Corriere della Sera - La Lettura
Il romanzo di tante patrie nei versi custoditi dal cassetto
Americana d’origini bengalesi, Jhumpa Lahiri costruisce un «apocrifo» d’autore nella nostra lingua. E lo stratagemma narrativo del manoscritto ritrovato funziona
S’intitola Il quaderno di Nerina il nuovo libro di Jhumpa Lahiri costruito con una strategia narrativa molto oculata. Si tratta di qualcosa di un po’ diverso da una semplice raccolta di poesie. I testi poetici che compongono il grosso del volume, infatti, sono inseriti in una cornice di carattere storico-biografico e filologico che ha la funzione di accertare e insieme di rendere tanto più incerta, in un interrotto gioco di specchi e d’interposte persone, la reale identità dell’autrice di questi versi. Da questo punto di vista, la cornice va considerata a tutti gli effetti parte integrante del libro, al punto da porsi come garante di un significato e di una motivazione che i testi di per sé presi stentano invece ad avere.
Andiamo con ordine. In una prefazione a sua firma, Jhumpa Lahiri racconta di aver trovato, in seguito al trasferimento in una casa romana (da diversi anni vive infatti a Roma), un quaderno di poesie scritte a mano con la dicitura «Nerina» riportata in copertina, assieme a qualche altro oggetto di varia natura. «Non capivo — scrive al riguardo — se Nerina fosse il nome dell’autrice, o di una destinataria, oppure una musa, o semplicemente il titolo attribuito al testo». Di qui il ricorso, visto che anche il testo delle poesie si presentava in una forma piuttosto instabile, all’aiuto di una più o meno fantomatica studiosa di poesia italiana, Verne Maggio, alla quale il manoscritto sarebbe stato affidato in vista della pubblicazione. A quest’ultima vengono attribuite così la cura delle poesie, un saggio introduttivo in cui si avanza qualche ipotesi riguardo all’identità e alla biografia dell’autrice, nonché le note al testo che chiudono il volume.
Si tratta dunque del grande paradigma del manoscritto ritrovato, che tanti frutti ha dato nelle letterature di ogni lingua e tempo. E proprio qui, nella messa in opera del meccanismo narrativo, va trovata la parte più vitale di questo libro. Ricostruzioni e depistaggi, supposizioni e convergenze, accertamenti ed effetti illusionistici: in fondo, come spesso accade, non importa affatto quanto vi sia di reale e quanto d’immaginato, perché è comunque il gioco delle allusioni, delle rifrazioni e dei nascondimenti a importare; cioè appunto lo spazio fluido, che è sempre insieme finto e vero, azionato dalla macchina narrativa nel suo complesso. Di conseguenza il rapporto che si crea tra l’autrice del libro e la pseudo-autrice delle poesie — detto altrimenti: tra Jhumpa Lahiri e Nerina — è anch’esso ascrivibile a un grande paradigma antropologico e letterario, quello del doppio, della persona che al contempo è non è l’autore.
Dalle poesie del Quaderno di Nerina, del resto, si possono trarre moltissimi elementi che rimandano alla firmataria del volume. Lo fa per noi nel suo saggio introduttivo la curatrice dei testi poetici, che nel suo intervento di ricostruzione biografica scrive ad esempio: «L’impressione è che Nerina sia un’autrice vissuta a cavaliere fra il Ventesimo e il Ventunesimo secolo, sicuramente a Roma, ma che non sia di madrelingua italiana». E lo stesso vale per il legame profondo con Calcutta, i soggiorni in diverse città italiane, le lunghe permanenze negli Stati
Uniti, l’educazione e le predilezioni artistiche e letterarie, il retaggio familiare, la formazione cosmopolita (che è poi il rovescio dell’essere o sentirsi apolidi), le abitudini quotidiane, le forme d’attenzione, la conoscenza di varie lingue. Sono tutti elementi che si evincono dalle poesie: «Il corpo si sposta facilmente, banalmente/ da un continente all’altro/ e così nel giro di cinque giorni/ si confondono gli anni e gli spazi/ che abitavo solamente una volta».
In ogni caso, tutto converge attorno alla questione della lingua. E non solo perché, come ci avverte la studiosa che ha in cura le poesie, Nerina «parla una lingua diversa dall’italiano», ma anche e soprattutto perché molto fa pensare che Nerina (o chi per lei) non abbia scritto questi versi direttamente in italiano, bensì in una o più lingue diverse. «Si intravede che Nerina abbia lavorato in più di una lingua», come dice una nota. Il gioco delle rifrazioni e delle ambiguità s’estende dunque a tutto campo. Eppure, di contro a tanta fluidità e incertezza sono proprio le poesie, almeno nella loro risultanza in lingua italiana, ad apparire fin troppo statiche e fissate al loro contenuto, alla loro referenza pura e semplice.
Questi versi di volta in volta raccontano questo o quello, ma non dicono al contempo anche di altro. Il gioco degli smarcamenti si rivela più debole, allora, proprio là dove più dovrebbe farsi riconoscere: nella voce della poesia, della lingua che mentre parla del mondo ci racconta anche sé stessa e la propria origine, nella piena consapevolezza di sé e dei propri limiti. Così questa lingua poetica finisce per scorrere via facile facile come se non avesse anch’essa radici, una risonanza e una storia interiori, un effetto d’eco. Proprio perché si lascia inchiodare al proprio contenuto facendosi pigliare con le mani nel sacco, insomma, questa poesia fatica a far sentire il proprio profumo. Come si diceva all’inizio, il libro di Jhumpa Lahiri paga di più delle poesie di Nerina.