Corriere della Sera - La Lettura
Le stagioni creano la vita e l’arte crea le stagioni
Un uomo esce di casa e si inventa un altro luogo, un altro tempo. Un’altra stagione. Perché, suggerisce in questo racconto Andrew Sean Greer ispirandosi a Nathaniel Hawthorne, la vita è fatta di stagioni. E se lo è la vita, figuriamoci le arti (lo vedret
Mr. Wakefield non era uno su cui avresti scommesso per una rivolta. Bassetto, l’occhio lungo e il sorriso sardonico, capiva tutti i doppisensi e alle feste non si attardava mai troppo. Negli anni Cinquanta, abitava con la moglie a Gramercy Park, in un appartamento con indirizzo e interni di prestigio, ma impianto idraulico scadente e vista modesta. Portava cappelli fuori moda. Non fumava.
E allora perché lui? Perché proprio Wakefield, tra tutti? Chi lo sa.
Quella mattina, la moglie gli preparò un’omelette con un po’ del formaggio avanzato la sera prima, e quando ebbe finito di mangiare gli raccomandò di fare attenzione ai contanti degli stipendi che si portava. E anche quando attraversava la Quattordicesima, per favore, perché la settimana prima ci avevano investito uno, e perché lo amava, il suo Wakefield. Lo disse davvero, e lui fu colto da un breve pungolo di passione. Lì, in piedi vicino al secchiaio, mentre lanciava un’occhiata a quel bel posteriore dentro la gonna a disegni rosa. Ma era mattina e il lavoro aspettava, per cui la baciò con foga, come un adolescente, tanto che lei arrossì, e con un lampo di malizia mormorò: «Be’, allora...», ma nel giro di un minuto lui era fuori di casa.
Un bel sole. Decise che avrebbe fatto quattro passi. La giornata che aveva davanti incombeva su di lui come una lama dentellata di dettagli. Carte, idee, conversazioni aggressive con tipi che aspettavano solo di soffiargli il posto, le battute ciniche, lo sguardo duro di segretarie che non avrebbe mai avuto. Stava per piombargli addosso. L’avrebbe affrontata, di lì a poco, e, per quel che ne sapeva, per anni e anni. Ma intanto, una passeggiatina.
Proprio davanti lui, un cagnolino si trascinava dietro un guinzaglio. Era bianco, una sorta di terrier, con delle foglie impigliate su tutto il pelo della pancia; pareva reduce da una corsa. Il cane di qualche riccona, scappato al parco. Alzò gli occhi su Wakefield, ansante, con una smorfia sul muso. «Buono, buono…», disse lui piano, abbassandosi per prendere il guinzaglio, ma prima che ci riuscisse il cane scattò in avanti, lasciandolo lì a bocca aperta. Per qualche ragione che non seppe poi mai spiegare, neanche vent’anni dopo, quando tutti avrebbero voluto saperlo, e neanche nei vent’anni che lo separavano dalla morte, lui si mise a inseguirlo. In direzione est, stringendo in mano il cappello, di corsa dietro il cane. Che sgambettava e si bloccava, lo fissava, la lingua a penzoloni, e ripartiva. Lo guardò attraversare l’avenue successiva e quasi teneva il passo, salvo che stava arrivando un grosso camion, e una volta passato, il cane era scomparso.
Wakefield si ritrovò in un territorio strano. Ad appena un isolato da casa, ma in una direzione che lui e la moglie non avevano mai preso; erano newyorkesi degli anni Cinquanta, e il macellaio, il droghiere e il fiorista ce li avevano tutti a ovest, vicino a Gramercy. Questo era un altro mondo, quasi un altro secolo rispetto all’ariosa Quinta, con le sue reginette di bellezza scintillanti e i pubblicitari tutti allegri dopo una serata a champagne. Di lato, lo sguardo si posò un cartello di un appartamento, e quando alzò gli occhi lo rivide appeso a un balcone arrugginito con un geranio che spuntava rigido dal suo vaso, imbambolato dal freddo.
Una vista da là, una vista verso est. Guardò gli edifici e il fumo e i guai che aleggiavano su all’orizzonte, su quello che doveva essere un fiume, laggiù, e Brooklyn. Una vista a est; non riusciva a immaginarsela. Uno sguardo sull’infinito per quel che ne sapeva.
Nel giro di un’ora, aveva versato già tutti i soldi che aveva in tasca per prenderlo: un appartamentino con una camera da letto. Lì in piedi sul balcone, in quella mattinata fredda e imprevista, seppe che quel giorno lui non sarebbe tornato al lavoro, né quella sera a casa. Magari domani; ancora non sapeva. Dal cortile di una
scuola saliva un canto di bambini; lontanissimo, intermittenti, garrivano delle bandiere.
Passarono così dieci anni.
Com’era successo? Semplice: mattina dopo mattina. All’inizio del suo «viaggio», come lo chiamava, lo attribuiva al bisogno di una pausa, al bisogno di quella vista dal balcone, e quasi ogni ora era sul punto di uscire dalla porta e dirigersi verso casa, dalla moglie preoccupata. Questo pensiero confortante, l’idea che di lì a poco sarebbe stato a casa lo sollevava, e gli permetteva di addormentarsi sul divanetto accanto alla finestra, e così l’ora di uscire passava. Si svegliava, ed era troppo tardi, e pensava: domani. E l’indomani il tutto si ripeteva uguale.
Lui era irriconoscibile. Innanzitutto, la barba lo mascherava quasi del tutto, non solo perché copriva quel che il suo viso aveva di più bello — le guance e la mascella — ma perché non era per nulla da lui; di nuovo, una cosa per Wakefield proprio al limite. Ma in effetti, non era proprio su in limite che si trovava? Un decennio dopo, un isolato più in là, sulla soglia di tutte le vite possibili? Andava in giro nella neve a capo scoperto ma portava ovunque un lungo cappotto nero, foderato di una stoffa scozzese rossa trapuntata, e tutti lo prendevano per uno famoso oppure per un pazzo. Non era né l’uno né l’altro: era un contabile di una macelleria che aveva adottato nuovi passatempi e abitudini che non gli si attagliavano né meglio né peggio dei precedenti. Aveva cominciato a dipingere; non era bravo, ma gli aveva fatto incontrare una ragazza. Sonja, pittrice più dotata, più giovane di lui e senza nulla di Mrs. Wakefield tranne gli occhi. La amava, ma non glielo aveva mai detto. Dopotutto, lui adesso poteva sparire da un giorno all’altro.
Fu durante il decimo anno, non molto tempo dopo che Sonja lo aveva lasciato, che un fine settimana, durante una passeggiata, Wakefield fu attratto da un rumore in fondo all’isolato. C’erano decine di ragazze in minigonna e maglie sformate, cartelli che si agitavano ovunque, gente che urlava. Fu trascinato impotente dal flusso che scorreva lungo la sua vecchia Quinta Strada, fino a quando si ritrovò schiacciato contro una signora. Aveva anche lei l’aria esterrefatta, le braccia strette intorno ai sacchetti della spesa; era un ramoscello che fluttua inerme sulla superficie dell’acqua, come lui, in una folla che non si aspettava. Doveva esbiato. sere uscita a fare la spesa. Sbatteva confusa gli occhi azzurri, finché incontrarono i suoi. Naturalmente, era sua moglie.
Gli ci volle un attimo per sovrapporre la donna al ricordo della moglie chiuso al sicuro in soffitta. Lei non lo riconobbe. Era ancora bella, più imponente, l’intelligenza incastonata più salda sul viso — non da reginetta della scuola, ma che spirava ricchezza e felicità, e forse, come perfino nelle vedove felici, un sentore di tristezza e crudeltà. Certo, a lei la sua morte doveva aver portato ricchezza. Vide — nel secondo prima che si allontanasse — che portava ancora la fede. Una vedova non risposata, di buon umore; pieno di struggimento, e per la prima volta, allungò la mano per toccarla. Che brutta cosa aveva fatto; non a lei, ma al vecchio Wakefield. Averlo privato di una cosa così. Ma ovviamente la folla si muoveva, e lei era già lontana, con l’aria un po’ spaventata, risucchiata dalla corrente. Lui la guardò andare e si chiese se, forse, la amava. Era una cosa difficile da capire. I freschi capelli biondi sparirono dietro un cartello. Lei non si voltò; in effetti, anche quando si erano trovati l’uno di fronte all’altra, lei non aveva posato lo sguardo su di lui per più di un istante. Dopotutto, non era un tipo che si notava.
Passarono altri dieci anni, e mentre Wakefield non cambiò, la città sì. La vista, per esempio, la sua sacra vista del mistico oriente era stata bloccata da una biblioteca universitaria, un muro di cemento innalzato contro l’alba. Per le strade non c’erano più cavalli, neanche quelli della polizia. Sui pochi isolati del suo mondo era sceso una sorta di eterno novembre, spoglio e marrone e tetro.
Era la sua giornata libera, e proprio il giorno prima aveva abbandonato uno dei suoi quadri, e il pensiero di restare in casa lo riempiva di una tristezza indicibile. Allora uscì in strada, anche se era freddo e buio. Fece il giro di posti in cui andava da vent’anni, ma la libreria in vetrina non aveva nulla che lo interessasse, e i bar erano tutti troppo affollati — si sarebbe sentito solo — e tutti i suoi posti ormai erano cambiati o avevano chiuso. Wakefield aveva 52 anni. Si era dimenticato a casa il cappello, e percorse le strade a testa bassa, finché si trovò davanti a una porta molto familiare.
Ci era già stato tante volte. Questo punto della Quinta era come una vecchia amante, che sempre lo accoglieva, e sempre lo rispediva via. Ma in realtà era cambiato così poco. Gli stessi arbusti di una volta, la stessa porta rigata di vernice. L’edificio non era cambiato. Lui non era cambiato. Forse, magari, niente era camVide solo la luce calda nella finestra. La chiave funzionava; era dentro; era di sopra, di nuovo sulla soglia di casa sua.
Non fu sorpreso di non trovare nessuno. C’era odore di cibo cucinato da poco, e sul tavolo una bottiglia di vino appena iniziata, ritappata con cura, vicino a una lettera ben distesa, come se fosse stata letta tante volte. Anche dall’ingresso lui scorgeva la luce calda di quella lampada, e riusciva a immaginarsi, sotto, il divano. Appese il cappotto con la fodera scozzese sul vecchio appendiabiti, di fianco a un altro cappotto, ed entrò nell’altra stanza.
A stento notò la lettera sul tavolo. Di sicuro non la lesse. Non poteva sapere che cosa ci fosse scritto, né che non l’avrebbe più ritrovata; che quella sera sarebbe stata bruciata nel fuoco, distrutta per sempre. Wakefield non poteva sapere che era una lettera d’amore, mandata alla moglie la settimana prima, una lettera di un antico amico comune che le era stato vicino nei decenni di vedovanza, e che adesso, infine, dichiarava goffo e con scarso tempismo il suo amore. Era mal scritta e con qualche macchia, forse di lacrime — di chi, io non so. Era stata appallottolata e buttata, recuperata, stirata con il ferro e inviata, e lì giaceva. Era stata letta e riletta, in solitudine, sorseggiando il vino. Era la sola e unica lettera d’amore che la stanza avrebbe mai ospitato — e allora? Le vite che non scegliamo, non ha senso immaginarsele.
Wakefield entrò nel suo vecchio salotto. Vide la lampada, e il divano infossato dal tempo, ed era esattamente quello che desiderava. La stanza aveva il calore che aveva sperato. Il ricordo del balcone, della vista interrotta, del quadro cominciò a farsi evanescente. Uno dopo l’altro, i dettagli sparirono, anche se, naturalmente, potevano forse ripresentarsi vividi domani. Ma quella stanza era gentile. E allora Wakefield si tolse il cappotto e le scarpe, si sdraiò sul divano alla luce della lampada che un tempo aveva aggiustato, e si addormentò.
Poi, non sentì la chiave girare nella toppa. Non sentì la donna varcare la soglia, né i tre singhiozzi squassanti quando lo vide. Non vide la lettera finire nel fuoco. Wakefield era immerso in un sonno profondo, in quel grande sollievo che solo il sonno ci offre — la solitudine vera, in cui si sfugge finalmente all’assedio invincibile di quell’amico, del compagno soffocante di sempre: noi stessi.