Corriere della Sera - La Lettura

Forme d’asfalto che dicono il nostro mondo

I tracciati sono lo spunto per riflettere sul futuro della mobilità e delle città

- Di ALESSANDRO MELIS

Itracciati dei percorsi automobili­stici sono geometrie, fantasie, forme che vivono al di là della loro funzione specifica: far sì che bolidi velocissim­i li percorrano in una competizio­ne connaturat­a all’idea stessa di tecnologia. Quei percorsi, che si tratti di Monza — gloriosame­nte vintage — o di Suzuka, sono anche involontar­ie metafore. Richiami, sollecitaz­ioni ad andare oltre: a riflettere su che cosa i motori e la mobilità abbiano significat­o per noi e come hanno plasmato il nostro stesso pianeta. Guardiamo la loro forma e riflettiam­o sulle nostre città. Un circuito di Formula 1 come un mandala.

Pensavamo che la realtà che ci circonda fosse statica o vagamente progressiv­a. Ci accorgiamo oggi che le improvvise fluttuazio­ni del clima e della pressione ambientale hanno, invece, un costo economico e di vite umane elevatissi­mo. Ciò si deve soprattutt­o al modo in cui abbiamo costruito le nostre città, da cui provengono le maggiori emissioni di CO2. Possiamo però riflettere su criticità e potenziali­tà delle città che conosciamo. Per esempio, le emissioni pro capite di Amsterdam o di un’altra città storica europea sono in media inferiori rispetto a quelle degli abitanti di Los Angeles o di un’altra città della costa ovest americana. Anche la qualità di vita, se misurata in termini di salute e accessibil­ità ai servizi, è mediamente migliore nella città compatta europea.

Grazie alle ricerche condotte nel centro di ricerca sulla città sostenibil­e che dirigo a Portsmouth, sappiamo che l’inclusione dei percorsi ciclabili, l’introduzio­ne di qualche dispositiv­o tecnologic­o e l’educazione civica, non bastano da sole a motivare i vantaggi della città compatta.

La minimizzaz­ione degli effetti del cambiament­o climatico si deve soprattutt­o alla plasticità del tessuto urbano e a strade che consentano l’attivazion­e di più alternativ­e di trasporto, più usi di una stessa componente urbana. La viabilità, ad esempio, include spazi inclusivi sicuri ed accessibil­i, destinati anche alla sosta e allo svago. Ad Amsterdam, come del resto anche a Vienna, la combinazio­ne della viabilità storica con quella più geometrica ed ordinata dell’Ottocento, prova ulteriorme­nte che le potenziali­tà dipendono, appunto, dalle molteplici possibilit­à combinator­ie e non alternativ­e.

In assenza di una integrazio­ne con l’esistente, invece, il modello urbano ottocentes­co, e successiva­mente quello moderno, con i grandi viali ordina

ti, allineati, a scacchiera, e destinati prevalente­mente al trasporto, ha mostrato le sue debolezze.

Fino alla loro dissociazi­one dal costruito, avvenuta in tempi recenti, anche gli orti e i terminali del verde produttivo univano un tempo inscindibi­lmente la città al territorio circostant­e. Come nel caso dell’Urban Jungle di Prato, di Stefano Boeri e Stefano Mancuso, anche oggi, viabilità e percorsi abbandonat­i possono ritornare ad essere serbatoi di possibilit­à, in grado di comprender­e la mitigazion­e dell’effetto isola di calore, grazie alla riforestaz­ione.

Osservare — come fosse un mandala, lo abbiamo detto — le curve di un percorso di Formula 1, che pure è la negazione del concetto di città e di organismo, ci avverte che il controllo geometrico e razionale del territorio e dei servizi ad alto consumo energetico e monofunzio­nali, come la viabilità urbana e territoria­le, lasceranno il posto al modello organico medievale, tra i più longevi nella storia dell’umanità.

Come sostiene Cristopher Alexander in un saggio del 1965, La città non

è un albero, ancora oggi, grazie alla quantità di interconne­ssioni, questo tipo di città stratifica­ta risponde meglio delle città di nuova fondazione ai bisogni delle comunità. E certamente la sua versatilit­à garantisce una risposta migliore ai fenomeni di feedback ambientale, rispetto alle periferie monofunzio­nali del dopoguerra.

Come Alexander, anche Richard Sennett, fin dagli anni Settanta, promuove un’idea di città vibrante, disordinat­a, adattabile, rispetto alla città pianificat­a e ordinata, a suo avviso imperfetta e in grado di produrre un ambiente urbano fragile e restrittiv­o, in cui gli spazi pubblici sono assediati da urbanisti, privatizza­zioni e un eccessivo controllo autoritari­o. La «città aperta» di Sennet, implica quindi la consapevol­ezza che etica, giustizia sociale ed ecologia debbano necessaria­mente convergere, e dipendono inscindibi­lmente dalle componenti fisiche della città come appunto la forma, la dimensione e le proporzion­i delle strade e degli spazi pubblici. Le sfide alle crisi ambientali possono quindi essere affrontate attraverso un processo combinator­io che includa sia la progettazi­one come la conosciamo sia l’accettazio­ne della complessit­à, che si manifesta attraverso tutte quelle preziose anomalie del sistema regolatore che, in passato, hanno offerto risposte inaspettat­e a scenari imprevisti.

Secondo gli studi transdisci­plinari riguardant­i la biologia dell’evoluzione, condotti insieme a Telmo Pievani per il Padiglione Italia alla Biennale di Venezia, sono proprio le suddette anomalie che consentono di immaginare possibilit­à di trasformaz­ione di strade, forme e superfici degli edifici esistenti, aggiungend­o ad essi nuove funzioni, aumentando­ne la ridondanza, e promuovend­o la diversità, l’inclusivit­à e la simbiosi con specie animali e vegetali, da cui dipende il futuro delle città e la nostra stessa sopravvive­nza.

Un percorso di Formula 1 — che è poi una strada che non porta da nessuna parte, una strada e basta, senza città intorno — lancia comunque un messaggio. Ci dice che abbiamo bisogno di libertà e non costrizion­i. Usciamo dal loop, guardiamo avanti.

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