Corriere della Sera - La Lettura
Forme d’asfalto che dicono il nostro mondo
I tracciati sono lo spunto per riflettere sul futuro della mobilità e delle città
Itracciati dei percorsi automobilistici sono geometrie, fantasie, forme che vivono al di là della loro funzione specifica: far sì che bolidi velocissimi li percorrano in una competizione connaturata all’idea stessa di tecnologia. Quei percorsi, che si tratti di Monza — gloriosamente vintage — o di Suzuka, sono anche involontarie metafore. Richiami, sollecitazioni ad andare oltre: a riflettere su che cosa i motori e la mobilità abbiano significato per noi e come hanno plasmato il nostro stesso pianeta. Guardiamo la loro forma e riflettiamo sulle nostre città. Un circuito di Formula 1 come un mandala.
Pensavamo che la realtà che ci circonda fosse statica o vagamente progressiva. Ci accorgiamo oggi che le improvvise fluttuazioni del clima e della pressione ambientale hanno, invece, un costo economico e di vite umane elevatissimo. Ciò si deve soprattutto al modo in cui abbiamo costruito le nostre città, da cui provengono le maggiori emissioni di CO2. Possiamo però riflettere su criticità e potenzialità delle città che conosciamo. Per esempio, le emissioni pro capite di Amsterdam o di un’altra città storica europea sono in media inferiori rispetto a quelle degli abitanti di Los Angeles o di un’altra città della costa ovest americana. Anche la qualità di vita, se misurata in termini di salute e accessibilità ai servizi, è mediamente migliore nella città compatta europea.
Grazie alle ricerche condotte nel centro di ricerca sulla città sostenibile che dirigo a Portsmouth, sappiamo che l’inclusione dei percorsi ciclabili, l’introduzione di qualche dispositivo tecnologico e l’educazione civica, non bastano da sole a motivare i vantaggi della città compatta.
La minimizzazione degli effetti del cambiamento climatico si deve soprattutto alla plasticità del tessuto urbano e a strade che consentano l’attivazione di più alternative di trasporto, più usi di una stessa componente urbana. La viabilità, ad esempio, include spazi inclusivi sicuri ed accessibili, destinati anche alla sosta e allo svago. Ad Amsterdam, come del resto anche a Vienna, la combinazione della viabilità storica con quella più geometrica ed ordinata dell’Ottocento, prova ulteriormente che le potenzialità dipendono, appunto, dalle molteplici possibilità combinatorie e non alternative.
In assenza di una integrazione con l’esistente, invece, il modello urbano ottocentesco, e successivamente quello moderno, con i grandi viali ordina
ti, allineati, a scacchiera, e destinati prevalentemente al trasporto, ha mostrato le sue debolezze.
Fino alla loro dissociazione dal costruito, avvenuta in tempi recenti, anche gli orti e i terminali del verde produttivo univano un tempo inscindibilmente la città al territorio circostante. Come nel caso dell’Urban Jungle di Prato, di Stefano Boeri e Stefano Mancuso, anche oggi, viabilità e percorsi abbandonati possono ritornare ad essere serbatoi di possibilità, in grado di comprendere la mitigazione dell’effetto isola di calore, grazie alla riforestazione.
Osservare — come fosse un mandala, lo abbiamo detto — le curve di un percorso di Formula 1, che pure è la negazione del concetto di città e di organismo, ci avverte che il controllo geometrico e razionale del territorio e dei servizi ad alto consumo energetico e monofunzionali, come la viabilità urbana e territoriale, lasceranno il posto al modello organico medievale, tra i più longevi nella storia dell’umanità.
Come sostiene Cristopher Alexander in un saggio del 1965, La città non
è un albero, ancora oggi, grazie alla quantità di interconnessioni, questo tipo di città stratificata risponde meglio delle città di nuova fondazione ai bisogni delle comunità. E certamente la sua versatilità garantisce una risposta migliore ai fenomeni di feedback ambientale, rispetto alle periferie monofunzionali del dopoguerra.
Come Alexander, anche Richard Sennett, fin dagli anni Settanta, promuove un’idea di città vibrante, disordinata, adattabile, rispetto alla città pianificata e ordinata, a suo avviso imperfetta e in grado di produrre un ambiente urbano fragile e restrittivo, in cui gli spazi pubblici sono assediati da urbanisti, privatizzazioni e un eccessivo controllo autoritario. La «città aperta» di Sennet, implica quindi la consapevolezza che etica, giustizia sociale ed ecologia debbano necessariamente convergere, e dipendono inscindibilmente dalle componenti fisiche della città come appunto la forma, la dimensione e le proporzioni delle strade e degli spazi pubblici. Le sfide alle crisi ambientali possono quindi essere affrontate attraverso un processo combinatorio che includa sia la progettazione come la conosciamo sia l’accettazione della complessità, che si manifesta attraverso tutte quelle preziose anomalie del sistema regolatore che, in passato, hanno offerto risposte inaspettate a scenari imprevisti.
Secondo gli studi transdisciplinari riguardanti la biologia dell’evoluzione, condotti insieme a Telmo Pievani per il Padiglione Italia alla Biennale di Venezia, sono proprio le suddette anomalie che consentono di immaginare possibilità di trasformazione di strade, forme e superfici degli edifici esistenti, aggiungendo ad essi nuove funzioni, aumentandone la ridondanza, e promuovendo la diversità, l’inclusività e la simbiosi con specie animali e vegetali, da cui dipende il futuro delle città e la nostra stessa sopravvivenza.
Un percorso di Formula 1 — che è poi una strada che non porta da nessuna parte, una strada e basta, senza città intorno — lancia comunque un messaggio. Ci dice che abbiamo bisogno di libertà e non costrizioni. Usciamo dal loop, guardiamo avanti.