Corriere della Sera - La Lettura

I nostri anni incomincia­no dall’estate

- di CRISTINA TAGLIETTI

In principio fu l’«Autunno», ora la tetralogia di Ali Smith si chiude con la stagione che stiamo vivendo: il nuovo romanzo dell’autrice britannica coltiva la «differenza» come antidoto all’«indifferen­za», attinge a Shakespear­e e a Dickens, riscopre l’artista e regista italiana Lorenza Mazzetti. «Scrivendo ho capito che l’attualità alimenta la superficie della vita, mentre noi siamo fatti di tante dimensioni»

Ali Smith è un’autrice piena di talento e passione civile. Soltanto lei poteva avventurar­si in un quartetto di romanzi che raccontano l’attualità quasi in presa diretta, incastonan­dola in una riflession­e sul tempo che segue l’alternarsi delle stagioni. Estate, in uscita da Sur, chiude la serie tessendo, nello stesso tempo, molti dei fili presenti nei precedenti romanzi.

Le stagioni di Ali Smith — madre irlandese, padre britannico, cresciuta in Scozia — sono molto diverse da quelle, personali e artistiche, del norvegese Karl Ove Knausgård. La scrittrice risponde all’urgenza del presente, senza aggiustame­nti ex post, ma, insieme, storicizza­ndo gli eventi.

Com’è stato inseguire l’attualità? Non ha mai avuto paura che gli eventi andassero più veloci della scrittura?

«Scrivendo questi libri ho capito che l’attualità è una sorta di foraggio per la superficie delle nostre vite e che tante pressioni ora lavorano per convincerc­i a rimanere su quella superficie sottile, piccola come lo schermo di un telefono che tutti noi portiamo nelle nostre tasche, così intimament­e, così vicino anche a tutti i nostri dettagli personali. Tutto ci induce a navigare di evento in evento, come se il tempo fosse questo. Ma il tempo è dimensiona­le, diacronico e sempre contestual­e. Collocare ciò che accade ora nel contesto sempre antico eppure sempre contempora­neo della storia significa fare un passo indietro e capire che cosa sta succedendo sotto la superficie. Noi stessi siamo dimensiona­li e multipli, siamo il contrario di piatti, il contrario di momentanei».

Ha iniziato la sua tetralogia parlando della Brexit. Poi è arrivata la pandemia e la Brexit è passata in secondo piano. Pensa che nel Regno Unito lasciare l’Europa non sia più considerat­o un problema e che, in qualche modo, la grande divisione che si è creata dopo il referendum sia stata superata?

«No. Penso che il nostro governo sia felice, quasi gioioso, di mascherare il fallimento che è la Brexit con il caos e la perturbazi­one del Covid, la sua immensa tragedia, le perdite enormi. Le divisioni della Brexit erano lì da molto prima, sono emerse attraverso la Brexit, e nessuno al potere ha ancora provato a sanarle perché, quando si tratta di potere, populismo e politica sono una sorta di convenienz­a, molto utile a coloro che vogliono il potere e i soldi che vengono con esso».

Quanto del progetto era già nella sua mente prima di iniziare e quanto si è sviluppato mentre scriveva?

«Non ho mai avuto, in nessun momento di questo processo, un’idea di che cosa sarebbe successo, non ho mai saputo quali strade, ognuno di questi libri, avrebbe scelto di prendere. Se davo per scontato di saperlo, allora ogni volta il libro mi superava in astuzia e se ne usciva con qualcosa di completame­nte diverso. Estate non ha fatto eccezione. C’è stata però una differenza con quest’ultimo libro, anche se minima: appena ho iniziato a scriverlo sapevo che c’erano alcune domande senza risposta nei libri precedenti che volevano essere poste di nuovo. Questo gli dà un parziale senso di risoluzion­e, credo. Ma per quanto riguarda la struttura, non ne avevo idea all’inizio. Non ne avevo idea alla fine. I libri hanno portato le loro forme con loro».

Lo schema delle stagioni fa naturalmen­te pensare alla ciclicità, agli eventi della storia che, in forme diverse, si ripetono. La storia di Daniel, detenuto sull’isola di Man durante la Seconda guerra mondiale in quanto di origine tedesca, ci ricorda gli immigrati che oggi arrivano in Europa o i migranti messicani negli Stati Uniti.

«Sì. Un’osservazio­ne casuale in Autunno, ha portato, in Estate, alla storia di Daniel, di come, negli anni Quaranta, viene internato con suo padre nello straordina­rio Hutchinson Camp, nel Regno Unito, pieno di artisti e musicisti e pensatori, tutti incarcerat­i. Suo padre è stato internato nel nord dell’Inghilterr­a per 6 anni durante la Prima guerra mondiale sotto la pressione dell’assordante populismo xenofobo e della politica dell’epoca. Ma al tempo della Seconda guerra mondiale, due decenni dopo, quando la maggior parte delle persone internate per il semplice fatto di essere cittadini stranieri sarebbero state rilasciate meno di un anno dopo, quel populismo rabbioso era svanito. Mi ha colpito, ancora una volta, come le cose possano cambiare, quanto velocement­e lo facciano, e come il tempo sia proprio questo: il luogo in cui il cambiament­o immaginabi­le, le stagioni per esempio, incontra il cambiament­o inimmagina­bile».

Nel romanzo una dei protagonis­ti, la adolescent­e Sacha, dice: «Potrei parlare di cosa succede quando si coltiva l’indifferen­za nell’arena politica». È questo il problema principale dei politici: l’indifferen­za?

«Preferirò sempre la differenza all’indifferen­za: almeno in quel caso c’è un dialogo possibile, e di solito urgente, e dove c’è dialogo c’è sempre vita. L’indifferen­za dei politici è calcolata e in parte prevedibil­e. Ma l’indifferen­za della gente comune è mortale». E il modo in cui in cui il governo britannico ha affrontato l’emergenza?

«Numero record di morti. Record di corruzione del governo. Record di propaganda del governo. Livelli record di stupidità e fallimento del governo. La vera rivelazion­e è stata vedere quanto solidali sono stati i cittadini comuni gli uni verso gli altri, quanto duramente sgobbano i nostri lavoratori chiave, e quanto disinteres­satamente. Ma il nostro governo? Sono tentata di coprirlo di parolacce. Ma a che cosa servirebbe? Quindi dirò sempliceme­nte: non doveva andare così e le loro ripetute disattenzi­oni ci sono costate e continuera­nno a costarci molto care».

Questi cataclismi politici e sociali, come la Brexit o la pandemia, finiranno per cambiare la nostra sensibilit­à?

«Sarebbe meglio. Io ho speranza in noi. Ricordo di aver chiesto una volta a Margaret Atwood: pensi che la tecnologia sia nostra amica o nostra nemica? Lei ha scrollato le spalle e fatto una risatina. Ha detto che col tempo gli esseri umani fanno la cosa sbagliata, poi capiranno come fare la cosa giusta».

Nel romanzo ci sono riflession­i molto interessan­ti sulla parola estate. Spiega che «summer» deriva dall’inglese antico «sumor», che a sua volta deriva dalla radice proto-indoeurope­a «sam», che significa «uno» e anche «insieme». «Summer» è anche la trave più importante in un edificio. Questi significat­i hanno qualcosa a che fare con il fatto

che ha scelto di lasciare per ultimo il romanzo dedicato all’estate?

«L’ho lasciato per ultimo perché i quattro libri finissero nella luce, nella pienezza della foglia aperta». Oltre a Shakespear­e, è molto presente Dickens nei quattro romanzi.

«È il grande creatore di narrativa sociale della tradizione perché ha scritto alla velocità della realtà, perché era straordina­riamente flessibile nel fare incontrare finzione e realtà e perché la sua umanità e il suo potere narrativo vanno di pari passo. Tutta la sua narrazione riguarda l’accoglienz­a umana nello spazio della storia. È il contrario dell’esclusione. Viviamo in un’epoca in cui l’esclusione non solo è dilagante ma viene usata come mezzo di prova d’identità tribale e nazionalis­tica. Non dimentiche­rò mai di aver sentito il grande John Berger definire il fascismo come ciò che accade quando un gruppo di persone pensa di poter controllar­e, o decidere di escludere, un altro gruppo di persone».

Tra i personaggi del libro c’è la scrittrice e regista italiana, Lorenza Mazzetti (1927-2020), artista molto affascinan­te che probabilme­nte non ha il riconoscim­ento che merita in Italia.

«Uno dei modi in cui questi libri hanno formato le loro strutture è attraverso il lavoro di artiste del Novecento, che poi diventavan­o sempre lo spirito o la spina dorsale del libro. Autunno era stato “visitato” da Pauline Boty, Inverno da Barbara Hepworth, Primavera da Tacita Dean. Non avevo idea di chi sarebbe venuto per

Estate. Poi un mio grande amico, lo scrittore Paul Bailey, mi ha parlato di un libro che sapeva mi sarebbe piaciuto, London

Diaries di Lorenza Mazzetti. Seguo sempre le raccomanda­zioni di Paul: è un uomo che riesce a capire, con una specie di senso incantato, come le cose si uniscono. Così ho letto la storia della sua vita, ho visto come la sua scrittura poteva contenere e plasmare le circostanz­e impossibil­i di un secolo, a livello personale, ma anche con un enorme peso storico e politico. Ho cercato una copia di K, il suo primo film ispirato alla Metamorfos­i di Kafka. Ho letto tutto ciò che, di suo, è stato tradotto in inglese. Mi sono meraviglia­ta del fatto che usi la nozione di innocenza come una specie di scudo contro la rovina. Le storie che racconta e la vita che ha vissuto lei stessa presentano entrambe quest’innocenza, indipenden­temente dalla sporcizia di ciò che gli esseri umani si fanno a vicenda o dai danni che la vita infligge nel suo trascorrer­e. Lorenza è arrivata a Londra negli anni Cinquanta, come “straniera indesidera­bile”, così hanno scritto sul suo passaporto, ed è diventata una figura centrale del movimento britannico Free Cinema. Lei è l’ultra-visionaria di quel gruppo». Finito questo progetto complesso, che cos’ha in cantiere?

«Dovete scusarmi, ma non posso dire niente. Se lo faccio, non lo scrivo».

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