Corriere della Sera - La Lettura
Il romanzo è meglio di Paul Newman
«L’uomo di Philadelphia» di Richard Powell uscì nel 1956 e divenne un film. Rieccolo
Quando in un libro si leggono affermazioni come «quando si è avvocati — e lui lo era — non si prendono decisioni avventate», vengono subito in mente le atmosfere di un certo cinema, quello dei drammoni americani anni Cinquanta in bianco e nero con un piede nel noir, e in effetti il monumentale L’uomo di Philadelphia di Richard Powell, apparso nel 1956 e riproposto oggi da Marcos y Marcos tradotto da Raoul Soderini, ebbe proprio tale destino. All’uscita negli Usa, L’uomo di Philadelphia incontrò un successo immediato, scalò le classifiche di vendita garantendo al suo autore una carriera articolatasi in altri dieci romanzi, e finì presto adattato per il cinema: il risultato fu il dimenticabile film di Vincent Sherman I segreti di Filadelfia, con Paul Newman nel ruolo del protagonista, l’avvocato e arrampicatore sociale Anthony Judson Lawrence. La scarsa resa sul grande schermo non deve però far ignorare la riedizione, che arriva dopo mezzo secolo di assenza dagli scaffali — la prima traduzione italiana Garzanti andò fuori catalogo negli anni Settanta — dato che il romanzo, pur senza voli stilistici o particolare spessore filosofico, vale più del film, e soprattutto racconta molto altro.
Se è vero che, da metà libro in poi, la vicenda del nostro avvocato, che dopo essersi fatto strada nell’alta società di Philadelphia si trova di fronte a un decisivo nodo morale (accettare o meno una causa sulla quale il pubblico ministero intende speculare politicamente), prende tutta la scena, il romanzo, di ben 560 pagine, si configura piuttosto come un’epopea generazionale, sempre all’insegna della scalata dei molti gradoni della ziggurat sociale della metropoli della Pennsylvania. Il primo personaggio che il lettore va a conoscere è infatti la giovane irlandese Margaret O’Donnell, bisnonna del protagonista, che lascia il Paese natale in seguito alla Grande carestia e, arrivata in America, si dà subito da fare per entrare a servizio come cameriera presso una delle famiglie più ricche di Philadelphia. Seguiranno sua figlia e la figlia di lei, tutte determinate a uscire dai margini della società con ogni mezzo, matrimonio incluso, ma non sempre fortunate nei loro piani. Tre generazioni di rovente ambizione sociale il cui frutto ultimo è proprio Anthony Judson Lawrence, che trova così nel romanzo uno spessore psicologico — e un conflitto interiore, figlio di una pressione plurigenerazionale — assente nel film.
Si potrà dire che Richard Powell è un artigiano, più che un artista, e che il suo unico intento sia forgiare una narrazione funzionante, che tenga il lettore sulla pagina e lo spinga ad andare avanti: più che di entrare nel territorio del «grande romanzo americano», la sua preoccupazione è di evitare di finire in quello del «grande polpettone americano», ma l’operazione riesce: L’uomo di
Philadelphia non sarà un capolavoro ritrovato, ma ancora oggi come nel ’56 è un’opera di narrativa capace di intrattenere il lettore dalla prima pagina fino all’inevitabile scena madre nella più classica delle aule di tribunale statunitensi.