Corriere della Sera - La Lettura
La barbarie di Omero
Da ragazzina, quando studiai l’Iliade al ginnasio, rimasi folgorata dalla sua brutalità. Per la prima volta la poesia, così musicale e luminosa, mi dimostrava di poter esprimere il fondale più cupo e rabbioso degli uomini e degli dei. Scrivo «uomini» e «dei» perché le imprese cantate da Omero appartengono esclusivamente al maschile. Eppure la rabbia, la competizione, la sete di vittoria sono anche femminili, e mi riguardavano.
Ricordo di aver tifato per Ettore, immedesimandomi in lui. Mi piaceva ascoltarlo parlare in quel suo modo elevato, saggio, e poi sentire il suo urlo disumano un istante prima di gettarsi in battaglia. Certo, anche Achille mi tentava: la sua forza, il suo orgoglio. Lo immaginavo bellissimo e capriccioso, con quel fascino infantile che su un adolescente fa sempre breccia. Di calarmi nei panni di Andromaca, Ecuba, Briseide, neanche a parlarne: mi sarebbe stato impossibile. Loro, semplicemente, non esistevano.
Piangenti, consenzienti, ubbidienti, disperate. Relegate sullo sfondo come spettri di contorno, le donne dell’Iliade non potevano esercitare alcun fascino su di me. Era solo un dettaglio che io fossi femmina come loro, non maschio come gli eroi di cui con l’immaginazione vestivo le armi. Avevo 14 anni, volevo mangiarmi il mondo. Il corpo contava poco, quasi nulla rispetto allo spirito. Quindi ero Ettore, a volte Achille. La loro smania di farcela, la loro gioia spudorata nell’usare il corpo per varcare un limite, erano le stesse che provavo io.
Ho impiegato più di vent’anni a capire che avevo un altro corpo, un’altra storia. E che i protagonisti dei poemi omerici non mi avrebbero mai accolta tra loro, intorno al fuoco, a discutere di strategie militari. Di quelle come me facevano scempio; mi avrebbero presa e fatta schiava, senza domande o cerimonie. E io non avrei neppure potuto pensare che fosse ingiusto, perché era così e basta. Persino Omero, il primo autore della letteratura occidentale, leggendario o realmente esistito, era comunque un maschio. In quanto donna ero fregata, tagliata fuori da qualsiasi possibilità di parola e di protagonismo.
Per diverso tempo, crescendo, ho fatto finta di niente. Ero nata tre millenni dopo quelle donne rapite, contese, obbligate a «filare la tela», «a portare l’acqua che sgorga». Ormai era mio diritto compiere scelte liberamente e dedicarmi alla mia più grande passione, la letteratura, come se Omero fosse un archetipo senza sesso che andasse bene per maschi e per femmine. Solo successivamente, e con sofferenza, ho dovuto prendere atto che le Andromache, le Ecube, le Briseidi erano continuate fino a me, di madre in figlia, nel retro della storia, nell’ombra e nella schiavitù. Volente o nolente, le contenevo. Dovevo farci i conti. Era inutile voltarmi dall’altra parte e trattarle come retaggi preistorici. Se affilavo bene gli occhi — nei fischi per strada alle ragazze, negli stupri quotidiani, nella disparità lampante in famiglia e sul posto di lavoro — Andromaca, Ecuba, Briseide erano ovunque intorno a me. E io ero una di loro.
Fa male ammettere di appartenere alla categoria delle vittime.
Sono cresciuta con la convinzione di dover combattere ogni forma di discriminazione, ma i discriminati erano sempre gli altri: altre etnie, altre religioni, altri orientamenti sessuali, le disabilità. Certo, le donne potevano essere discriminate in Paesi lontani, in altre culture. Ma non dubitavo, studiando l’Iliade el’ Odissea, di essere libera allo stesso modo dei miei compagni di classe. E passavo sopra alle numerose accuse di essere «una donnicciola» rivolte ai soldati nei loro momenti di fragilità perché certo io non potevo essere «una donnicciola»: ero Ettore, lo ribadisco, forse Achille.
Anni dopo, all’epoca del mio esordio letterario, portai avanti questa convinzione senza interrogarla, senza problematizzarla, come fosse un blocco di marmo. In un’intervista mi definii «scrittore» anziché «scrittrice» perché «la letteratura non ha sesso». Già, peccato che la parola «scrittore» un sesso ce lo avesse, e non era il mio.
Ma io mi ero formata attraverso una letteratura scritta da maschi, l’avevo fatta mia, mi ero sempre immedesimata con i maschi perché certo non potevo riuscirci con donne che erano solo madri o solo figlie o solo mogli. Come Andromaca, «la splendida», che esiste solo se esiste il suo Ettore e, pur di non perderlo, lo implora: «Ti distruggerà questa furia di lotta, e non ti fa/ pena né questo tuo figlio bambino, né io che altra vita non ho:/ presto io sarò la tua vedova; presto ti massacreranno/ gli Achei, tutti contro di te; e per me quanto meglio sarebbe/ morire quel giorno che t’avrò perduto, perché altro calore / non sentirò più, quando tu incontrerai la tua sorte». Sporgermi sull’orlo del cratere e guardare in faccia l’ingiustizia gigantesca che da Omero arrivava fino a me non era facile per niente.
C’è voluto un lento scavo, un percorso faticoso di accettazione per comprendere che quelle come me — le donne — la storia l’hanno retta nelle interiora e nelle fondamenta. Lavorando come muli, partorendo, incassando colpi, urti e assedi con il loro corpo fino alla consunzione. Lontane anni luce dalla gloria immortale degli uomini, che quel corpo lo sfogavano nella lotta, nel sesso, per poi abbandonarlo felicemente e restare nelle poesie e nei racconti. Loro soli. Come se le donne fossero condannate al buio delle cantine e delle stanze nuziali, dei capannoni e delle sale parto, sotto il linguaggio, sotto il sogno, sotto terra.
Capire questo, prenderne atto non solo come dato storico, ma come dato mio, è stata per me una delle imprese del divenire adulta. Sentire forte e chiara la necessità di cambiare le cose, una delle cognizioni fondamentali della mia persona.
Ma torniamo all’Iliade e al suo proemio. Già al verso 30 troviamo uno spaccato limpido della condizione femminile: «E lei non la libero, no», grida Agamennone a Crise, giunto da lui per implorare la restituzione della figlia rapita. «Prima dovrà farsi vecchia/ nella mia casa, là ad Argo, lontano dalla sua patria,/ schiava costretta al telaio, costretta a venirmi nel letto».
Se escludiamo la Musa a cui si rivolge l’aedo nel primo verso — dea che comunque non ha voce, ispira soltanto e risponde ubbidiente a un bisogno di Omero — la prima comparsa di una donna nel poema coincide con una merce di scambio. Criseide passa di uomo in uomo, alla stregua delle armi, delle monete. Oggetto tra gli oggetti, bottino di guerra, si differenzia dalle altre cose solo perché viva. Ma la vita non fa di lei una creatura, e i pensieri e i sentimenti che non può esternare non fanno di lei una persona.
A una donna è concesso un rigido e scarno elenco di azioni: può pregare gli dei, bisbigliare insieme alle altre donne, piangere e battersi il petto per un uomo caduto in battaglia, lavare e ungere di olii un guerriero sporco di sangue al rientro da una carneficina. Può e deve generare figli, allattarli e crescerli. Può e deve tessere. Occuparsi delle dimore. Deve assolutamente cedere il suo corpo al piacere dell’uomo — «cedere», non «concedere», perché il consenso non è nemmeno lontanamente contemplato.
Io contemplo questo silenzio colossale, invece, questa prigione in cui sono confinate le donne. Non sappiamo niente di loro. Non hanno alcun rilievo. Persino Elena, «la donna divina», è solo un trofeo senza carattere né desideri. Sono tutte semplici funzioni a cui viene negata qualsiasi curiosità e compassione. Loro ne provano, sì. Si struggono per i mariti, i padri, i figli. Li interrogano, li amano. Ma chi si strugge per loro? Chi le ama? Nessuno.
Eppure tutti le vogliono. E io non riesco a non provare stupore constatando che, sebbene nell’Iliade le donne contino pochissimo, una guerra di dieci anni si scatena per loro. Loro sono il perno, muto e fragile, intorno a cui ruota la furia maschile.
Due capisaldi del pensiero (non solo) occidentale, due pietre angolari che hanno acceso dibattiti e passioni per la loro «visione ideologica» o addirittura la loro «violenza ideologica» (gli studi classici non se la passano molto bene in America, per esempio, come raccontiamo a pagina 20). E poi due scrittrici, l’americana Marilynne Robinson e Silvia Avallone, che con quei capisaldi si confrontano e si battono. Sono passati secoli e millenni, ma la storia resta attuale
La guerra di Troia nasce dalla contesa di una donna bellissima, la regina Elena «abito lungo», e dal capriccio di dee altrettanto belle e per giunta maliziose. Tra Agamennone e Achille si accende una lite furiosa a causa della schiava Briseide «bel viso». Che siano dee, regine o schiave, la sostanza non cambia. Gli epiteti che le descrivono riguardano tutti e solo la bellezza dell’aspetto. Il comun denominatore della loro condizione è l’impotenza. Il potere del femminile è uno solo: essere desiderate.
A questo proposito, esemplare risulta l’inganno di Era, la regina di tutte le dee, la più potente in assoluto, ma che, in fin dei conti, ha ben poca libertà. Per sviare l’attenzione del marito dalla guerra e intervenire in aiuto degli Achei non trova altre possibilità che sedurlo: «Allora si chiese fra sé, la dea Era occhi grandi:/ come stregare la mente di Zeus armato dell’ègida?/ E questo, in cuor suo, le parve il piano migliore:/ farsi più bella, salire sull’Ida, e vedere se Zeus/ fosse tentato di unirsi con lei, di abbracciarla in amore,/ così da potergli versare un placido, tiepido sonno/ sopra le ciglia, sopra i tenaci pensieri».
Per quanto le donne possano esercitare la seduzione, questa resta un potere passivo, nonché per loro stesse letale. Non dipende da loro, non è un merito né una scelta. È solo la bellezza di cui il caso le ha dotate, la giovinezza di un attimo. A volte, una sciagura.
Elena arriva, in un momento di disperazione, a definirsi «faccia di cagna» per avere causato tante vittime e dolore a causa della sua bellezza. «Meglio avrei fatto a morire quando ho seguito fin qui/ tuo figlio», dice al suocero Priamo, «e ho lasciato il mio letto e gli amici/ e la figlia carissima e le compagne che amavo./ Ma non è andata così. Per questo mi struggo nel pianto». Poco la consolano le parole che riceve in risposta: «Non tua è la colpa, hanno colpa gli dèi». Perché è dal principio dei tempi che la colpa viene attribuita alle carni che scatenano il desiderio.
Per arrivare a possederle, gli uomini si massacrano. Certo, anche per la gloria. Ma grattando via la patina delle gesta eroiche, del coraggio che gli aedi canteranno per l’eternità, resta un corpo di donna come detrito irriducibile, preda e causa della peggiore violenza. E io non riesco a non intravedere, nel fondo di queste contese brutali, un grumo animale: il regredire alla lotta biologica
L’Iliade è un poema di bellezza spaventosa, un’opera d’arte scritta da uomini che testimonia brutalmente la condizione femminile. Ho ritrovato la sua barbarie in ogni femminicidio, in ogni donna abusata
tra maschi per accaparrarsi la femmina feconda. L’imperio della natura al suo minimo, vuota di qualsiasi parola. Pura sopravvivenza, pura continuazione delle specie che, per avverarsi, deve incidere un ventre femminile.
Achille stupra Briseide, dove lo stupro non è crimine né arma di guerra, bensì azione quotidiana, ovvia. Poi, quando Briseide gli viene portata via per essere data ad Agamennone, la piange. Come un bambino a cui è stato sottratto un gioco. Come un uomo che ha perso una cosa preziosa. Anche, in parte, come una persona che si è affezionata a un’altra persona. Ma nulla ha a che vedere, questa affezione, con i pianti disperati per la perdita di Patroclo, per l’amicizia fraterna con lui. Solo per altri uomini si può provare ammirazione, empatia, rispetto. E siccome non riesco a concepire un bene — che sia amore o amicizia — senza ammirazione e rispetto, devo prendere atto anche di questo: che le donne non sono state amate mai.
Le più fortunate risultano paragonabili a fiori meravigliosi che invitino le api a impollinarli. Perché questo è il ruolo che la natura ha loro imposto: di essere luoghi dove si transita, di passaggio tra una generazione e l’altra; dove un seme viene nascosto affinché possa germogliare e uscire. Là fuori, nel mondo. Intanto le donne restano dentro. E non nascono mai.
Se tutto questo appartenesse al IX secolo avanti Cristo e fosse solo acqua passata, si studierebbe con l’incredulità che circonda i sacrifici umani, i roghi di streghe, le torture medievali o l’olocausto. Purtroppo, come si impara uscendo da scuola e cominciando a esplorare l’attualità, nessun orrore del passato è mai finito. A volte si è spostato di latitudine, a volte si è nascosto meglio. Ma la violenza sistematica degli uomini sulle donne è ancora così presente in tutto il mondo, in pratiche lampanti — infibulazioni, spose bambine, negazione del diritto all’istruzione — o più subdole — disparità di salario e di congedi parentali, una cultura fortemente mercificatoria del corpo femminile — che oggi, millenni dopo, l’Iliade continua a parlarci.
Che cos’ha fatto la società in cui sono cresciuta, se non suggerirmi sottovoce, in tono suadente e insistente, di diventare una bella Elena? Di prendere le mie energie e i miei desideri e di piegarli a questo obiettivo? Confor
marmi al desiderio maschile, insinuando che più ci sarei riuscita più avrei avuto valore.
Eccola, la parola esatta che connota le donne: non potere, ma valore. Ecco la nostra missione: piacere. Siamo noi quelle invitate a vestirci in un certo modo, a scoprirci per attirare e poi a coprirci una volta scelte. Noi quelle chiamate a mantenersi giovani. A tacere e a farsi da parte, a stare buone al proprio posto. Come accade ad Andromaca quando, dopo avere ricevuto parole di premura dal marito, le viene seccamente ordinato: «Ma adesso va’ a casa, e pensa al mestiere che è tuo,/ telaio e conocchia; e da’ istruzioni alle serve,/ che facciano il loro lavoro. Alla guerra dovranno pensare/ gli uomini, tutti, e io sopra tutti, fra quanti nacquero a Ilio».
Siamo noi quelle giudicate prima di parlare, confinate nella gabbia del proprio corpo, negli stereotipi dell’aspetto esteriore. Quanta fatica dobbiamo impiegare, ancora oggi, per poter lavorare e ribellarci alla parola
madre, alla parola moglie, alla parola figlia? Per non dipendere economicamente e culturalmente da un uomo?
La Storia è uno scandalo, lo ha scritto Elsa Morante nel romanzo che comincia, non a caso, con una donna violentata a Roma da un soldato tedesco durante la Seconda guerra mondiale. Dal IX secolo avanti Cristo al 1942 dopo Cristo è cambiato molto, ma un nucleo barbaro di prevaricazione e scempio persiste. La me che a vent’anni si definiva per leggerezza «scrittore» voleva fuggire da questo nucleo, essere libera di pensare, parlare e scrivere come lo erano i maschi. Non volevo essere Elena, volevo essere Ettore. Ed è stupefacente che, passati tutti quei millenni, grazie alle battaglie di tante donne che mi avevano preceduta, io mi ritrovassi istruita, con diritto di voto, con diritto a scegliermi un fidanzato anziché esserne scelta, ma, comunque, ancora alle prese con un’ingiustizia radicale. Ancora spinta, per tentare una parità, a declinarmi al maschile.
Tutte noi, a un certo punto, abbiamo sfogliato un album di famiglia e ripercorso vite di nonne, bisnonne, zie o madri costrette a rinunciare alla propria felicità per curare i figli, la casa, gli anziani. Uno smisurato spreco di talento, di intelligenze. Assistere dal vetro di una finestra all’uomo che esce, va al lavoro, al bar con gli amici, in mezzo al mondo, dove intrattiene amicizie e relazioni sentimentali, dove si avventura e scopre, macina esperienze, si misura in gesta o parole che forse verranno ricordate. E tu? Niente.
Tu pulisci e dai il seno al bambino. La domenica cucini il pasto per la famiglia e gli ospiti e a volte neppure ti siedi a tavola con loro. Ti è concesso vestirti bene a qualche battesimo e matrimonio. Ti è concesso discutere di argomenti frivoli — non di politica, non di economia — con le altre donne, mentre gli uomini affrontano i grandi temi, prendono le decisioni, fanno carriera. Io queste donne le ho conosciute e ho voluto loro molto bene. Non erano Ecuba o Andromaca: erano mie parenti. Io stessa, decine di volte, in quanto femmina, sono stata invitata a fare altri giochi, a occuparmi di altre questioni.
Spesso mi è stato suggerito, sempre con allusioni e bisbigli, di non stringere alleanza con le altre donne, bensì di competere con loro. Di diffidare di amicizie e sorellanze per puntare al fidanzamento, supremo obiettivo.
Quando ho studiato l’Iliade a scuola, nessun professore o professoressa ha mai dedicato una lezione a questo pugno in faccia: gli uomini sono eroi, le donne trofei. Ci siamo sempre diligentemente soffermati sulla metrica e sugli epiteti, sugli aggettivi e sui verbi, prendendo per buono tutto. Come fosse ovvio e attuale.
Infatti lo è, attuale. Ma non può più essere ovvio.
Perché? Quante volte mi sono sentita riecheggiare in testa questa domanda.
Quando Achille, con le armi lucenti appena forgiate da Efesto, attraversa la pianura diretto verso la rocca per vendicare Patroclo, Priamo ed Ecuba, i due anziani genitori di Ettore, piangono terrorizzati perché capiscono che è giunta la fine del figlio. Entrambi implorano Ettore di non affrontarlo, perché Achille è più forte di lui, e di pensare, invece, a proteggere il suo popolo. Ma quello, figuriamoci: che eroe sarebbe, altrimenti? Non sente ragioni, neppure quando sua madre compie un gesto che mi ha sempre lasciata di sasso.
Ecuba si allarga la veste e gli mostra il seno.
Grida: «Ettore, bambino mio! Abbi rispetto almeno di questo,/ abbi pietà di tua madre. Ti ho tanto cullato su questo mio seno,/ ricordi? Tesoro, va’ via, via da quell’uomo tremendo,/ rientra in città! Ti prego, non affrontarlo./ È una belva, ti dico! Ti ucciderà, e io, che ti ho partorito,/ non potrò neanche piangerti, figlio, accanto a un letto,/ insieme ad Andromaca, nobile sposa».
Ecuba ricorda a Ettore di averlo partorito; dunque lui, ora, non può farle il torto di morire. Deve tenere a mente la sua origine, la carne di cui è impastato. Ma lui se ne frega di quelle viscere, il suo desiderio è finire in gloria, diventare poesia e leggenda: pulita, radiosa, immateriale. Pura cultura.
È qui, in questo seno esibito, che rintraccio la chiave di un fraintendimento colossale: la maternità, la compressione del femminile dentro questo evento. Perché la donna è anche, strutturalmente, un luogo da cui separarsi: tutti usciamo da un corpo di donna, tutti lo dobbiamo tradire per diventare noi stessi. Ma nessuna donna è riducibile a un evento, a un luogo. Ogni donna è, nell’infinita sua complessità, una persona.
Eppure quando la donna diventa madre, ancora oggi, viene incoraggiata a tagliarsi fuori. Dal lavoro, dalle amicizie, dalle passioni, dai desideri. Ancora oggi, mentre l’uomo può fare una pausa in battaglia per dare un bacio al figlio, come Ettore con Astianatte, la donna viene ricacciata indietro, ad allattare, nutrire, pulire, accudire. In una solitudine desolante, a giudicare dai congedi parentali per uomini e dalla scarsità di asili nido.
Se una donna non vuole diventare madre, si deve giustificare. Se lo sceglie, viene schiacciata pancia a terra su questa funzione seguendo la parabola dell’attrarre, generare e scomparire tra le mura domestiche. Obbediente alla biologia, estromessa dalla cultura.
Ho ripensato all’Iliade apprendendo dai quotidiani di certe chat di ragazzini che hanno ridotto un corpo di donna a oggetto del loro piacere, senza il minimo dubbio che contenesse una persona. L’ho rammentata leggendo il caso di un imprenditore che adescava studentesse con l’invito a uno stage, e poi le narcotizzava e le stuprava. Ho ritrovato la barbarie dell’Iliade in ogni femminicidio. Nelle statistiche che mostrano come, durante la pandemia, sono state pressoché solo donne a perdere il lavoro: le più precarie, le più sacrificabili.
Sarebbe ingrato, ingiusto e falso scrivere che non è cambiato niente, perché molte donne hanno lottato e dato la vita per conquistare le libertà e i diritti di cui godiamo oggi. L’Iliade però resta lì: ridimensionata, non superata. Un poema di bellezza spaventosa, un’opera d’arte scritta da uomini che testimonia brutalmente la condizione femminile. Tutte e tutti dobbiamo poterla attraversare, farne tesoro, riscrivere.
Leggerla con attenzione a 37 anni, a differenza che a 14, mi ha fatto sentire, forte e chiara, la mia appartenenza alla parola «scrittrice». La felicità di questa declinazione. Le voci e libertà inedite che contiene. La possibilità di correre, come Achille, verso una nuova cultura: «Tutto lucente,/ e pareva la stella che sorge in estate, quella i cui raggi/ trafiggono il buio».