Corriere della Sera - La Lettura

È il museo la più grande opera d’arte della modernità

- di VINCENZO TRIONE

Come in un romanzo,

Krzysztof Pomian ha affrontato in tre volumi la storia politica, culturale e sociale degli spazi espositivi. Un’epica straordina­ria che, spiega in questa intervista a «la Lettura», è fatta di luoghi «che non potranno mai essere sostituiti dalle immagini digitali»

Nella modernità si sono succeduti movimenti, fenomeni e poetiche, tra interruzio­ni, false partenze e ricomincia­menti. In questo caleidosco­pio di forme, forse c’è stato un solo punto fermo: il museo. Che, dopo essere stato costruito, riempito e consolidat­o, è stato sfidato, aggredito, profanato, messo in discussion­e. Si pensi alle dichiarazi­oni iconoclast­e pronunciat­e da tanti protagonis­ti della avanguardi­e primonovec­entesche: luoghi di conservazi­one statici, fermi e senza vita, avvolti dentro un’aura di anacronism­o, i musei vengono descritti come templi di visioni senza vita. Eppure, proprio i futuristi e i dadaisti hanno attribuito a quelle istituzion­i un potere quasi taumaturgi­co, concependo­le come cornici in grado di legittimar­e alcuni atti scandalosi.

Siamo dinanzi a complessi dispositiv­i mobili, capaci di rimodulare e di riarticola­re gesti, discorsi, pratiche; assemblage che connettono elementi eterogenei in un disegno unitario, sempre in divenire.

Il dispositiv­o-museo connette differenze. Situa quadri e sculture in una dimensione metafisica; e, insieme, non è insensibil­e alle pressioni del mercato e alle oscillazio­ni del gusto. Si offre come eterotopia extra-temporale ed extra-territoria­le, alimentata però dai visitatori. Ci conduce fuori dal flusso della vita activa e, al tempo stesso, è in dialogo con questo stesso flusso. Teatro all’interno del quale l’arte rivela la propria genealogia, ma anche palcosceni­co di situazioni attuali.

In grado di tenere insieme tutela e ricerca, formazione e intratteni­mento, questo originale medium pubblico combina e riscrive temporalit­à non contigue: ci ricorda chi siamo stati e chi siamo ora; e ci parla di una società che non vuole sopravvive­re a sé stessa, ma abita il passato per inventare il futuro. Ma, soprattutt­o, il museo si presenta come una tra le più prodigiose opere d’arte totali dell’età moderna che, al suo interno, racchiude tante altre creazioni (quadri, sculture, fotografie, video). Un’opera d’arte totale, eterogenea e dissonante, attraversa­ta da talenti e da segni diversi, destinata a farsi, a disfarsi e a rifarsi ininterrot­tamente nel corso dei secoli, testimonia­nza di una bellezza inintenzio­nale, espression­e di un implicito, collettivo e diffuso Kunstwolle­n (volontà d’arte).

La storia di questo eccentrico palinsesto è ripercorsa ora da uno tra i più autorevoli museografi viventi, Krzysztof Pomian, in un imponente progetto critico ed editoriale intitolato Il museo. Una storia mondiale. Una storia mondiale, politica, sociale e culturale dei musei che, finora, nessuno aveva mai affrontato. Tre volumi che raccontano una vicenda quasi epica (il primo è appena stato pubblicato da Einaudi): Dal tesoro al museo; L’affermazio­ne europea, 1789-1850 e Alla conquista del mondo, 1850-2020. Come un appassiona­nte romanzo, che salda erudizione, sapienza ermeneutic­a e gusto per l’affabulazi­one. Un lungo viaggio: dalle tombe egizie e cinesi ai tesori reali, dagli Uffizi, al Louvre, fino agli scenari dei giorni nostri. Un opus magnum esito di più di

mezzo secolo di studi portati avanti con rigore, acume e maestria archivisti­co-filologica dallo storico dell’arte polacco (Varsavia, 1934), da anni trapiantat­o in Francia, formatosi all’Università di Varsavia, espulso per ragioni politiche nel 1968, emigrato a Parigi nel 1973, direttore onorario del Cnrs (Centro nazionale per la ricerca scientific­a), autore di libri tradotti in diverse lingue, che spaziano dalla teoria della storia (L’Europa e le sue nazioni, il Saggiatore) al collezioni­smo (Dalle sacre reliquie all’arte moderna, il Saggiatore, e Collezioni­sti, amatori e curiosi, il Saggiatore).

Nell’introduzio­ne al suo libro, lei parla del museo come di un luogo strano e contraddit­torio. Inutile, perché «non soddisfa alcuna necessità vitale», ma anche indispensa­bile, perché una società moderna non può essere concepita senza queste università di democrazia. Il museo è uno spazio pubblico, perché non appartiene a nessun individuo, ma è anche un territorio di profanazio­ni, perché «non partecipe di alcun culto religioso». Infine, le istituzion­i museali

mettono in scena il dialogo tra invisibile e visibile: portano qui frammenti che vengono dall’aldilà, da altre epoche.

«I musei ospitano oggetti già desacraliz­zati: ad esempio, le antichità pagane delle società cristiane, gli accessori liturgici cattolici, i beni dei reali e quelli dei nobili (dopo la Rivoluzion­e francese). I musei espongono anche patrimoni privati della loro utilità e ridotti allo stato di immondizia, come accade con i residui della nostra quotidiani­tà o delle nostre attività economiche. A queste reliquie i musei conferisco­no una nuova sacralità e dignità. Si tratta di una sacralità non religiosa ma profana, legata non alle origini mitiche ma al passato e al futuro. Si compie un prodigio: oggetti ora privi di significat­o si fanno tracce del passato, mediatori tra lo stato di un mondo scomparso e la condizione del mondo in cui stiamo vivendo: o meglio, tra i nostri antenati e i loro posteri. Così facendo, i musei trasforman­o tesori privati in beni di tutti».

Il museo è anche una meraviglio­sa macchina del tempo. È, per riprendere un’immagine di Walter Benjamin, come una costellazi­one dove ciò-che-èstato incontra ciò-che-è-adesso. Raccoglie opere provenient­i da epoche lontane e, al tempo stesso, guarda verso l’avvenire. È, lei scrive, «solo in apparenza rivolto al passato: in realtà punta verso il futuro», per farsi specchio di «società futurocent­riche». Ci parla del nesso museo-storia?

«Il museo è una raccolta di oggetti provenient­i dal passato: a volte, da un passato remoto. Sono oggetti che devono essere mostrati nel presente e che vanno conservati per un futuro indefinita­mente lontano. Si vuole

rendere visibile ciò che è rimasto della storia. Eppure, le esigenze di conservazi­one non sono facilmente compatibil­i con le esigenze espositive. Ogni curatore di museo deve risolvere quello sempre lo stesso dilemma: conciliare passato, presente e futuro».

Il museo testimonia quello che Jacques Derrida chiamava il «mal d’archive». È un «male» che ha contagiato anche archivi, bibliotech­e e, successiva­mente, il web. Qual è la più grande differenza tra queste istituzion­i?

«Il trionfo nel Medio Oriente antico e in Cina delle monarchie sacre comporta la nascita di tre tipi diversi di raccolte: documenti prodotti dalle cancelleri­e e conservati per il buon andamento degli affari (archivi); libri scritti da funzionari (bibliotech­e); e oggetti considerat­i doni degli dèi, che devono essere loro restituiti dopo la morte del sovrano (tesori). Archivi e bibliotech­e sono ancora con noi, anche se in forma modificata. Con un certo ritardo, gli archivi vengono oggi aperti agli studiosi. Le bibliotech­e non sono solo private, ma anche pubbliche. Invece, sono scomparsi i tesori: almeno nell’accezione che è stata data nei secoli, dall’antichità fino al tardo Medioevo. I tesori sono stati sostituiti dai musei. Archivi, bibliotech­e e musei sono istituzion­i che collegano il passato al futuro attraverso l’agenzia del presente. Ma si occupano di varie tipologie di “semiofori”: di cose che rappresent­ano l’invisibile, dotate di precisi significat­i e simboli. Il primo custodisce documenti, il secondo conserva creazioni individual­i, il terzo raduna materiali investiti di significat­o».

Oggi è in atto una sempre più diffusa museizzazi­one: si tende a musealizza­re qualsiasi oggetto di uso quotidiano. Come spiega questa «museo-mania», che ha portato alla nascita di circa 85 mila musei nel mondo?

«Non userei il termine “museo-mania”. C’è stato un processo storico che ha avuto inizio alla fine del XV secolo. Ed è stato piuttosto lento. Nel tempo della Rivoluzion­e francese e in quello della prima rivoluzion­e industrial­e, questo processo ha avuto un’accelerazi­one. Dopo la Seconda guerra mondiale, con l’età dell’informazio­ne, c’è stata un’ulteriore accelerazi­one. Noi chiamiamo “rivoluzion­e” un’interruzio­ne violenta nel corso delle attività umane: si distruggon­o oggetti materiali ma anche costumi, abitudini e organizzaz­ioni sociali. Si succedono tanti cambiament­i, che ci fanno oscillare tra la sensazione di perdita e il bisogno di preservare tracce di realtà perdute. Ecco: il museo è un’istituzion­e di una società che prende coscienza della propria storicità».

Nel Novecento il museo è stato spesso demonizzat­o dai protagonis­ti delle avanguardi­e. Eppure, futuristi e dadaisti lo hanno pensato come spazio in grado di legittimar­e gesti, situazioni, esperienze. Come spiega questa dialettica tra antimuseal­izzazione e musealizza­zione?

«Gli artisti d’avanguardi­a hanno criticato violenteme­nte i musei solo quando queste stesse istituzion­i erano chiuse alle loro invenzioni. Poi, senza protestare, hanno accettato di esporre le loro opere nei musei da essi progettati».

Nei secoli, il Louvre, gli Uffizi o i Vaticani sono stati un approdo, una consacrazi­one. Oggi molti giovani artisti iniziano il loro percorso esponendo già, ad esempio, in un museo. Come giudica questa trasformaz­ione?

«Mi sembra dannoso. Prima di trovare il proprio ultimo rifugio in un museo, le opere d’arte devono vivere tra la gente in contesti pubblici e privati, partecipar­e a eventi, essere investite di significat­i talvolta contraddit­tori. Meritano di entrare nei musei solo quelle opere che riescono a tenere in sé scie di storie, di leggende, di parole, di ricordi».

E ancora: come giudica la frequente mutazione dei musei in non-luoghi o luoghi di spettacolo, che non attribuisc­ono la necessaria importanza alla ricerca?

«L’obiettivo principale del museo è quello di preservare frammenti ricevuti da un passato lontano o vicino, proiettand­osi verso un futuro indefinita­mente remoto. Le collezioni di oggetti sono al centro delle preoccupaz­ioni di ogni curatore. Questa vocazione è incompatib­ile con la pervasiva inclinazio­ne all’intratteni­mento, che ritroviamo nella pratica di tante mostre museali, basate sulla centralità della narrazione: nell’intratteni­mento, al centro c’è lo spettatore che deve essere intrattenu­to; mentre gli oggetti vengono sacrificat­i per raggiunger­e questo scopo. Si tratta di tentativi che rischiano di distrugger­e l’idea stessa di museo».

Infine, i musei dopo il Covid. Che rapporto prevede tra attività «in presenza» e attività digitali, tra offline e online?

«Certo, l’importanza delle attività digitali aumenterà. Ma la percezione degli oggetti originali non verrà mai sostituita dalle immagini di quegli stessi oggetti riprodotte sugli schermi di un computer o di uno smartphone. Il pubblico va al Louvre o agli Uffizi per vedere opere vere. Questa singolare esperienza resterà sempre insostitui­bile».

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La nuova sala della Certosa Museo di San Martino di Napoli che ospita il monumental­e corpus di terrecotte (recentemen­te restaurate) che decoravano la distrutta Cappella dei Lani nella chiesa di Sant’Eligio al Mercato
L’immagine La nuova sala della Certosa Museo di San Martino di Napoli che ospita il monumental­e corpus di terrecotte (recentemen­te restaurate) che decoravano la distrutta Cappella dei Lani nella chiesa di Sant’Eligio al Mercato
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