa realtà pensai che la cosa più interessante fosse andare per le strade e filmare».
Non ha più smesso.
«Sì. Il documentarista per me è una persona che osserva sempre, sta costantemente creando con gli occhi tutto: persone, oggetti, città, oceani. Non smetti mai di esserlo, per questo mi piace. Quando non giri guardi, preferisco guardare che scrivere. Però scrivo sceneggiature, mi aiutano a sostenere lo sguardo».
Il cinema del reale vive un boom di popolarità.
«È vero, ora è anche più facile trovare finanziamenti. E siamo passati dalle sezioni secondarie a quelle principali dei grandi festival internazionali. È successo di pari passo con la crisi del cinema di finzione, inaridito dalla ripetitività. Ma il cinema del reale non può competere quello di finzione, non è quello il suo terreno. La nostra forza è la libertà di muoversi leggeri. Siamo un gruppo di persone guidate dal proprio sguardo. Ho molti amici tra i documentaristi europei, come il vostro Gianfranco Rosi, ci teniamo in contatto ma siamo tutti persone abbastanza solitarie. Il nostro è un mondo discreto, quasi occulto».
Il Cile sta facendo i conti con il suo passato?
«Più di quanto immaginassi. Me ne sono accorto ai tempi de La memoria dell’acqua. Ho notato che stava uscendo dalla sua amnesia. Le nuove generazioni erano molto più interessate al destino dei prigionieri, delle vittime o degli esiliati».
Vede altri cambiamenti in atto?
«Il Cile è attraversato da movimenti sociali importanti. Una ribellione spontanea nuova senza leader precisi, che non si riconosce in partiti politici. È successo in altre parti del mondo ma in Cile più forte, coinvolge tra uno e due milioni di persone, è una mobilizzazione collettiva che vuole cambiare il Paese. Finalmente è arrivato il momento di cancellare la dittatura di Pinochet, e dopo trent’anni, trovare la strada verso una nuova Costituzione per una società più libera e creativa».
In una scena da «La cordigliera dei sogni», vediamo i resti della sua casa di famiglia a Santiago. La sentiamo dire che vorrebbe ricostruirla e ricominciare da capo. E al suo Paese augura di recuperare «infanzia e allegria». È ottimista?
«Dopo poco tempo dalla fine del film è iniziato questo movimento. Trovo bello seguire la storia di un Paese, è come seguire la crescita di un albero».
Troverà modo di raccontarlo?
«Sì. Sto girando un film sui giovani cileni, soprattutto donne. La prima parte 4 mesi fa a Santiago e tra 2 mesi dovrei tornarci per finirlo. È un movimento misterioso, non si sa bene cosa pensino. Ma il loro sguardo ottimista è una grande motivazione. La storia è una materia che è dentro e fuori e di noi. Non sappiamo dove vada. Ma è un cammino umano splendido. Lo spirito di ogni persona è pieno di passato, presente e futuro. Questo è quello che conta. E mi interessa raccontare».