Corriere della Sera - La Lettura
Barack Non fidiamoci troppo dell’innocenza Obama
Un quarto di secolo fa, intervistando Nicholas St. John, lo sceneggiatore-teologo che aveva scritto i più bei film di Abel Ferrara — quelli nei quali si produceva una profonda tensione cristiana, e che per questo, pur nella loro laica durezza, arrivavano a svolgere una funzione quasi pastorale —, m’imbattei per la prima volta nel concetto di «Bene bello». Insomma, si era chiesto St. John, perché il Bene deve essere sempre disadorno, severo, intimidatorio, perché non poteva essere entusiasmante e catartico e addirittura alla moda come sa esserlo il Male? Questo spiegava il suo impegno nel cinema, mondo tendenzialmente attribuito alla giurisdizione di Satana: e il risultato erano quei film di straziante bellezza, che esplodevano letteralmente di potenza evangelica.
Ecco, fin dalla prima volta in cui l’ho visto e sentito parlare, ho sempre pensato a Barack Obama come a un corrispettivo politico di quei film di Abel Ferrara — con una tensione verso il Bene molto più laica ma ugualmente manifesta e potente e capace di travolgere ogni retorica, e soprattutto con la stessa naturale propensione per le sembianze attraenti. È accaduto poi che negli otto anni della sua presidenza, al pari di centinaia di milioni di persone del mondo io mi fossi abituato a quella bellezza associata al ruolo di uomo più potente del pianeta — salvo poi, di colpo, ritrovarmi a rimpiangerla amaramente quando, almeno dal mio punto di vista, alla Casa Bianca il Bene bello è stato sostituito dal Male brutto. E quanto mi sia mancata la sua presenza l’ho capito davvero solo quando mi sono messo a leggere il suo libro, Una terra promessa, e ancor più quando, abbastanza inaspettatamente, mi è successo di vederlo comparire sullo schermo del mio computer per realizzare via Zoom questa intervista.
Sorridente, elastico e splendente al centro di un’inquadratura perfetta, con un’abat-jour accesa e uno specchio nero e un po’ di foto di famiglia sparse sugli scaffali alle sue spalle, eccolo di nuovo qui, visibile, disponibile e prossimo come era stato durante i suoi due mandati presidenziali. Io non ne sono intimidito, anche perché mi sono preparato, ho le mie domande pronte, la doppia registrazione già avviata, e alla fin fine sto lavorando: ma quanto sia madornale questa sua presenza a casa mia lo testimonia l’espressione tra l’incredulo e l’atterrito di mia moglie e mia figlia di fronte a me, sedute davanti alla porta, fuori dall’inquadratura e dunque esposte alla sua bellezza solo per il tramite della sua voce profonda e smerigliata. Per tutta l’intervista rimarranno lì, immobili, inebetite, salvo ogni tanto comunicare tra di loro passandosi dei misteriosi pizzini. L’ultima cosa che mi dicono, subito prima dell’avvio del collegamento, è che ho una patacca sulla maglietta e che dobbiamo sempre farci riconoscere, ma a parte che non mi risulta, mi sono guardato nello specchio poco fa e non ho visto nessuna patacca, quando Obama compare sul display salutandomi con la mano mi rendo conto che la sua camicia immacolata basta e avanza per tutti e due, e mi sento sicuro che tutto andrà bene.
SANDRO VERONESI — Vorrei cominciare con una delle domande che lei stesso si fa nel libro. Questa se la fa a pagina 16, quando si chiede cosa sarebbe successo se invece di passare alla carriera politica «alta» lei fosse rimasto nell’organizzazione di base delle comunità nere, dove ha cominciato. Se fosse diventato un local hero, come dice lei stesso, anziché diventare un eroe globale.
BARACK OBAMA — Be’, uno dei temi del libro è proprio questo: come si produce meglio il cambiamento sociale, dal di dentro o dal di fuori? La mia ispirazione iniziale veniva tutta dagli outsider e dai movimenti di azione sociale, non ero particolarmente ispirato dai po
ma poi ho fatto il salto e ho deciso che forse avrei potuto fare di più dall’interno del sistema e ho cominciato a lavorare nell’amministrazione dello Stato dell’Illinois, poi in quella nazionale come senatore e infine sono stato eletto presidente. Ma come certo ricorderà, nel libro descrivo un discorso che ho tenuto a Praga sul disarmo nucleare, e vedendo tutti quei giovani tra il pubblico mi è tornato alla mente il 1989, quando ero giovane io e volevo combattere il sistema, e riporto con una certa malinconia il pensiero che il mio cuore si trovava ancora nella folla e non sul palco. Credo però di avere concluso che c’è bisogno di entrambi, sia delle persone che stanno fuori dal sistema, i local hero che costruiscono fiducia e relazioni e danno voce a chi non ne ha, sul campo, sia di persone integre e sincere che dall’interno ascoltino quelle voci e le traducano in azioni pratiche, si tratti di leggi o di iniziative politiche. Sì, c’è bisogno di entrambe, perché abbiamo visto come ci siano in tutto il mondo megafoni che danno risonanza ai leader capaci di alimentare i peggiori impulsi della gente, e che quindi possono oscurare del tutto quello che fanno i local
hero; ma d’altra parte, se hai soltanto politici sinceri nel governo senza un movimento sociale sotto di loro, il più delle volte essi non arrivano a fare le cose. Per questo una buona parte del lavoro che sto facendo adesso è focalizzato sul supporto a questi eroi locali, principalmente giovani sparsi per il mondo. È ciò che facciamo con la nostra Fondazione, perché io penso che le nostre democrazie lavorino bene se le persone entrano in relazione tra loro anche sulla scala più piccola, se si sentono reciprocamente responsabili e poi traducono tutto ciò in una serie di reti e di comunità e di movimenti e di culture sempre più ampie, che a loro volta portino il vero cambiamento. SANDRO VERONESI — Esattamente nel momento di svolta della sua vita, quando stava per lasciare i movimenti di base per andare a Harvard, cioè stava per lasciare l’outside per l’inside, lei racconta di essersi trovato in difficoltà. E c’è una frase memorabile, pronunciata da sua mamma per farla andare a Harvard senza fare tante storie, che è molto suggestiva e che io porterò con me: «Essere al verde è sopravvalutato». Può dirmi qualcosa che oggi è sopravvalutato?
BARACK OBAMA — La fama è sopravvalutata. Viviamo nell’epoca dei social media e nelle giovani generazioni vedo questa smania di mettere la propria vita sul display per sentirsi convalidati dai like e dai commenti degli sconosciuti, e penso che tutto questo produca una distorsione perché si sa che nella società contemporanea è possibile fare soldi semplicemente perché si è famosi, almeno per un breve periodo, a discapito però del lavoro, dell’impegno e dei valori più solidi e importanti. Ora, io sono sempre molto cauto quando dico queste cose alle mie figlie, o a chiunque altro, perché ovviamente io vivo il privilegio di essere diventato molto famoso e tuttavia in questo status ci sono anche molti svantaggi, come scrivo nel libro, un isolamento che deriva dal fatto che tutti sanno chi sei, la perdita dell’anonimato, l’impossibilità — SANDRO VERONESI — La necessità di trasformarsi in Johnny McJohn John…
BARACK OBAMA — Esattamente. Nel libro racconto questa storia di quando ero appena esploso sulla scena nazionale dopo il famoso discorso alla Convention democratica di Boston. Di colpo, portare le mie figlie allo zoo, o al parco, o a un museo, era diventata una cosa difficile da gestire perché un mucchio di gente ci avrebbe riconosciuto e avrebbe voluto foto, autografi eccetera. E la mia figlia maggiore allora ha detto: «Hai bisogno di uno pseudonimo, dovresti farti chiamare Johnny McJohn John e usare una voce più acuta quando parli, così la gente non ti riconoscerà più». Si tratta di uno scherzo che in famiglia abbiamo portato avanti per un po’, ma identifica la perdita reale che avevo subito. Cre
do sia parte del patto che devi accettare quando entri nella vita pubblica. Il mio amico Bruce Springsteen una volta mi ha detto: «È uno dei prezzi che si pagano per vivere il proprio sogno, per cui non bisogna dispiacersi per le persone famose, e loro non dovrebbero lamentarsene»; ma io penso che questo prezzo per me sia stato l’effetto collaterale di un lavoro che ho fatto e di valori per i quali mi sono speso, mentre all’opposto c’è gente che insegue la fama fine a sé stessa. Quello che dico sempre ai giovani che vogliono entrare in politica è che dovrebbero concentrarsi su quello che intendono fare piuttosto che su quello che vogliono diventare. Se lei dice «voglio diventare un romanziere famoso» oppure dice «voglio scrivere un grande romanzo», si tratta di due cose molto diverse, giusto? Dire «voglio diventare presidente» è diverso dal dire «voglio procurare assistenza sanitaria e buona istruzione alle persone svantaggiate». Se poi diventi presidente come risultato delle cose che fai, va bene. Ma credo che la fama in sé stessa sia un falso idolo da venerare.
SANDRO VERONESI — Springfield. È la città dove lei ha cominciato la sua carriera politica, e dove anche Abe Lincoln ha cominciato la sua, ma è anche la città di Homer Simpson. Cioè, lei praticamente si è trovato a cominciare la sua vita politica tra Abramo Lincoln e Homer Simpson: riconosce la sua America in questo?
BARACK OBAMA — Sì. E anche se non ho mai parlato con gli inventori dei Simpson sono sicuro che la scelta di quella città non sia un caso. Springfield è l’archetipo della città americana, con i suoi punti di forza e i suoi punti deboli: da una parte abbiamo l’ordinarietà, la vita tranquilla, le piccole comunità di vicini, e in questo risiede una gran forza — già Tocqueville ha scritto dei legami che vengono da tutte le relazioni e le associazioni che si sviluppano nelle piccole città americane — ma è anche vero che ci sono momenti nei quali quell’America può dimostrarsi diffidente con gli estranei, o settaria nel definire cosa sia la vita buona e il buon cittadino, e chi lo è e chi non lo è. Springfield, che è la capitale dello Stato dell’Illinois, dove Lincoln ha servito per una legislatura nel parlamento statale, dove io ho servito per una legislatura nel parlamento statale, penso che sia realmente rappresentativa di tutto ciò. È una bellissima città, piena di brava gente, ma contiene anche tensioni razziali e alcune delle stesse sfide che si vedono in tutta l’America, e differenze di classe e campanilismo, come pure l’incredibile forza espressa dalle famiglie e dalle comunità che si prendono cura le une delle altre e lavorano insieme e così via. In tutta la mia carriera politica io ho sempre cercato di sostenere che le contraddizioni dell’America non vanno ignorate, al contrario, che vanno abbracciate.
La grande forza del nostro Paese è che è grande e complicato e diversificato, e se dobbiamo essere ben coscienti delle tensioni più oscure che attraversano la nostra storia, non per questo dobbiamo ignorare quella grande forza. Oggi lo stiamo vedendo a diversi livelli sulla nostra attuale scena politica, in particolare nel risveglio delle coscienze generato dall’uccisione di George Floyd l’anno scorso e le conseguenti proteste, quando è stata raggiunta una maggiore consapevolezza e si è cominciato a vedere un certo riscatto rispetto alla storia del razzismo in America. Ma molto spesso, almeno sui media, la questione è posta in modo tale che tu devi scegliere tra considerare l’America il Paese del Bene dove tutto è perfetto o il posto terribile marchiato da schiavismo e discriminazione, e così com’è per qualsiasi altro Paese e qualsiasi altro popolo, entrambe le cose possono essere vere nello stesso tempo. In ragione della nostra maturità democratica dobbiamo essere in grado di accettare queste contraddizioni e di lavorare per trarre da esse insegnamento, per poi risolverle cercando di non ripetere gli errori commessi in passato consolidando quegli elementi del nostro carattere che hanno dato prova di essere degni. SANDRO VERONESI — Una delle sue iniziative da senatore, prima della presidenza, è stato un piano per il contrasto e il contenimento di una possibile pandemia. Perciò sono obbligato a chiederle qual è stato il gap tra ciò che ci si aspettava allora, pensando a una pandemia, e una pandemia vera e propria. BARACK OBAMA — Allora, devo dire innanzitutto che indipendentemente da chi è al potere, quale governo, quali amministratori, la pandemia è e sarebbe comunque rimasta un’emergenza molto seria. Ne ero già convinto da senatore, e la cosa mi preoccupava, e questa è la ragione per cui ho organizzato una task force alla Casa Bianca che lavorava intorno all’eventualità dello scoppio di una pandemia. Si trattava di un problema del tutto prevedibile ma finché la pandemia non si fosse presentata sul serio non c’è maniera di prepararsi completamente. Non sai quali saranno i ceppi originari, non sai quali saranno i potenziali trattamenti, con quanta velocità si spargerà il contagio — ma ciò che era prevedibile era che a un certo punto nel decennio successivo avremmo dovuto fronteggiare una pandemia di qualche sorta. Ci siamo andati vicini più volte, e durante la mia presidenza siamo stati fortunati che il virus H1N1 non si sia dimostrato così letale e così capace di propagarsi come inizialmente avevamo temuto. E poi l’epidemia di Ebola, così letale, tra l’altro causata da un virus non particolarmente efficace, capace di uccidere tante persone in quel modo raccapricciante ma che fummo capaci di contenelitici,
re quasi del tutto in quei tre Paesi dell’Africa, mobilitando uno sforzo internazionale per combatterlo. Detto tutto questo, l’America ha gestito malissimo l’approccio al Covid-19. Non credo possa negarlo nessuno, avevamo un presidente, in quel momento, il mio successore, che ha costantemente trascurato la scienza e promosso cattiva informazione speculandoci sopra politicamente e non solo non ha saputo approfittare del lavoro che avevamo fatto noi, ma ha smantellato molte delle strutture che noi avevamo messo su per affrontare una potenziale pandemia. Il coordinamento su scala internazionale è stato insufficiente. Una delle cose che avevamo introdotto dopo l’Ebola era dedicare veramente molto tempo a un’opera di diplomazia sulla salute pubblica globale e alla creazione di strutture migliori per avere l’allerta il prima possibile in caso di pandemia, e avevamo costruito relazioni reciproche tra scienziati di diversi Paesi così da poter reagire prima davanti a questo tipo di malattie: e tutto questo non c’era più. Chiaramente nemmeno il governo cinese è stato così disponibile, ragion per cui non è stata del tutto colpa dell’America, ma ciò che è vero è che in passato quando si sono presentate grandi sfide sulla salute pubblica noi americani eravamo i leader delle operazioni e in questa situazione non lo siamo stati, e ciò è costato caro, non solo nel nostro Paese, dove abbiamo avuto più di 600 mila morti con una percentuale molto più alta che, per esempio, in Canada, giusto di là dal confine, con una distribuzione demografica simile — non solo questo bensì, io credo, l’assenza di una leadership americana che fosse all’altezza della pandemia è costata cara dovunque.
Ora, quello che io penso, in tutta onestà, è che sia andata meglio di quanto ci aspettavamo grazie allo sviluppo dei vaccini. Non sarà mai troppa l’importanza data agli investimenti nella ricerca di base e nella ricerca genomica negli ultimi decenni, visto che la ragione per cui siamo stati in grado di produrre così in fretta differenti vaccini tutti efficaci è proprio dovuta al fatto che quei comparti di ricerca di base e di nuove metodologie per lo sviluppo dei vaccini erano già al lavoro. E l’America io credo che abbia anche fatto meglio di altri Paesi nella rapida distribuzione di questi vaccini, perché c’è stata forte volontà di spendere denaro per disporne il prima possibile senza stare tanto a preoccuparsi, a negoziare sul prezzo e così via. La mia maggiore preoccupazione a questo punto riguarda la garanzia di una distribuzione equa dei vaccini su scala globale, e questo di nuovo richiede una leadership internazionale, ma fortunatamente l’amministrazione Biden si sta coordinando con gli altri Paesi per far sì che anche i Paesi poveri abbiano accesso ai vaccini rapidamente. Perché se c’è una cosa che questa pandemia ci ha insegnato è che quando si è di fronte a una minaccia transnazionale di queste proporzioni, si tratti di una pandemia o del cambiamento climatico o di migrazioni di massa conseguenti a conflitti, povertà o disastri naturali, i confini non ti proteggono più. Se guardiamo ai ceppi, vediamo che le varianti del virus che si sono sviluppate in Brasile e in India si stanno ora propagando nei Paesi più sviluppati: questo spiega bene l’interesse che abbiamo a garantire che anche in quei Paesi il vaccino sia disponibile tempestivamente.
— Parliamo di Otis Moss. È uno dei miei personaggi preferiti, tra le decine che s’incontrano nel suo libro. Otis Moss lei lo descrive come «un veterano del movimento per i diritti civili, un caro amico e collaboratore di Martin Luther King, pastore di una delle chiese più grandi di Cleveland, in Ohio, ed ex consigliere del presidente Carter». A un certo punto vi incontrate, lui la incoraggia a perseverare nella sua azione politica e durante il colloquio pronuncia la frase secondo me più importante contenuta in tutto il suo libro: «Ogni generazione è limitata da ciò che conosce». Visto il risalto che lei dà a questa frase, le chiedo di dirci qual è l’ispirazione che lei ne ha tratto.
Moss mi stava parlando in un momento in cui stavo dubitando sul fatto che candidarmi alla presidenza fosse una scelta saggia. Anche perché c’erano molte persone che esprimevano un certo scetticismo al proposito, anche all’interno della comunità afroamericana, dove non si credeva possibile che un nero potesse essere eletto presidente degli Stati Uniti. E ciò che Moss fu capace di fare con quella frase fu spiegare che tutti noi continuavamo a costruire sui trionfi e sui fallimenti del passato, che c’è una catena indistruttibile che ci lega gli uni agli altri e che anche coloro che hanno svolto un lavoro incredibile arrivano a un punto dal quale non riescono più a immaginare come le cose potranno progredire, e sta alle nuove generazioni immaginarlo e spostare più avanti il confine. Questo è qualcosa di cui