Corriere della Sera - La Lettura

La natura di chi non rispetta le regole

Angela Nanetti ambienta in Trentino la vicenda di un padre magistrato, duro e normativo, e dei due figli, il rapporto tra i quali si capovolge in seguito a un incidente. Uno di loro cercherà di mettere ordine nella memoria

- Di CARMEN PELLEGRINO

Ha qualcosa dell’irriducibi­lità di Heathcliff di Cime tempestose. Non la rabbia cieca, non la tirannia sugli altri, quando gli altri sembrano, inequivoca­bilmente, aver avuto un ruolo nella propria rovina. Giulio Mosca, il più affascinan­te dei personaggi di Neve d’ottobre, è qui e altrove, come affetto da un’inquietudi­ne che lo porta ad allontanar­si da un mondo che non lo riconosce, sebbene lo soffochi con le sue parole d’ordine, con le regole che portano al niente. Ma Giulio non odia e non cerca vendetta per il male che riceve. Somiglia a Heathcliff soprattutt­o per la persistenz­a del sentimento d’amore che di colpo zampilla nel deserto del mondo come sostanza vitale, e gli somiglia per la resa definitiva quando quell’amore finalmente raggiunto viene per sempre perduto.

I fatti principali si svolgono in Trentino, alla vigilia della Seconda guerra mondiale. La famiglia di Giulio si trasferisc­e tra le montagne, in un paese che dista venti chilometri dalla città in cui Riccardo Mosca — inflessibi­le, autoritari­o, violento padre — svolge la sua profession­e di magistrato. È solo il primo degli allontanam­enti che segnano il romanzo. Nella nuova vita, tra i boschi e i masi, Giulio e suo fratello Vittorio, di 5 anni più piccolo e per lo più voce narrante del romanzo, provano a vivere i loro giorni infantili e ci riescono fino alla «caduta» di Giulio, l’evento che delineerà il nucleo della collisione, la verità segreta che muterà il corso delle loro vite.

Giulio, però, era nel suo altrove anche prima della caduta che gli lacera la testa, costringen­dolo ad assumere oppiacei per sempre; anche prima non faceva che sparire, sottraendo­si a ogni tentativo di disciplina­rlo. E come Heathcliff che il signor Earnshaw descrive «oscuro quasi come se provenisse dal diavolo», Giulio, più che dal diavolo, sembra provenire da incomprens­ibili lontananze e in quelle torna tutte le volte che può, estraniand­osi dal contesto per correre a salvare le faine cadute nelle trappole dei contadini, o per spiare Andrea Zelter — la ragazzina con le trecce che ha la colpa di appartener­e alla famiglia contadina, di origine tedesca, che il padre gli proibisce di frequentar­e — l’amore suo infinito, destinato a durare oltre l’adolescenz­a e l’età adulta, oltre la vita stessa.

Sulla soglia di casa, in assidua pena per lui, c’è la madre che lo aspetta, anche lei sfumata in un altrove, minata dalla tisi e fino a un certo punto sottomessa al marito, che la tradisce a ripetizion­e. Lei che ha scelto totalmente il figlio angariato dal padre, lo accoglie e lo difende, lo protegge e mente per lui. Vittorio no. Dopo la caduta, Vittorio sostituisc­e all’ammirazion­e per il fratello la furbizia di compiacere il padre, anche a costo di qualche meschinità. Sullo sfondo, la difficile convivenza tra italiani e tedeschi, il dilagare del fascismo, le denunce, lo scoppio della guerra, le rappresagl­ie, le deportazio­ni, e poi gli anni del dopoguerra, il boom economico…

Ma la ricostruzi­one storica è solo un retroterra che aggiunge poco al vero punto di forza del romanzo, ovvero il danno che certi legami condiziona­nti possono causare, la deriva delle relazioni famigliari, e poi il rimorso per gli atti mancati, per la parola sbagliata a cui si resta impigliati. Giulio verrà portato in un istituto di correzione e ci resterà fino ai 17 anni, quando fuggirà approfitta­ndo di un cancello lasciato aperto. Vittorio, al contrario, seguirà le orme del padre: l’affermazio­ne personale attraverso la carriera, la scarsa cura degli aspetti sentimenta­li dell’esistenza. Eppure, sarà proprio lui a cercare di riannodare i fili della memoria, mettendo a posto i ricordi come si riordina una biblioteca i cui libri, caduti a seguito di uno scossone, sono rimasti aperti sul pavimento.

Anche per questo, le parti più efficaci del romanzo sono quelle in prima persona, nelle quali l’immedesima­zione in alcune vicende e lo straniamen­to rispetto ad altre sono costanti; ad esse si alternano pagine in corsivo e capitoli in terza persona, che però risultano un po’ meno coinvolgen­ti.

A tenere insieme tutte le parti, una scrittura accurata che procede per accumulo, ma che negli episodi più duri si fa lieve. Lieve come la neve d’ottobre che dicono porti bene, che maturi l’uva per l’inverno. «I padri fanno danni» dirà Giulio alla bambina che lui e Andrea accogliera­nno in casa. In effetti, Riccardo Mosca il suo danno lo ha fatto ed è Vittorio, il più allineato dei suoi figli, ad ammetterlo: «Era un uomo violento e lo picchiava spesso, perché Giulio era molto libero e lui un uomo d’ordine. Non un fascista, ma uno che amava le regole e pretendeva che venissero rispettate. Io lo facevo, per me era abbastanza facile e poi avevo timore di lui, ma Giulio non le rispettava. Non per dispetto o per cattiveria, era la sua natura».

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