Corriere della Sera - La Lettura
Vivaldi & C. I 12 mesi in 4 tempi
Il «prete rosso», ovvio. E Piazzolla, e «Summertime». E João Gilberto: come lui nessuno
Può la musica rievocare, attraverso i soli suoni, senza l’ausilio della parola, una sensazione, un’atmosfera? È in grado di portare chi ascolta a comprendere e condividere esattamente il significato che era nella testa del compositore mentre riempiva di pallini neri il pentagramma? Ascoltando per esempio Eine Alpensinfonie di Richard Strauss (1864-1949) ci si sente davvero dei piccoli romantici Wanderer in alta quota? E facendo scorrere nel lettore cd un’incisione dei tre «schizzi sinfonici» di La
mer di Claude Debussy (1862-1918) si riescono a percepire l’eterno movimento dell’oceano, l’onda, la tempesta? Debussy sembra spingere l’ascoltatore a usare memoria e immaginazione per ricreare una propria personale visione del mare. Del quale era profondamente innamorato. In una lettera datata 1903 e indirizzata a un amico, il compositore scriveva: «Forse non sapete che avrei dovuto intraprendere la bella carriera del marinaio e che solo per caso ho cambiato strada». E ancora viene da chiedersi quale sia esattamente la natura che descrive Gustav Mahler (1860-1911) nelle sue sinfonie.
Sono alcune delle domande sulla musica e sul suo significato, croce e cimento di artisti e musicologi. E sempre attuale. Un compositore barocco come Antonio Vivaldi (1678-1741) quando compose i concerti per violino e archi delle Quattro stagioni — uno dei primi esempi in assoluto di musica a programma, ovvero di
a carattere descrittivo — le accompagnò con altrettanti sonetti, probabilmente scritti dallo stesso «prete rosso». Canti di uccelli, il latrato del cane, le foglie fruscianti (primavera), la tempesta, la calura (estate), la vendemmia e l’ebbrezza (autunno), la pioggia che cade sul terreno ghiacciato (inverno) sono alcune delle suggestioni atmosferiche che Vivaldi ha voluto ricreare nelle Stagioni. Che, secoli dopo, ebbero una risposta argentina, con una composizione di Astor Piazzolla (1921-1992) dal titolo Las Cuatro Estaciones
Porteñas, che unisce quattro brani che l’autore e bandoneonista incise tra il 1965 e il 1970 (il 10 luglio, peraltro, al Teatro Romano di Fiesole, Firenze, alle 21.15 è previsto uno spettacolo con la versione della compagnia A.n.i.t.a).
Arcane, astratte, surreali sono le Stagioni artificiali
(2007) per violino e altri strumenti del palermitano Salvatore Sciarrino (1947), incise su etichetta Stradivarius, con solista Marco Rogliano e l’Algoritmo Ensemble diretto da Marco Angius (nello stesso cd, Centauro
marino del 1984 e gli Studi per l’intonazione del mare del 2000). Suoni improvvisi, fulminei, ventosi, cluster, per una musica che fugge, che non si fa prendere, che suggerisce senza affermare. Che vuole la partecipazione attiva di chi ascolta — come in fondo pretende la stessa natura — per essere compresa a fondo.
Stagioni come manifestazione ciclica della natura, stagioni come parte per il tutto. Ed è l’estate, quest’estate che assale con il suo vigore, a mostrarsi particolarmente generosa di suggestioni musicali. Non soltanto perché interi cataloghi di canzoni riportano a ricordi estivi, vicini e soprattutto lontani, a carezze date e ricevute, o anche soltanto desiderate. Il sapore di sale «che hai sulle pelle,/ che hai sulle labbra» lo abbiamo bene o male provato tutti, non soltanto Gino Paoli (1934) che ha composto la storica canzone nel 1964. O ne La mia
estate con te (1973) di Fred Bongusto (1935-2019) che diventa addirittura «la mia vita con te» quando i «pensieri si spegnevano». Facile immedesimarsi. Perché l’esito musicale funziona.
Non è nostra intenzione elencare i tanti titoli di brani che, da Summertime (1935) dei fratelli Gershwin e DuBose Heyward in poi, in tutti i generi, fanno riferimento all’estate ma tra tutte c’è una canzone-capolavoro che sembra racchiudere l’estate, nel testo e nella musica. Proviamo ad ascoltarla. Cinque secondi di silenzio. Attacca il flauto traverso con un suono squillante e lunghi intarsi melodici. Afferma con forza l’entrata del tema. Passano pochi altri secondi e vi si sovrappone una sezione di archi, all’unisono nel registro medio/ acuto, che crea un sottofondo etereo ma vischioso cocomposizioni me miele, che evoca un’estetica da film hollywoodiano
d’antan, in bianco e nero. Poco prima che termini il primo minuto di musica, entra la chitarra classica — con il suono celeste e inconfondibile delle corde in nylon — che si piazza sul tempo, o meglio sul controtempo, con dolcezza infinita. «Estate…», la voce sussurrata, onirica, carica di una sensualità antica, di João Gilberto (1931-2019): «Sei calda come i baci che ho perduto (…). Cadranno mille petali di rose. La neve coprirà tutte le cose, e forse un po’ di pace tornerà… (…). L’estate che ha creato il nostro amore per farmi poi morire di dolore...».
La pronuncia brasiliana del padre della bossa nova, la sua voce a mezza via tra il recitativo e un canto stanco, seduce, scioglie, abbaglia. È la Copacabana italiana, il long drink alla frutta, la sorsata fresca di vita che vorremo e che ci piace desiderare quando la temperatura sale. Anche nella tristezza della quale è impostata parte del testo. Che è stato scritto da Bruno Brighetti (19262018), su musica di Bruno Martino (1925-2000), e nasce originalmente con il titolo Odio l’estate. Il brano può vantare decine di versioni jazz, spesso riuscitissime, di Shirley Horn, Jon Hendricks, Toots Thielemans, Chet Baker, Michel Petrucciani (memorabile), Arturo Sandoval, Joe Pass ed Helen Merrill, la voce bianca forse più bella di tutto il jazz.