Corriere della Sera - La Lettura
La selva oscura di Dante come la stanza di Proust
Cos’hanno in comune il genio medievale di Dante Alighieri e quello modernista di Marcel Proust?
Tanto, tantissimo: lo capì, con l’imbarazzo del filologo e l’audacia del letterato di grido, Gianfranco Contini. Tanto per cominciare si sovrappongono la prima persona singolare del Poeta e quella altrettanto controversa del Narratore della «Recherche». E poi: la selva selvaggia del primo non è forse la stanza immersa in un buio tiepido e caliginoso del secondo?
Ricordo ancora quando m’imbattei nel saggio in cui Gianfranco Contini, con l’imbarazzo del filologo e l’audacia del letterato di grido, paragona Dante Alighieri e Marcel Proust. Allora non potevo certo sapere quanto, nel corso degli anni, un raffronto così bislacco avrebbe assunto per me il valore di una rivelazione. Occorre dire che Contini, nella smania di assimilare il suo Dante «personaggio-poeta» al non meno ambiguo Narratore proustiano, per prima cosa mette le mani avanti. Ha senso, si chiede, mettere sullo stesso piano il massimo poeta del Medioevo e il campione del modernismo novecentesco? A chi giova affiancare due giganti così sideralmente distanti: nel tempo, nella lingua, nello stile, nella forma espressiva, nel genere adottato, nelle concezioni filosofiche, nelle finalità artistiche, nel temperamento? Che te ne fai di paragoni del genere?
Dante e Marcel: personaggi a confronto
È bene chiarire che ancora oggi, al netto di tanti ragionevoli dubbi, l’intuizione di Contini conserva una verità tutta da esplorare. Lui ravvede una corrispondenza tra la prima persona singolare adottata dal Poeta della Commedia e quella altrettanto controversa del Narratore della Recherche. Nell’io dantesco «convergano l’uomo in generale, soggetto del vivere e dell’agire, e l’individuo storico, titolare di un’esperienza determinata hic et nunc, in un certo spazio e in un certo tempo; Io trascendentale (con la maiuscola), diremmo oggi, e “io” (con la minuscola) esistenziale».
Ebbene, nota ancora Contini, qualcosa di non troppo diverso si può dire del Narratore proustiano. A cominciare dalla coincidenza onomastica: se il protagonista della Commedia si chiama Dante, l’eroe della Recherche si chiama Marcel. E tuttavia, né l’uno né l’altro sono sovrapponibili agli omonimi autori che li hanno inventati. Quanto sia preziosa tale intuizione lo dimostrano i succosi frutti che ha saputo produrre. Valga per tutti l’esempio del bellissimo L’io e il mondo di Marco Santagata in cui si dà conto della doppia natura del narratore dantesco: la scissione tra personaggio agente (agens) e personaggio narrante (auctor). «Più che di personaggio Dante», scrive Santagata, «forse sarebbe meglio parlare di arcipersonaggio, cioè di un’identità che altre volte può presentarsi come diretta proiezione dell’autore e altre ancora rimanere un’istanza autobiografica senza corpo strutturato. Questa entità, che non coincide con l’autore ma che ne tradisce la fisionomia, conduce a sé, e quindi a un punto di vista unico, tutte le scritture nelle quali si manifesta, abolendo non solo le differenze di genere e di impianto discorsivo, ma anche quelle primarie tra storia e invenzione, verità e menzogna». Se Dante non fosse citato e se non sapessi che a scriverne è Santagata, potrei tranquillamente credere che il passo appena trascritto si riferisca a Proust.
A questi due narratori, se mi è consentito farlo, ne aggiungerei un terzo, più discreto forse, ma non meno influente. Una presenza che fa capolino nei momenti più emotivamente drammatici della Commedia e della Recherche, e che agisce sul lettore con forza dirompente. Si tratta del Sapiente, l’incrocio tra un filosofo e un moralista che, partendo da conoscenze acquisite e rielaborandole con strabiliante sagacia psicologica, riflette sulla condizione umana. In questo almeno assimilabili a Shakespeare, Dante e Proust sono fonti inesauribili di saggezza introspettiva. Pare proprio che per loro il cuore umano non abbia segreti. Sanno tutto quel che c’è da sapere sull’amore, la nostalgia, l’esilio, lo snobismo... Mi domando se non sia questo terzo narratore a conferire all’opera di entrambi quel senso di autenticità tragica.
A questo punto non serve soffermarsi sull’entità di una mirabile rivoluzione narratologica (chiamiamola pure così), ma come essa sia determinante per definire i nessi tra l’ispirazione artistica dantesca e quella proustiana, in tale senso almeno, bizzarramente contigue.
Giocando sulle macro-somiglianze, salta subito agli occhi come la Commedia ela Recherche occupino, nelle rispettive letterature, un ruolo prominente, il posto d’onore di fari incontrastati. Autentiche summe, in esse convergono i motivi di due tradizioni canoniche. La differenza (certo, non da poco) è che mentre Dante è il capostipite, l’inventore, l’immaginifico per antonomasia, Proust è il maestro di cerimonie, il liquidatore, il grande curatore testamentario. Del resto, sono pochi gli autori immortali che abbiano saputo esercitare un fascino altrettanto esclusivo sugli specialisti e, allo stesso tempo, ispirare al lettore comune una fedeltà canina. In un certo senso, Dante e Proust hanno fondato religioni letterarie che non smettono di mietere martiri. Leggerli è allo stesso tempo un piacere, una fatica e un atto devozionale. Ti sembra che dopo averli incontrati e assimilati, niente potrà più soddisfare le tue esigenze di pienezza. Allo stesso tempo ti sfuggono. Le loro opere maggiori sono scrigni gremiti di tesori nascosti. Superati gli intralci posti dalla lingua arcaica dell’uno e dalla sintassi impossibile dell’altro, li si può approcciare con il piacere con cui leggiamo un feuilleton ottocentesco, e, allo stesso tempo, come dicevo, quali custodi di una sapienza umana definitiva. Del resto, sono accomunati da un’ossessione per la morte, in Dante esplicitata sin dal principio, da Proust evocata con maggior circospezione ma in modo non meno struggente nel lungo epilogo. In un certo senso, si può dire che entrambi ci parlino dall’aldilà: postumi e proprio per questo irrimediabilmente attuali.
Venendo al dato tematico e tentando di ridurlo all’osso, sia la Commedia che la Recherche si presentano come viaggi, o per essere più precisi, perigliosi pellegrinaggi alla conquista di un senso sancito da una vocazione esclusiva e irresistibile. Dimentichiamo per un attimo che, a fronte dell’approccio profano di Proust, ad animare Dante ci sia il sentimento religioso tipico di un uomo del Medioevo. Più interessante ravvisare come sia il Poeta sia il Narratore si prefiggano, sin dalle prime battute, di intraprendere un iter di salvezza, e che per farlo si affidino anima e corpo a una forma peculiare di misticismo artistico. Se la cosa per un uomo come Dante, un intellettuale del Trecento, non deve sorprendere, appare assai meno scontato riferirla a un dilettante fin
de siècle come Proust. Senza tuttavia dimenticare che la sua passione per il Medioevo troverà nella Recherche svolgimenti inauditi.
In ogni modo, per capire quanto malagevoli e accidentati siano i viaggi intrapresi dal personaggio-Dante e dal personaggio-Marcel, va considerato che la Commedia ela Recherche sono disseminate di indizi, allegorie,
visioni, sogni, epifanie, profezie, false partenze: ciascuna delle quali è al servizio dell’ascesa vertiginosa verso lo sfavillante Empireo della consapevolezza morale.
Una selva oscura e una camera da letto
A questo punto, come non notare che la Commedia inizia in un luogo famigerato su cui da secoli i commentatori non smettono di interrogarsi: la selva oscura. Come considerarla? Un pantano nevrotico? Una facile allegoria? Un incubo a occhi aperti? La descrizione realistica di un luogo fantastico? Mi guarderò bene dall’aggiungere la mia interpretazione a quella di chiosatori più attrezzati e illustri. Mi basta ricordare come il Poeta, prima di affrontare il viaggio nell’aldilà, si trovi intrappolato in un bosco tenebroso e inospitale, minacciato da animali feroci, in condizioni emotive che lambiscono la paranoia.
Ossia, in un’impasse emotiva analoga a quella in cui si dibatte l’anima in pena che ci accoglie all’inizio di Combray. La selva oscura del Narratore è la camera da letto, molto probabilmente immersa in un buio tiepido e caliginoso. È in pieno dormiveglia, ossia, in uno stato psichico abbastanza vacillante e inaffidabile da alterare le leggi del Tempo, fin quasi a sovvertirle. Se la coscienza è incapace di stabilire la differenza tra i vivi e i morti, i sensi si dibattono in una sfilza di impressioni tanto vivide quanto illusorie. Insomma, anche Marcel, come Dante, si presenta al nostro cospetto in piena crisi di mezza età, confuso e smarrito, vagolante tra un passato inafferrabile e un presente inaffidabile. Non sa in quale direzione muovere, da dove cominciare. Impiegherà quasi tremila pagine per raccapezzarsi, sbrogliando a fatica il bandolo di una matassa che più intricata non potrebbe essere.
Ciò ha autorizzato diversi critici a parlare di itinerario cristologico. Per il Narratore salvarsi significa concepire il solo libro che si sente autorizzato a scrivere. Così il percorso proustiano assume la circolarità del viaggio dantesco, in un certo senso ricalcandola, con esiti altrettanto palingenetici.
Il fallimento
D’altronde, sin dagli esordi, a perseguitarli è l’idea di riscatto. La vita nova, così come I piaceri e i giorni sono animati da un’esigenza più o meno dissimulata di risarcimento, favorita da singolari, e per certi versi analoghe, circostanze biografiche. Benché provengano da ambienti colti e privilegiati, i due artisti, ancora imberbi, non si sentono sufficientemente apprezzati. Mentre Dante, da bravo stilnovista, non fa che rivendicare il primato della nobiltà spirituale su quella dinastica, Proust coltiva una passione morbosa per l’aristocrazia di sangue. In un certo senso, è come se, ciascuno a suo modo, avessero un conto in sospeso con le origini e con lo spettro del fallimento in agguato. A guardarli da una certa distanza, viene da pensare che l’esilio inflitto a Dante per ragioni politiche trovi corrispondenza negli oltraggi di carattere mondano, razziale e sessuale che Proust patì per tutta la vita. Mi chiedo se ciò non giustifichi, almeno in parte, ambizioni artistiche allo stesso tempo titaniche e così aspre a manifestarsi. La Commedia ela Recherche hanno soprattutto questo in comune. Sono le opere magniloquenti e assolute di artisti maturi che si affacciano sulla scena letteraria del loro tempo in modo a tal punto deflagrante da stravolgere qualsiasi precedente paradigma estetico. Il che rende ancor più arduo per noi interrogarsi sulla fonte primigenia dell’ispirazione che li guida.
A tutt’oggi, né i dantisti né i proustiani hanno saputo stabilire il momento esatto in cui questi capolavori universali hanno preso forma. Abbiamo le prove che Dante abbia scritto i primi canti dell’Inferno già a Firenze, poco prima dell’esilio. Non sappiamo molto altro. In quanto a Proust, sebbene i filologi si scervellino da un secolo, difficile stabilire il momento esatto in cui il velleitario esperimento saggistico-narrativo del Contro SainteBeuve cede il passo alla Recherche. D’altra parte, tanto per marcare le differenze, va notato che mentre le opere minori di Dante sono tali solo se paragonate alla Commedia, quelle di Proust acquistano interesse e valore soprattutto alla luce della Recherche.
Ma torniamo per un secondo alla selva oscura, se non vi spiace. La vedete? È lì che tiene in scacco i narratori di queste nostre epopee. Un intoppo che contribuisce a esacerbare il mistero della vocazione. A pensarci bene, non mi vengono in mente eroi letterari altrettanto ossessionati dall’elezione da cui si sentono investiti. Per non arrendersi ai mille imprevisti, si affidano a mentori illustri e autorevoli. Sorvolando sugli incoraggiamenti ricevuti da Virgilio, Brunetto Latini, dalla stessa Beatrice, come non pensare al pistolotto inflitto a Dante dal suo avo illustre nel celeberrimo XVII canto del Paradiso? Non solo, infatti, Cacciaguida gli preannuncia l’esilio, e tutte le mortificazioni e i patimenti che dovrà sopportare, ma anche il riscatto rappresentato dalla stesura di un poema immortale:
Questo tuo grido farà come vento che le più alte cime più percuote; e ciò non fa d’onor poco argomento.
Benché le guide a disposizione del Narratore non possano vantare lo stesso grado di lungimiranza e santità, risultano altrettanto indispensabili al suo percorso
Amore, nostalgia, snobismo, esilio... Dante e Proust sono fonti di saggezza introspettiva. Per loro il cuore non ha segreti
Per entrambi la letteratura è una forma di riscatto, ma in certe circostanze può anche offrire il gustoso pretesto per la vendetta
di salvezza. Si tratta perlopiù di artisti inventati: Bergotte, Berma, Elstir e, per interposta arte, la sublime musica di Venteuil. Anche se il vero Cacciaguida del Narratore, quello che gli promette sofferenze indicibili e la via per conferire loro un senso retrospettivo, è niente meno che Charles Swann. Da un punto di vista strutturale, Swann può essere accostato però anche a Virgilio. Sebbene sprovvisto di analogo genio letterario, Swann condivide con Virgilio l’errore. Anche lui, a causa della sua indolenza, per non aver saputo dare fondo alle ambizioni artistiche, si trova intrappolato in una sorta di limbo. E ciò non di meno, proprio come Virgilio per Dante, Swann incarna la figura del fratello maggiore del cui esempio negativo il Narratore si avvale per edificare la sua cattedrale. Swann conosce i tormenti della gelosia, i fasti della mondanità, le frivolezze dello snobismo, l’amore esclusivo per l’eleganza, il bello e le arti figurative. Ciò che gli manca è il coraggio, la disciplina, il senso morale per attendere a un’opera degna del suo ingegno. Se Virgilio è relegato all’Inferno per cause di forza maggiore, Swann è dannato per colpa della sua mancanza di carattere.
La musica dello stile
Gli scrittori amati ci costringono per tutta la vita a letture serrate. Quelli davvero grandi non fanno che sfuggirci da ogni dove, e proprio quando ci eravamo illusi di averli afferrati una volta per tutte. A tal proposito, Mandel’štam scrive (e lasciate che lo citi nella nuova traduzione di Serena Vitale per Adelphi):
Leggere Dante è una fatica senza fine: più si avanza, più la meta si allontana. Se la prima lettura causa soltanto un leggero affanno e una sana stanchezza, per continuare è bene munirsi di un paio di indistruttibili scarponi chiodati svizzeri. Mi chiedo del tutto seriamente: quante suole di cuoio — quante scarpe, quanti sandali — avrà consumato l’Alighieri mentre si dedicava al suo lavoro poetico vagando per l’Italia lungo scoscesi sentieri di capre?
In effetti, a dispetto delle troppe demagogiche letture pubbliche che ci sono state inflitte negli ultimi anni, la
Commedia continua a rappresentare un esercizio di lettura che, per quanto gustoso appaia al primo assaggio, impegna le nostre facoltà fin quasi allo sfinimento. E non parlo, intendiamoci, del criptotesto frequentato dai critici più esigenti: i richiami storici, filosofici, teologici che la Commedia custodisce come una Summa. Parlo degli irti incagli cui ci espone la prosodia dantesca. Per il lettore contemporaneo, la sintassi e il lessico sono talmente complessi che, sebbene al servizio di un quadro che più vivido e realistico non potrebbe essere, risultano inafferrabili. «Cercando di approfondire, per quanto è nelle mie forze, la struttura della Divina Commedia, arrivo alla conclusione che l’intero poema è una sola strofa, unica e indivisibile». Ed è qui che, ancora una volta, mi torna in mente Proust. Anche la Recherche, dopotutto, si configura come un’unica incessante frase. Le divisioni in libri e capitoli, i pochi spazi bianchi che separano una sezione dall’altra, sono quanto di più strutturalmente pretestuoso si possa immaginare. Anzi, certe volte, nel rileggere la Recherche con mente sgombra da pregiudizi, viene il sospetto che Proust abbia realizzato nella prassi il grande sogno flaubertiano di trasformare la prosa in poesia pura, in suono, nenia, incantesimo. E non per i suoi accenti lirici, ma semmai per quella informe fluidità senza scampo inaugurata dal suo celebre incipit: «Per molto tempo sono andato a letto presto». L’idea, assai cara ad alcuni dantisti d’antan, secondo cui la Commedia sarebbe un sogno, può essere tranquillamente attribuita alla Recherche. Non è mica vero che il Tempo Perduto scaturisce, come Proust lascia intendere, da una tazza di tè, bensì dal sonno del Narratore, date le circostanze non meno inquieto di quello di Gregor Samsa. Che non sia la natura onirica dell’investigazione proustiana a rendere la musica della sua prosa così fluida e inesauribile?
Del resto, se il paragone tra Dante e Proust, a livello tematico, può apparire esercizio velleitario (e per i motivi giù espressi da Contini), un raffronto stilistico va liquidato come un abuso inammissibile. Che senso può avere affiancare i versi del Poeta più facondo e caustico del Medioevo con la prosa più densa, duttile, suadente e discorsiva che un romanziere abbia mai adottato? Eppure, come spero di aver già suggerito, c’è un piano su cui i due artisti s’incontrano. E, per definirlo, devo chiedere aiuto allo stesso Proust. È lui ad aver chiamato in causa la cosiddetta «canzone dello stile». Al di là delle forme espressive adottate, infatti, non c’è scrittura artistica che non nasconda una certa qual musica segreta. Se ciò riguarda ogni scrittore di rango, vale in modo peculiare per due pesi massimi come Dante e Proust. Gli endecasillabi e le terzine dell’uno, così come l’ipotassi impazzita dell’altro, sono talmente caratteristici da costituire una griffe eterna e inconfondibile. Vien da chiedersi, semmai, se queste melodie non esprimano nel modo più alto l’idea che ossessiona sia Dante sia Proust: l’arte, sebbene legata alla vita, ha senso solo quando è in grado di trascendere qualsiasi contingenza esistenziale e condurci altrove. Proust lo dice esplicitamente: «La vera vita, la vita finalmente riscoperta e illuminata, la sola vita, dunque, pienamente vissuta, è la letteratura». Una chiosa che, sebbene sotto altra forma e con la cautela dell’uomo di fede, Dante avrebbe potuto sottoscrivere. Resta comunque il fatto che, per dirla con Borges, «i versi, soprattutto i grandi versi di Dante, sono molto più di ciò che significano. Il verso è, tra le molte altre cose, un’intonazione, un accento spesso intraducibile». Basta sostituire la parola «versi» con «proposizioni» e il nome di Dante con quello di Proust per ottenere lo stesso effetto di verità.
Vendetta privata e pubblica virtù
Fin qui la mia investigazione è stata volutamente generale, se non proprio generica. Lasciate che entri nel merito dando conto di una caratteristica psicologica che mi pare accomuni Dante a Proust. Se per entrambi, come abbiamo visto, la letteratura è una forma di riscatto, non sorprendiamoci che, in peculiari circostanze, essa possa offrire il gustoso pretesto per la vendetta. Come abbiamo già visto, Dante e Proust giungono all’opera maggiore in età matura e in condizioni spirituali burrascose. Una conquista tardiva che sancisce una specie di frattura definitiva con il passato. Una retraite dai contorni foschi. Se Dante, oltre a Firenze, si lascia alle spalle la politica che gli ha provocato solo cocenti delusioni, Proust, dopo la morte dei genitori e la fine della giovinezza frivola, mette una pietra sopra alla mondanità. Naturalmente queste fratture sono meno nette di quanto i due non abbiano interesse a suggerirci. Se Dante, infatti, continua a essere ideologicamente implicato con le diatribe dell’ingrata Firenze che gli ha dato il benservito, Proust stenta a liberarsi dal fascino dei salotti parigini. Non a caso politica e mondanità costituiscono uno dei pilastri portanti dei rispettivi capolavori: in nome di coinvolgimenti così impellenti e settari, Dante e Proust utilizzano la letteratura per sfogare le proprie vendette private.
Sulla faziosa ferocia di Dante nei confronti dei suoi nemici politici si è detto allo sfinimento. L’idea che usi l’Inferno per togliere dai sandali qualche aguzzo sassolino di troppo ha sedotto più di un critico. Altri esegeti danteschi, invece, hanno ritenuto questa interpretazione una capziosa mistificazione. Su tutti brilla la vibrante protesta di Borges che, a quanto pare, proprio non ci sta:
Chi non comprende la Commedia dice che Dante la scrisse per vendicarsi dei suoi nemici e ricambiare i suoi amici. Niente di più falso. Nietzsche ha detto falsissimamente che Dante è la iena che fa poesie nelle tombe. La iena che fa poesia è una contraddizione in termini; e poi Dante non gode affatto del dolore altrui. Sa che ci sono peccati imperdonabili, capitali. Per ciascuno di questi sceglie una persona che lo ha commesso, ma che per il resto può essere ammirevole o adorabile. Francesca e Paolo sono soltanto lussuriosi. Non hanno altro peccato, ma uno basta a condannarli.
Borges naturalmente ha ragione, ma, se mi è consentito dirlo, ha anche torto. Che l’Inferno sia zeppo di dannati che godono della stima, se non addirittura della tenera pietà, di Dante è indubbio: a cominciare da Virgilio, ça va sans dire. A parte Francesca, come non citare così, alla rinfusa, Brunetto Latini, Farinata, Ulisse, lo stesso Ugolino e tanti altri ancora? A fronte di questi casi virtuosi, tuttavia, ce ne sono altri di cui, se Dante non se ne fosse occupato, infliggendo loro patimenti orrendi, non avremmo mai sentito parlare. Su costoro Dante infierisce non solo senza alcuna pietà, ma in modo crudelmente voluttuoso. Come non rimanere costernati di fronte al trattamento riservato a Filippo Argenti? Da un punto di vista storico, serbiamo di lui nozioni nebulose. Egli appare in quella parte di Inferno colonizzata da fiorentini più o meno illustri. A noi basta sapere che Argenti apparteneva alla famiglia guelfa degli Adimari con cui Dante aveva motivi di attrito. Anche per questo viene collocato nelle acque putrescenti dello Stige. La pena che vi sconta è di definizione incerta, qualcosa comunque che ha a che fare con le attitudini irose, vanesie e arroganti cui l’Argenti era solito indulgere. Devo dire che la cosa che mi ha sempre stupito non è tanto l’atteggiamento di Dante nei confronti di quel dannato in difficoltà che viene letteralmente sbranato dai compagni di sventura, bensì quello di Virgilio. È lui, infatti, a invitare Dante a soffermarsi sul truculento spettacolo di smembramento subito dall’Argenti, una scena che non stento a definire splatter. Insomma, nessun sotteso. Il pio Virgilio glielo dice esplicitamente:
Ed elli a me: «Avante che la proda ti si lasci veder, tu sarai sazio: di tal disïo convien che tu goda».
Perché tanto accanimento? Perché un simile compiacimento nel promettere all’allievo che con un po’ di pazienza la sua fame di vendetta verrà saziata nel modo più truce e crudele? Di certo Argenti, come ogni altro penato, ha avuto quel che meritava. Sconta la legge draconiana del contrappasso che domina l’intero Inferno, la giurisprudenza che distribuisce i castighi di cui Dante dà conto alla fine del XXVIII canto, quando Bertram dal Bornio, per giustificare l’orrido tormento eterno che lo affligge, dice: «Perch’io parti’ così giunte persone, partito porto il mio cerebro, lasso!, dal suo principio ch’è in questo troncone. Così s’osserva in me lo contrapasso».
Vi assicuro che non mi addentrerei in questo ginepraio se le circostanze non lo richiedessero. Si dà il caso, infatti, che la legge del contrappasso domini anche l’ultima parte della Recherche. La famosa matinée Guermantes dove il Narratore rivede dopo tanti anni i suoi amici, almeno quelli ancora in vita, è un’immane bolgia che mette in scena — con che ferocia dantesca! — gli oltraggi inflitti dal Tempo agli amici-nemici di una vita. È a bella posta che parlo di contrappasso. Non c’è invitato, infatti, che non porti su di sé i segni indelebili dei propri peccati. A cominciare dal povero Monsieur Charlus che, celebre per il suo classismo inflessibile e malmostoso, sopravvissuto a un colpo apoplettico che gli ha stravolto connotati e carattere, si ritrova a omaggiare una signora che in altri tempi non avrebbe neppure salutato. E che dire di Madame Verdurin che, dopo aver trascorso la vita a esecrare i Guermantes, per un beffardo concatenarsi di eventi ritroviamo sposata proprio al Principe di Guermantes?
Ma non è su questi eroi centrali che vorrei soffermarmi, bensì su un minore. Il suo nome ricorda — almeno da un punto di vista fonico — il bieco Filippo Argenti: Monsieur d’Argencourt. E le somiglianze non finiscono qui. Anche di d’Argencourt sappiamo poco se non il fatto che il Narratore lo considera un suo rivale odioso. Eccolo sbucare nel salotto Guermantes — nelle vesti di «nemico personale» del Narratore — in condizioni fisiche e mentali devastanti. «Il più fiero dei volti, la più impettita delle figure non erano più che un cencio imputridito, sballottato da ogni parte». Spero non sfugga al lettore il compiacimento con cui il Narratore si scaglia sul vecchio avversario. Nessuna pietà per i vinti. Solo compiacimento. A dimostrazione di quanto dico, vedendo d’Argencourt ridotto a quel modo, al Narratore scappa perfino da ridere: «Fui preso da un’ilarità irrefrenabile davanti a quel sublime citrullo, altrettanto ammorbidito nella sua benevola caricatura di sé stesso quanto, sul versante tragico, il signor di Charlus fulminato e compito».
Non ho molto altro da aggiungere. Mi limito a rilevare come questi due spiriti risentiti non resistano alla tentazione fin troppo umana di vessare senza alcuna continenza i propri antagonisti. Non possono fare altrimenti. La promiscuità tra vita e opera — per noi così toccante, per loro vocazione testarda e destino ineludibile — li spinge a una crudeltà che ci lascia attoniti e costernati.
Certo, sarebbe cieco, a questo punto, non soffermarsi su una differenza incontestabile. Occorre notare, infatti, come per Proust non esista niente oltre l’Inferno in cui ha convogliato i suoi personaggi. Il suo cammino verso la salvezza ha qualcosa di gretto. La crudeltà è il solo approdo possibile. Ora che l’opera volge al termine, cosciente della propria onnipotenza artistica e privo com’è del conforto religioso, prende congedo da noi nel momento più drammatico, quando un senso di fine incombe su di lui e sul mondo in decomposizione che ha cercato di evocare. Almeno in questo, il suo itinerario appare contrario a quello dantesco: muove dal Paradiso dell’Infanzia, attraversa il Purgatorio della frivolezza, per giungere sfiancato all’Inferno della vecchiaia e della morte.
In Dante, come dicevo, le cose funzionano altrimenti. L’Inferno per lui è una tappa preliminare. La fede cristiana che lo anima non si esaurisce certo nelle vendette distribuite con tanto inflessibile rigore. Di fatto, è a più agio nella luce che nelle tenebre.