Corriere della Sera - La Lettura
La morale dei libertini una lezione di libertà
Lezioni Giorgio Ficara rende giustizia a un modo di vivere per nulla frivolo e occasionale. Altro che Settecento: il suo nuovo libro, più narrativo che saggistico, ci ricorda che il principio di piacere non è una tappa da bruciare in nome di altri obiettivi, ma una realtà meravigliosamente indipendente. Sempre
Fin dal titolo, queste Vite libertine di Giorgio Ficara sembrano sfidare lo spirito del nostro tempo, così incline al moralismo, al controllo reciproco e al pubblico biasimo. È evidente a tutti che oggi gli eroi del suo libro (come quelli di un altro bel saggio da ricordare, Gli ultimi libertini di Benedetta Craveri) condurrebbero una vita grama, soprattutto se artisti o intellettuali ai quali l’odierno senso comune richiede non solo un’adesione incondizionata alle idee «giuste», ma anche uno stile di vita esemplare: rigidamente progressista, inclusivo, monogamico.
A pensarci bene, il perbenismo è una costante della storia umana. Ma il vecchio perbenismo reazionario, ispirato all’antropologia cattolica, era fondato sull’inevitabilità del peccato e su una considerazione adeguata dell’intrinseca fragilità dell’essere umano: nessuno è perfetto, e chiudere un occhio molte volte è la più cosa più giusta da fare. I vizi privati potevano convivere armoniosamente con le pubbliche virtù. Quella vecchia cultura insomma era tollerante tanto quanto era repressiva.
Ben diverso è il perbenismo progressista, che esige un controllo dell’individuo più orwelliano che cattolico, bandisce da un giorno all’altro parole e modi di esprimersi, aggredendo anche la grammatica, e non contento
di governare con l’inflessibilità di una governante vittoriana i suoi contemporanei, risale volentieri il fiume della storia condannando senza appello chiunque trovi sulla sua strada, dai tragici greci alla favola di Biancaneve, da Cristoforo Colombo a Peter Pan.
Al centro di questa cultura c’è un assioma incontestabile: solo un uomo «buono» è capace di produrre un’opera da ammirare per la sua bellezza. E se per caso, dopo aver lungamente apprezzato e amato le opere di un artista, scopriamo che non era «buono», ebbene quelle opere, come colpite da una bacchetta magica, diventano all’improvviso brutte, spregevoli, bandite dai cataloghi, dalle librerie, dalle piattaforme. L’incredibile destino dei film di Woody Allen o dei libri di Gabriel Matzneff ha qualcosa di fiabesco, perché suggerisce che se una volta ti è piaciuto un libro di Matzneff o un un film di Woody Allen (o magari un quadro di Caravaggio) eri vittima di un malvagio incantesimo, e finalmente sono arrivate le fate buone a cucire le loro lettere scarlatte sulla giacca di quei malvagi impostori.
Giorgio Ficara, oltre a essere un grande maestro della difficile arte del saggio letterario, è un vero aristocratico, nel senso migliore del termine: non perde nemmeno tempo a contestare lo spirito del tempo, lo ignora e va dritto per la sua strada.
Inoltre, è un uomo intelligente, e una delle caratteristiche principali degli uomini intelligenti consiste proprio, guarda caso, nel non proiettare mai sul passato i valori e i problemi del presente. Esattamente come noi, i nostri avi vivevano come riuscivano a vivere, e non come avrebbero dovuto vivere.
Nel capitolo VII del libro di Ficara, tanto per entrare nell’argomento, facciamo la conoscenza di un uomo squisito, il cardinale François-Joachim de Pierre de Bernis, morto a Roma nel 1794. Accorto politico, ambasciatore di Luigi XV, Bernis fu un uomo ammirato e temuto ai suoi tempi, e un perfetto libertino, dedito quotidianamente ai più allettanti piaceri della carne. E il bello è che i suoi contemporanei rispettavano sia il cardinale sia il vizioso. Come se un aspetto della sua personalità, anziché smentire o imbarazzare l’altro, finisse per rafforzarlo, e viceversa. Basta leggere il ritratto di Bernis che fa
Casanova nelle sue Memorie per capire questo modo di pensare, così lontano dal nostro, che esige che i potenti non abbiano vizi, e indaga sulla vita privata dei politici alla caccia di qualunque macchiolina. Ficara ci presenta il suo eminente personaggio sul letto disfatto di una casa veneziana, dove Bernis conversa, dopo aver goduto a lungo i piaceri dell’amore, con una ragazzetta veneziana, bella e intelligente, almeno quarant’anni più giovane del cardinale. Prima di prendere sonno, sfiniti dalla voluttà, conversano sul peccato, sul destino del corpo, sulla paura della morte. Bernis ne è sicuro: nessun uomo, nemmeno il più grande mistico o filosofo, ha mai minimamente risolto il problema della morte. E dunque, visto che il senso del nostro stare al mondo ci è negato, «il piacere effettivamente sospende il pensiero della morte»: fatto incontestabile che finisce per rendere più importante una partita a biliardo di tutti i pensieri di Platone. La logica del libertino procede, come la prosa dei romanzi di Diderot, sul filo di paradossi che appaiono incontestabili e durano il tempo di una bolla di sapone. E infatti il cardinale, stanco di amministrare dosi eccessive di materialismo alla sua giovane amante, si addormenta tra le sue braccia. Tra le altre voluttà c’è anche quella del pensiero: a patto di non identificarsi in nulla, nemmeno nella verità che si è sfiorata. Nelle sue memorie Bernis, indossati i panni del grande cardinale, dichiara di aver sempre odiato i libertini e il libertinaggio: sapeva di mentire, e che nessuno dei sui contemporanei gli avrebbe creduto; ma Bernis è figlio di un’epoca che trascorre con straordinaria agilità dal vero al falso, perché ciò che conta è la circostanza.
Tutti i personaggi del libro di Ficara sono, più o meno, contemporanei di Bernis, francesi e italiani. L’epoca è quella che precede la Rivoluzione del 1789, con tutte le tempeste che ne seguiranno. Parigi e Versailles, ognuna a suo modo, sono gli epicentri dell’epopea libertina: una meravigliosa festa galante sull’orlo dell’abisso. Nel 1999, Ficara aveva pubblicato un saggio memorabile, Casanova e la
malinconia. In queste Vite libertine però usa i materiali delle sue ricerche in maniera più narrativa che saggistica: inventa dialoghi, riscrive a suo modo brani celebri, dipinge i suoi eroi fermandoli in un momento significativo della loro vita, come abbiamo già visto con il cardinale Bernis e la sua giovane concubina. Ne viene fuori un libro perfetto, scintillante di grazia e malizia, e dove è necessario velato di malinconia: l’unico difetto che gli si può imputare è una copertina del tutto incongrua e fuorviante, con tutti i Watteau e i Fragonard che c’erano a disposizione per suggerire il contenuto del libro.
Esperienza
Il moralismo non è morale. E dobbiamo fare nostre le sagge parole di Cristina Campo: «Il senso di colpa è un non senso»
Casanova non poteva mancare nelle Vite libertine, ma questa volta il vero protagonista è il duca di Brissac, un altro uomo che nella vita non si era negato proprio nulla. Nella realtà Brissac fu linciato dalla canaglia giacobina nel 1792. Ficara immagina di farlo sopravvivere vent’anni, e lo fa conversare con una nipote curiosa della sua vita scandalosa. Questo espediente narrativo è davvero azzeccato, perché la nipote del duca, ormai, è una ragazza romantica, che si diverte ad ascoltare i racconti scandalosi del nonno, ma non li capisce fino in fondo, pur subendone il fascino. Ma se Ficara nelle Vite libertine ha deciso felicemente di raccontare senza spiegare, una volta chiuso il suo libro delizioso tocca a noi, per una volta, fare un po’ di teoria. A partire dalla più ovvia domanda: chi è un libertino, come si vive effettivamente una «vita libertina»? Ebbene, come tutti noi possiamo considerarci, in ogni momento della vita, conseguenza delle nostre azioni, il libertino specializza, per così dire, questa consapevolezza, pensando a sé stesso come alla conseguenza dei piaceri che ha strappato alla vita. In questo modo, non potendo negarlo, elude il principio di realtà. E questa è stata sempre la colpa capitale che ogni società ha imputato ai suoi libertini. Non questo o quel vizio particolare, insomma, ma la mancanza di collaborazione alle virtù collettive, religiose o politiche, e agli ideali che cementano e governano il divenire storico.
Per fare l’esempio più evidente, non c’è quasi forma di potere che non abbia in tutti i modi incoraggiato e prescritto la famiglia monogamica, mattone indispensabile della piramide sociale. Rifiutando quell’etica del sacrificio sui cui danni ha ragionato di recente anche Massimo Recalcati, il libertino è sì un uomo libero, ma la sua libertà è considerata un inutile privilegio. Tutto questo ha la sua apparenza di verità, ma il libro di Ficara ci induce a ragionare in maniera più complessa e sfumata. L’epoca che descrive non fu solo una festa galante. Produsse l’Enciclopedia e attorno al suo più grande monumento intellettuale si realizzarono progressi inauditi in tutti i campi del sapere e della tecnica: un balzo in avanti della cultura umana come quello rappresentato dall’Illuminismo ancora oggi non sembra essersi mai ripetuto. Al contrario, le società moraliste appaiono tristemente inchiodate alle loro virtù, incapaci di evoluzione e di immaginazione. Come se il moralismo, così contrario alla natura umana, fosse un esercizio talmente faticoso e impegnativo da esaurirsi in sé stesso prosciugando tutte le energie umane disponibili. Gli eroi di Ficara potevano chiamarsi anche Voltaire e Diderot, ma attingevano, ognuno a loro modo, alle preziose riserve dell’ironia, della leggerezza, della cortesia. E sapevano benissimo, prima che qualche pedante glielo rinfacciasse, di essere dei privilegiati. Probabilmente non sarebbero usciti indenni dal letamaio dei social network, ma ai loro tempi furono capaci di cambiare il mondo.
Ficara rende giustizia a un modo di vivere, praticato liberamente da uomini e donne, tutt’altro che frivolo e occasionale. Ci ricorda una delle verità più preziose in ogni stadio della vita umana: il principio di piacere non è una tappa da bruciare in nome di compiti più impegnativi e necessari ma una realtà dotata della sua meravigliosa indipendenza e in ultima analisi un mondo che sta a noi abitare, se lo vogliamo, incidendo sulla porta le sagge parole di Cristina Campo: «Il senso di colpa è un non senso».
Tutto sul libro di Ficara è fatto così: la documentazione storica viene trasformata nel racconto di un episodio (probabile quando non reale) della vita di personaggi reali che in questo modo diventano protagonisti di quella che è a tutti gli effetti un’opera di finzione. Ficara pesca i suoi materiali in un periodo ben determinato. Ma chi è un libertino, o una libertina?